In un pomeriggio di metà giugno i primi
bagnanti popolano la spiaggia di Fos-sur-Mer, non lontano da Marsiglia. Qualcuno
gioca tra le onde, una bambina costruisce un castello di sabbia, gli amanti del
surf approfittano del vento. Nessuno sembra fare caso agli altiforni della
grande acciaieria in fondo alla spiaggia, né al groviglio d’installazioni
industriali e depositi di carburante che incombe.
Siamo al centro della seconda più grande
concentrazione industriale della Francia: il golfo di Fos, tra Marsiglia e le
Bouches-du-Rhône, passando per la grande laguna di Berre, dove l’acqua di mare
si mescola a quella dolce. L’intera zona include una trentina di centri urbani
e quattrocentomila abitanti. Fos, com’è chiamata qui, ne conta 17mila: è una
cittadina allo sbocco del canale che collega la laguna al mare, con graziose
casette e aiuole fiorite di lavanda. Ma è assediata dagli impianti industriali,
come si vede bene dalla piazza della chiesa che sovrasta il paese.
“Siamo circondati”, commenta Daniel
Moutet, un signore dai capelli grigi che dedica tutte le sue energie a
un’associazione di cittadini per la difesa della salute. Dal belvedere indica i
depositi di carburante a poche decine di metri dalle ultime case, le acciaierie
Arcelor Mittal in riva al mare, le fiammate delle raffinerie, gli stabilimenti
petrolchimici. Poi ancora fabbriche chimiche, cementifici, l’inceneritore che
serve la città di Marsiglia, e il porto di Marsiglia-Fos con altre raffinerie e
imprese di logistica.
Solo tra Fos e la vicina
Port-Saint-Louis-du-Rhône “ci sono tredici siti Seveso”, spiega Moutet: ovvero,
aziende classificate a rischio secondo la direttiva europea per la sicurezza
industriale. L’intera zona Fos-Berre (dipartimento
delle Bouches-du-Rhône) ne conta 69, di cui 43 a “rischio alto”. Insieme
formano il polo d’industria chimica e il deposito di idrocarburi più grandi
d’Europa, e producono un quarto delle emissioni tossiche industriali di tutta
la Francia. Si aggiungano una zona militare e una fabbrica di elicotteri Airbus
nei pressi di Marignane, l’aeroporto di Marsiglia. Siderurgia, chimica,
petrolchimica, cementifici producono una gran varietà di sostanze inquinanti
diffuse nell’atmosfera, sui terreni e le piante: “Siamo costantemente esposti a
un cocktail di sostanze tossiche”, dice Moutet.
Oggi il polo industriale di Fos è al
centro di diverse azioni legali avviate da cittadini, tra cui quella che ha
portato il tribunale penale di Marsiglia ad aprire un’istruttoria per reati
ambientali. È stato teatro di un’indagine partecipativa su salute e ambiente
che ha cambiato la percezione pubblica dell’inquinamento. Ma è anche al centro
dei nuovi piani per reindustrializzare la Francia, e potrebbe presto ospitare
un progetto italofrancese di “cattura e stoccaggio di anidride carbonica”,
guidato dalla società Air Liquide con l’Eni e la Snam. Ecco perché vale la pena
di guardare bene questo caso di gigantismo industriale tra le lagune e il mare.
Omertà
“Per anni ci hanno detto che andava tutto
bene”, dice Moutet, nella casetta sul lungomare di Fos in cui ha sede la sua
associazione (dal nome lunghissimo: Association de défence et protection du
littoral du golfe de Fos”, Adplgf). I
messaggi delle autorità sono sempre rassicuranti, ripetono che le emissioni
industriali sono nella norma, spiega.
Del resto, per decenni queste aziende
hanno dato lavoro a decine di migliaia di persone e generose compensazioni alle
municipalità, che quindi possono offrire ottimi servizi, centri sportivi,
infrastrutture. “Così tutti hanno preferito non vedere l’inquinamento”,
commenta Patrick Courtin, medico. “Negli anni sessanta, quando è stato deciso
di costruire questo polo industriale, si diceva che l’inquinamento non era un
problema perché c’è il mistral”, il vento che scende con grandi raffiche dalla
valle del Rodano, quindi da nordovest, verso il mare: “Però soffia per circa un
terzo dell’anno”.
Courtin ricorda che quando dirigeva il
reparto di rianimazione dell’ospedale di Martigues, comune confinante con Fos,
vedeva un numero allarmante di casi di tumore: “Tra i medici però non si
parlava di possibili nessi con l’esposizione alle emissioni tossiche
industriali. Si diceva: non possiamo affermare, non sappiamo”. Medici, autorità
pubbliche, gli stessi cittadini: secondo Courtin “c’è stata una sorta di omertà
generale, perché riconoscere gli effetti dell’inquinamento voleva dire
rimettere in causa l’intera politica industriale della regione”.
E poi c’è il mare: Bernard Huriaux ricorda
che quando dalla Lorena si è trasferito qui nel 1972, per lavorare
nell’acciaieria ancora in costruzione, il clima dolce del Mediterraneo l’ha
conquistato. “E comunque allora si badava solo ai posti di lavoro”, dice
Huriaux, che è stato rappresentante sindacale delegato alla sicurezza (oggi è
in pensione). Ricorda le battaglie per far riconoscere le malattie
professionali provocate dall’amianto. “Così ci siamo dovuti rendere conto delle
emissioni tossiche”.
Intorno al 2005 Daniel Moutet, che allora
lavorava nel porto di Marsiglia Fos, ha cominciato a girare con la macchina
fotografica. “Avevo di fronte la ArcelorMittal e ogni giorno vedevo fumi rossi,
neri, gialli, marrone, la chiamavo la sinfonia di colori”. Ha cominciato a
fotografarli e a riconoscere da quali impianti provenivano. Filmava le fumate
anomale (“Mi davano del matto”). Spiega che le aziende funzionano in “regime di
autocontrollo”, cioè comunicano i propri dati su emissioni e misure di
sicurezza all’ente pubblico di controllo (la Direction régionale de
l’environment, de l’amenagement e du logement, Dreal).
Moutet ha cominciato a segnalare emissioni
fuori norma. Accusa diverse aziende di abusare della “sgasatura”, quando si
aprono le valvole di impianti sotto pressione eccessiva: “È una procedura di
sicurezza ammessa entro certi limiti, invece ne approfittano per liberarsi dei
reflui”. Poi ha cominciato a raccogliere dati sulla catena alimentare. Faceva
analizzare campioni di carne di manzi e tori della Camargue negli allevamenti
locali, scopriva diossine e furani nella carne o nelle uova di gallina. “Mi
dicevano: ‘Allora ce l’hai con noi allevatori’. Ma no, erano le industrie ad
avvelenare l’ambiente e i prodotti della zona”.
Fatto sta che l’impegno dei cittadini è
cresciuto. Le malattie aumentavano, e anche le domande senza risposte. Nel 2007
migliaia di persone hanno firmato una petizione rivolta alle autorità sanitarie
perché diffondessero dati precisi sulla salute degli abitanti.
“Ma c’è voluta l’iniziativa di una
ricercatrice venuta da fuori per rompere l’omertà”, dice il medico Courtin. Si
riferisce allo studio sullo stato di salute della popolazione di questo bacino
industriale coordinato dalla sociologa statunitense Barbara Allen con un’équipe
franco-americana di ricercatori, antropologi ed epidemiologi.
Chiamato Fos epseal, acronimo di Ėtude
participative en santé environnement ancrée localment (Studio partecipativo su
salute e ambiente ancorato localmente), è stato condotto tra il 2015 e il 2017,
con ulteriori indagini, e ha avuto un effetto dirompente: ha mostrato che tra
gli abitanti dell’area industriale Fos-Port-Saint-Louis l’incidenza di malattie
come tumori, diabete e asma è abnorme. Soprattutto, ha coinvolto i cittadini e
cambiato il tono del dibattito pubblico. “Ormai nessuno può negare i fatti”,
sottolinea Courtin.
L’epidemiologia porta a
porta
Il progetto Fos epseal è nato quasi per caso,
dice Barbara Allen, sociologa all’università della Virginia, negli Stati Uniti.
Nel settembre 2013 era arrivata a Marsiglia nell’ambito di una ricerca sulla
partecipazione pubblica nella definizione delle politiche ambientali, in
collaborazione con l’Institut d’études avancées di Aix-Marseille (Iméra). “Una
delle zone coinvolte era la laguna di Berre”, spiega Allen in videochiamata.
La sociologa parlava con associazioni di
cittadini, ambientalisti, amministratori locali, medici. “Mi aiutava come
interprete l’antropologa Yolaine Ferrier, che è cresciuta nella zona. Un giorno
mi ha proposto di intervistare suo zio, che aveva lavorato in una di quelle
fabbriche fino alla pensione”. Lui ha indicato altri colleghi, da ogni
intervista ne nascevano altre, “a palla di neve”. “Finché è stato chiaro che i
cittadini non erano mai stati interpellati negli studi degli enti pubblici,
anche se nella zona c’erano state diverse indagini sanitarie, nessuno aveva mai
chiesto loro se avevano dei problemi. Molti ormai non si fidavano dei
ricercatori”.
Così Allen, Ferrier e colleghi hanno
formulato un progetto di ricerca partecipativa sulla salute dichiarata degli
abitanti del distretto industriale, ottenendo un finanziamento dall’Agence
nationale de sécurité sanitaire de l’alimentation (Anses, l’ente statale per la
sicurezza alimentare) e il sostegno di diverse istituzioni scientifiche. Uno
studio che combina l’epidemiologia (che studia frequenza e distribuzione delle
malattie) con l’antropologia e la sociologia: l’obiettivo principale “era
coinvolgere i cittadini interessati in tutte le fasi dell’indagine
scientifica”, si legge nell’introduzione.
La prima fase della ricerca era incentrata
su interviste porta a porta con i cittadini, condotte tra il 2015 e 2016.
“Abbiamo preparato un questionario sulla ‘salute dichiarata’: e perché fosse
inattaccabile ci siamo rifatti alla formulazione già usata in analoghe indagini
pubblicate su riviste scientifiche sottoposte a peer review”, spiega Allen. I
ricercatori hanno bussato a una porta su cinque di Fos-sur-Mer e
Port-Saint-Louis-du-Rhône, e raccolto le interviste in forma anonima: “La prima
domanda era sempre la stessa: ‘Le è stata diagnosticata qualche malattia?’. Poi
domande su problemi sanitari di tutta la famiglia, abitudini alimentari, fumo,
alcol, lavoro, quelli che chiamiamo fattori di stress, e così via”. Hanno
registrato le malattie diagnosticate e i malesseri dichiarati dai singoli intervistati,
disturbi cronici, difficoltà a respirare, e così via. “Quasi metà delle persone
che ci aprivano hanno accettato di rispondere, è un’ottima percentuale. Così
abbiamo creato un campione casuale (random) di abitanti”.
Allora è cominciata una serie di forum
aperti per discutere i risultati delle interviste con le parti in causa,
cittadini, medici, ricercatori, associazioni, sindacati. “I primi che abbiamo
interpellato sono stati i medici del servizio sanitario pubblico e altri
‘informatori chiave’, i quali spesso trovavano nei nostri dati la conferma di
quanto avevano osservato sul campo”, continua Allen.
Poi la “restituzione” alla cittadinanza.
“Siamo andati dal sindaco di Fos-sur-Mer, che all’inizio non ci aveva permesso
di usare spazi della municipalità per svolgere la ricerca. Ha voluto conoscere
prima i nostri risultati. Ci ha ascoltato senza dire una parola, e infine ci ha
concesso la sala comunale per un’assemblea pubblica”. Era il gennaio 2017.
“Quella sera c’era il pienone, le persone da noi intervistate e molti altri:
ormai in città tutti avevano sentito parlare della nostra ricerca”.
Barbara Allen ricorda quando, finito
l’intervento dei ricercatori, il primo ad alzarsi è stato proprio il sindaco:
“Si è voltato verso i suoi concittadini e ha detto: ‘Ecco lo studio che stavamo
aspettando’. È stato un momento importante. Da allora è stato uno dei nostri
grandi sostenitori”.
Lo studio mostrava che due terzi degli
abitanti di Fos e Port-Saint-Louis dichiarano almeno una malattia cronica, tra
cui asma e altre malattie respiratorie, disturbi cronici della pelle, o
irritazioni degli occhi e mal di testa; attesta inoltre un’incidenza abnorme di
casi di tumore (più elevata tra le donne), di asma negli adulti e di diabete di
tipo 1. “Per molti è stato uno choc, anche se in qualche modo era atteso perché
tutti avevano qualcuno ammalato tra i parenti o i vicini”, ricorda Allen.
È stato uno choc anche scoprire che sul
“fronte industriale” del golfo di Fos non c’erano differenze significative
nella salute di chi lavorava in fabbrica e chi no, cioè chi è esposto in modo
concentrato a determinate sostanze tossiche per motivi professionali, e i
residenti che si presumono esposti in modo diluito. Molti hanno testimoniato
anche di stress e pressioni sul lavoro. Tutti convivono con la malattia e la
morte. È ciò che lo studio definisce “violenza
ordinaria”: invisibile, non immediatamente percepita, “lenta”, ma inesorabile.
Lo studio partecipativo per la verità è
stato molto criticato, dopo quella prima uscita pubblica. “Molti hanno accusato
la sociologa americana di aver usato un metodo non scientifico; dicevano che
aveva raccolto impressioni, non fatti”, ricorda Daniel Moutet. Una critica più
circostanziata è arrivata dalla Santé publique France, l’agenzia nazionale per
la sanità, e riguardava il metodo.
In effetti allo studio mancava ancora una
parte essenziale per un’indagine epidemiologica: ripetere la ricerca in una
zona paragonabile della stessa regione non esposta alle emissioni industriali
(il gruppo di controllo). Così la ricerca è stata ripetuta a
Saint-Martin-de-Crau, cittadina a trenta chilometri da Fos, distante dalla
concentrazione industriale. In questa fase al team di ricerca si sono aggiunti
altri epidemiologi. Il rapporto finale è stato pubblicato
nel 2022 con il nome Fos crau epseal.
“Se c’è stato un errore non era
scientifico ma di comunicazione: aver diffuso i primi risultati, nella
discussione con i cittadini, prima di terminare la ricerca”, dice Maxime
Jeanjean, epidemiologo, che ha coordinato questa seconda parte dell’indagine.
“Lo studio Epseal documenta lo stato generale della salute, le patologie e i
disturbi cronici, e anche la percezione di chi è esposto a polveri, fumi,
emissioni industriali. Emerge senza dubbio uno stato di salute reso molto
fragile”. A studio concluso, anche la Santé publique France ne ha riconosciuto
la validità, spiega Jeanjean: “La metodologia della ricerca partecipativa è
ormai convalidata”.
Lo studio Fos epseal ha avuto un effetto
dirompente, osserva Philippe Chamaret, direttore dell’Institut écocitoyen, istituto di ricerca ambientale
indipendente ma finanziato quasi per intero da istituzioni pubbliche. Lo
incontro nella sede dell’istituto, palazzine basse nascoste tra i pini anche se
siamo in piena zona industriale di Fos. Fondato nel 2010 per studiare il
rischio ambientale e l’impatto dell’inquinamento sulla salute, l’istituto ha
una équipe multidisciplinare (ingegneri ambientali, epidemiologi, ricercatori
in scienze sociali) e collabora con università, Consiglio nazionale della
ricerca scientifica e altre istituzioni.
“La nostra ricerca parte dalle richieste
del territorio”, spiega Chamaret: enti locali, prefettura, aziende, sindacati,
associazioni di cittadini. Il coinvolgimento degli abitanti è sollecitato, ad
esempio in un Osservatorio cittadino sull’ambiente che raccoglie dati forniti
da una rete di volontari a cui l’istituto dà formazione e protocolli precisi.
“È importante perché oltre al dato scientifico abbiamo accesso alle
segnalazioni, alle impressioni e anche alla rabbia di chi vive in un territorio
interessato da così tante attività industriali”.
Discusso, criticato, lodato, lo studio Fos
epseal ha suscitato grande attenzione pubblica. È stato invocato da chi si
opponeva a un nuovo inceneritore per i rifiuti solidi urbani di Marsiglia (che
infine è stato bocciato). È diventato uno strumento di battaglia.
Nel novembre 2018 l’associazione diretta
da Daniel Moutet ha contattato a Marsiglia l’avvocata Julie Andreu,
specializzata in cause su salute, ambiente e lavoro. Con la sua assistenza, un
gruppo di cittadini di Fos ha depositato al tribunale di Marsiglia una denuncia
contro ignoti per aver “messo deliberatamente in pericolo la vita altrui”. La
documentazione era solida, tanto da spingere la giudice d’istruzione Nathalie
Roche ad avviare un’istruttoria. “La giudice ha ritenuto di prendere in
considerazione le cinque o sei maggiori aziende sul territorio”, spiega
l’avvocata Andreu nel suo ufficio in centro a Marsiglia. “Ma ha deciso di
considerarle una per volta: così ha cominciato con la ArcelorMittal”, primo
inquinatore della zona.
L’istruttoria dura ormai da quattro anni
“ed è stata molto seria e approfondita: speriamo che ci saranno presto novità”.
Se ci sarà un rinvio a giudizio, la ArcelorMittal potrebbe dover rispondere di
diversi reati e irregolarità. Sarebbe la prima volta in questa zona.
Poi c’è la causa civile promossa nel 2021
da quattordici cittadini di Fos contro tre aziende accusate di “disturbo
anomalo del vicinato” (la ArcelorMittal, la Esso, la Dépôts pétroliers de
Fos-Dpf). La querela è stata respinta in primo grado (il tribunale l’ha
giudicata non ricevibile). Ora però la corte d’appello “ha emesso una decisione
favorevole”, spiega Andreu: con sentenza del 13 giugno ha stabilito che i
cittadini hanno motivo di perseguire le aziende, perché non potevano immaginare
che le loro emissioni superavano i limiti ammessi, come dimostrato dai numerosi
incidenti, sgasature, fiammate. Un nuovo giudizio dovrà definire il danno
subìto dalle persone. A sostegno i querelanti citano ancora una volta lo studio
Fos epseal.
Infine si prepara una nuova causa civile,
in cui un centinaio di cittadini e associazioni ambientaliste vogliono citare a
livello nazionale e locale le istituzioni responsabili del controllo del
rischio per la salute dei cittadini. “Questa sarà la causa più difficile”,
ammette l’avvocata. “Ma aver avviato le azioni legali ha già suscitato grande
attenzione pubblica. È la nostra prima vittoria”.
A Fos-sur-Mer, Daniel Moutet dice che le
azioni legali sono solo uno strumento di battaglia. “Non cerchiamo
risarcimenti. L’obiettivo è che si riconosca che le soglie d’inquinamento sono
state superate, che queste fabbriche hanno diffuso reflui tossici in modo
consapevole e sistematico. E che hanno messo in pericolo la nostra salute”. In
fondo, aggiunge, “non chiediamo che chiudano. Ma vogliamo che rispettino le
regole e smettano d’inquinare”.
Una zona sacrificata?
“Ormai nessuno può fare a meno di citare
lo studio Fos epseal”, osserva Philippe Chamaret sotto il portico dell’Institut
ecocitoyen: “Tutti devono almeno far vedere che prestano ascolto ai cittadini”.
Perfino la locale prefettura ha invocato lo studio partecipativo, quando ha
istituito un laboratorio territoriale sulla reindustrializzazione.
Già, perché nonostante il gran numero di
aziende presenti, nel bacino industriale di Fos si parla di circa novecento
ettari di terreno da destinare a nuovi impianti, con investimenti progettati
per 15 miliardi di euro: in nome della decarbonizzazione si parla di idrogeno,
nuovi materiali, energie rinnovabili. Anche il progetto franco-italiano di
cattura e stoccaggio di anidride carbonica denominato Callisto si svilupperà
qui: nessun dettaglio è stato ancora diffuso, ma lo scorso dicembre la
Commissione europea l’ha incluso tra i progetti di interesse comune.
Secondo il progetto, a Fos-sur-Mer dunque
dovrebbe sorgere un nuovo impianto per liquefare l’anidride carbonica catturata
dalle emissioni industriali del distretto. Eppure restano molti dubbi. Non è
chiaro per esempio come questa CO2 verrebbe poi trasferita fino a Ravenna per
essere immagazzinata nei pozzi di gas esauriti del mare Adriatico, e a quali
costi. Le aziende interessate, la Air Liquide, la Snam e l’Eni, non rivelano
dettagli. “Il sospetto è che sia soprattutto un modo per raccogliere fondi
pubblici, incentivi e sgravi fiscali destinati alla decarbonizzazione”, dice
Elena Gerebizza, ricercatrice dell’associazione ReCommon, che ha dedicato un
ampio dossier alle “false promesse” della cattura e stoccaggio di carbonio, tra
cui il progetto Callisto.
Comunque sia, nel laboratorio territoriale
del golfo di Fos sono rappresentate amministrazioni locali, parti sociali,
aziende, sindacati e istituti di ricerca, incluso l’Institut ecocitoyen. Un
modo per indorare la pillola, per far accettare nuove espansioni industriali?
Molti qui ne sono convinti. “Se almeno servisse a non ripetere gli errori degli
anni sessanta”, commenta Chamaret. “Allora il polo industriale fu costruito in
uno schiocco di dita, in pochi anni, senza la minima attenzione all’impatto
ambientale o alla salute dei cittadini. Questa volta non ci sono scuse. Noi
terremo gli occhi aperti”.
Intanto sulla strada di accesso alla
spiaggia di Fos, un grande cartello avverte che siamo in una zona di rischio
industriale, con le istruzioni in caso di evacuazione d’emergenza. Accanto,
un’anziana coppia pesca nel canale che costeggia la zona industriale. Patrick
Courtin, che da quando ha lasciato l’ospedale collabora con l’Institut
écocitoyen, teme che il golfo di Fos sia ormai una “zona sacrificata”: così
compromessa dall’inquinamento che tanto vale mettere qui nuove fabbriche.
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