Un gruppo di esperti della sanità pubblica propone un intervento finanziario urgente per attuare una serie di misure radicali volte a preservare un intero sistema che è in conclamata difficoltà e così garantire cure adeguate e universali a tutti. Paolo Vineis, professore ordinario di Epidemiologia ambientale all’Imperial College di Londra e tra i firmatari del documento, spiega punto per punto come provare a intervenire
Un piano
straordinario di finanziamento a favore dei servizi di sanità pubblica per salvarli
dalla lunga crisi che stanno attraversando, anche perché fortemente
sottofinanziati. La proposta è circolata lo scorso aprile, promossa da un
gruppo di operatori del servizio sanitario, medici, ricercatori, professori
universitari, accademici dei Lincei che ha elencato in modo dettagliato quali
sono gli interventi prioritari da attuare e, soprattutto, perché l’Italia “non
può fare a meno del Servizio sanitario nazionale (Ssn)”.
Paolo
Vineis, professore ordinario di Epidemiologia ambientale all’Imperial College
di Londra e tra i firmatari del documento, spiega ad Altreconomia perché
è preoccupato e teme che “sia in atto una lenta transizione verso la
privatizzazione” del sistema. “Vogliamo richiamare l’attenzione dei politici,
dei media e di tutta la cittadinanza su questo tema che per noi è cruciale”.
Professor
Vineis, diversi appelli si sono susseguiti negli ultimi anni con l’intento di
richiamare l’attenzione sui rischi che corre il nostro il Servizio sanitario
nazionale. Da dove nasce l’esigenza, da parte sua e dei suoi colleghi, di
scrivere questo documento adesso?
PV Abbiamo
pensato di sottoscrivere un documento che fosse descrittivo della situazione di
difficoltà del sistema sanitario, che si traduce nell’incapacità del sistema di
garantire adeguatamente i livelli essenziali di assistenza e di mantenere la
sua natura originaria universalistica, ossia rispondere al bisogno sanitario di
tutti i cittadini senza distinzione di reddito. Questa situazione è determinata
dal fatto che il Servizio sanitario italiano è sottofinanziato: si prevede per
il 2025 che la quota del Prodotto interno lordo (Pil) destinata alla spesa
sanitaria sarà del 6,5%, mentre in altri Paesi avanzati è dell’8-9%, perfino il
10%. Noi siamo preoccupati soprattutto per il futuro, e temiamo che sia in atto
una specie di transizione lenta verso la privatizzazione, che implica un
incremento delle disuguaglianze sanitarie che già esistono tra Nord e Sud, per
esempio, e poi tra classi sociali. Vogliamo richiamare l’attenzione dei
politici, dei media e di tutta la cittadinanza su questo tema che per noi è
cruciale.
In che cosa
si manifesta quella che lei definisce la lenta transizione verso una
privatizzazione del sistema?
PV Prima
di tutto vediamo che c’è un aumento della spesa privata, solo in parte dovuta
al rallentamento causato dell’emergenza Covid-19 che aveva creato un ingorgo
nelle liste di attesa. È cresciuta quella che si chiama spesa out-of-pocket,
ciò quello che le persone spendono direttamente di tasca propria per visite,
esami e test. Si consideri che la spesa sanitaria del servizio
nazionale è pari a più di 120 miliardi in totale, e quella privata è di circa
40 miliardi, quindi un terzo. In secondo luogo, temiamo che da questa tendenza
possa orientare il sistema in direzione più privatistica. Vogliamo invitare a
riflettere sui rischi che ci sono nel lasciare che il servizio sanitario vada
alla deriva se non viene salvato con azioni radicali, ovvero aumentando la
spesa sanitaria pubblica e l’appropriatezza delle prestazioni, quindi
assicurando che siano fornite prestazioni efficaci e che hanno un impatto
egualitario.
Tra i punti
citati nel documento c’è il tema dell’assistenza territoriale, le case di
comunità e gli altri servizi di questo tipo, il ruolo degli ospedali e dei
medici di famiglia. Come, secondo il vostro parere, dovrebbero funzionare tutte
queste cose insieme?
PV Ci
sono vari passi potenziali che si possono fare. Uno che viene proposto da molti
è l’integrazione dei medici di medicina generale all’interno del servizio sanitario
nazionale, perché al momento sono dei liberi professionisti. Dovrebbero quindi
definirsi migliori e più specifiche regole per definirne i rapporti con il
resto del servizio sanitario. La questione delle case di comunità, degli
ospedali di prossimità e di questo tipo di strutture territoriali -e del
rapporto con gli ospedali veri e propri- va posta nel giusto contesto.
L’ospedale è un luogo per il trattamento delle condizioni acute, un luogo ad
alta tecnologia spesso molto costosa. Da questo punto di vista i percorsi
diagnostico-terapeutici ad alta specializzazione dovrebbero essere il più
possibile centralizzati, perché vi sono numerose prove del fatto che
l’efficacia delle cure è tanto maggiore quanto maggiore è il numero di casi che
il medico tratta. Non ha senso che ci siano reparti in cui viene fatto un
intervento chirurgico per il cancro della mammella ogni sei mesi. Da un lato ci
dovrebbe essere quindi più centralizzazione dei servizi ad alta
specializzazione, dall’altro però dovrebbero essere create strutture più vicine
alle persone, che siano intermedie tra il medico di medicina generale e
l’ospedale e che soprattutto siano efficaci nell’assistenza di lungo periodo,
cioè tutto ciò che deve essere fatto dopo l’ospedalizzazione. Quindi la riabilitazione
e altri aspetti legati alla cronicizzazione della malattia. Per fare un
esempio, i diabetici richiedono molta assistenza per un lungo periodo di tempo,
perché hanno tanti problemi legati al sistema vascolare, alle cardiopatie, a
disturbi renali, oculari, e così via. Tutto questo non può essere garantito
soltanto dal medico di medicina generale e non deve necessariamente comportare
un’ospedalizzazione. Di qui l’importanza di strutture intermedie coordinate tra
loro e con l’ospedale. C’è poi il problema dell’assistenza agli anziani con
problemi di non-autosufficienza, che può essere largamente delegata
all’assistenza infermieristica domiciliare. Se i soldi che vengono utilizzati
per le badanti venissero utilizzati per istituire un sistema ben strutturato
di long term care, ci sarebbero molti vantaggi anche perché non
sempre le badanti sono qualificate per un certo tipo di assistenza sanitaria.
Scrivete
inoltre che c’è anche l’esigenza di fare “delle scelte politiche trasparenti
basate su prove scientifiche, su quali prestazioni garantire e quali limitare”.
Ci sono delle prestazioni che non dovrebbero essere garantite dal Ssn?
PV Il mio
parere personale è che in una situazione di carenza, il sistema dovrebbe
garantire prima di tutto le prestazioni che sono di provata efficacia, cioè che
aumentano la speranza e la qualità della vita. Ed escludere quelle legate ad
alcune patologie sfuggenti, come la sindrome da affaticamento cronico e la
fibromialgia, per le quali i sintomi sono soggettivi e non c’è nessun test del
sangue o esame per diagnosticarle. C’è anche un problema di inappropriatezza
delle prescrizioni. Si calcola che circa 30-40% dei test
diagnostici prescritti non siano appropriati. È un problema complicato perché
ci vorrebbero linee guida precise, e quelle che ci sono spesso non vengono
applicate. Ed è una questione di negoziazione tra il paziente e il medico, che
porta i medici ad eccedere nel prescrivere prestazioni, per paura di ricevere
denunce (la “medicina difensiva”).
Per quanto
riguarda la ricerca e l’innovazione, da una parte sottolineate la necessità di
investire di più in ricerca e dall’altra suggerisce di modificare i rapporti
con le industrie per quel che riguarda i rimborsi da garantire alle aziende per
la produzione di farmaci e trattamenti innovativi. Mi spiega come si legano
queste due cose?
PV L’idea in
generale, anche dopo l’esperienza del Covid-19, è che lo Stato debba avere una
funzione di garanzia per i cittadini nel pianificare la risposta ai problemi
che emergeranno. Questo vuol dire assicurare e programmare la ricerca su
problemi che possono non essere convenienti per l’industria farmaceutica, come
le malattie tropicali neglette che non attirano finanziamenti e ricerche perché
non remunerative in quanto i Paesi in cui sono diffuse non hanno le risorse per
acquistare i farmaci. Lo Stato però non può fare interamente tutta la ricerca
medica. Allora il Servizio sanitario nazionale e le sue emanazioni, cioè
l’Istituto superiore di sanità oppure istituti di ricerca prestigiosi come il
Mario Negri, devono avere una funzione strategica, identificare quali sono i
fabbisogni e le risposte, anche creando nuovi modelli di business con
l’industria. Di qui la necessità del ruolo dello Stato che può, per esempio,
anticipare i soldi, comprare delle quote di farmaci o di vaccini in anticipo.
E poi c’è la prevenzione, il settore meno finanziato del Servizio sanitario.
PV C’è una
certa confusione su che cosa sia prevenzione. Spesso nei documenti medici o
politici per prevenzione si intende quella secondaria (la diagnosi precoce).
Ciò porta a una certa deriva pericolosa, cioè, fare più esami di screening che
invece devono essere fatti a condizioni molto precise, quando servono a
migliorare la prognosi di una malattia. La prevenzione è soprattutto evitare
l’esposizione a fattori di rischio. Probabilmente almeno metà dei casi di
diabete potrebbero essere evitati con attività preventive che riguardano
l’alimentazione e l’attività fisica. L’Italia ha una delle frequenze di obesità
infantile più alte in Europa, e ciò significa che nei prossimi decenni ci
saranno tanti adolescenti e adulti obesi, a rischio di diabete. La prevenzione
diventa allora assolutamente decisiva, a partire dal promuovere l’attività
fisica nelle scuole e continuando a migliorare l’alimentazione. Parte della
spesa sanitaria potrebbe essere ridotta proprio prevenendo le malattie come
diabete, obesità, malattie cardiovascolari, cancro.
Un’altra
forma di prevenzione in salute sono le politiche di mitigazione dei cambiamenti
climatici, vale a dire di riduzione delle emissioni. Nei suoi studi definisce
questo nesso come “politica dei co-benefici sanitari”. Di che cosa si tratta?
PV In estrema
sostanza si può dire che molti degli interventi di prevenzione hanno un effetto
positivo sul cambiamento climatico e viceversa. Usare meno l’automobile e di
più i mezzi pubblici, fare più strada a piedi o in bicicletta, aumentano la
quota di attività fisica svolta dalle persone con effetti positivi sull’obesità
ma anche alla riduzione dei gas serra. Anche l’alimentazione, la dieta
mediterranea, quella vegetariana, hanno effetti positivi sulla salute e sulla
riduzione delle emissioni derivanti dalla produzione di carne. Se diabete e
obesità sono già un problema enorme di sovraccarico del sistema sanitario, a
questo si aggiunge il riscaldamento globale che per il momento vuol dire
soprattutto le ondate di calore, durante le quali aumentano enormemente le
ospedalizzazioni soprattutto degli anziani e delle persone fragili. C’è poi un
problema, ancora abbastanza limitato, di malattie infettive che arrivano in
Italia come la dengue o la Chikungunya e che sta aumentando anche a causa dei
cambiamenti climatici.
Fatte tutte
queste considerazioni, che conseguenze può avere l’autonomia differenziata sul
Servizio sanitario?
PV Noi siamo
fortemente contrari all’autonomia differenziata. È importante per me chiarire
che l’uguaglianza tra i cittadini, ovunque essi risiedano, non è soltanto un
valore in sé ma ha anche un valore tecnico-scientifico. Un cittadino che riceve
cure tardive perché non accede allo screening per il cancro è
un cittadino che alla fine finisce per costare di più al sistema e alla
comunità. È nell’interesse della collettività garantire assistenza sanitaria
uguale per tutti, efficiente ed efficace. Il fatto che la sanità del Sud
funzioni piuttosto male -con grandi centri di eccellenza che fanno eccezione-
porta a una forte migrazione sanitaria che ha costi enormi sia economici sia
personali, e comporta comunque un ritardo diagnostico, un ritardo terapeutico e
un costo per la collettività. In un regime di autonomia differenziata si
acuiscono questi problemi. Se nel sistema attuale le Regioni più ricche
contribuiscono, attraverso un’integrazione attraverso il sistema fiscale, a
mantenere in piedi un sistema omogeneo a livello nazionale, con la proposta
approvata dalle Camere i contributi per i servizi sanitari regionali saranno
proporzionali alle erogazioni fiscali delle diverse Regioni e dunque la
funzione di redistribuzione verrà meno. Noi siamo convinti che i livelli
essenziali di assistenza, devono continuare a essere garantiti in modo uguale
in tutte le Regioni.
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