giovedì 18 luglio 2024

Panorami post-agricoli - Paolo Bosca

 

Sul legame tra arte, terra e agricoltura

 

La ricerca artistica di Fernando Garcia Dory, fondatore di Inland Collective, e Luigi Coppola, membro di Casa delle Agriculture, riflette sul rapporto tra arte, territorio e agricoltura, e considera l’ecologia non semplicemente come oggetto di interesse artistico, ma come un processo sistemico in cui e con cui agire. Inland è un collettivo paraistituzionale che opera attraverso vari centri per la creazione di iniziative culturali rivolte al territorio agricolo: la base operativa e il luogo di sperimentazione del collettivo è in un villaggio nel nord della Spagna, in cui Garcia Dory e il suo gruppo portano avanti la loro ricerca sull’utilità dell’arte per la co-progettazione di soluzioni alternative all’interno di contesti rurali. Il bisogno di un luogo fisso dove gettare le proprie radici e in cui seminare stabilmente e ciclicamente nuovi sviluppi artistici è nato nel 2013, alcuni anni dopo l’inizio dell’esperienza di Inland, ed è motivato dalla volontà di occuparsi della sostenibilità stessa del sistema artistico, che nonostante la grande attenzione rivolta al soggetto-oggetto ambiente continua a essere un luogo di gerarchia, iperproduttività, ipermobilità ed estrattivismo.

L’esperienza di Luigi Coppola comincia invece a Torino dove, parallelamente agli studi universitari, è nel mondo del teatro che si manifesta l’interesse verso i processi collettivi di produzione dell’arte. Da lì nasce un percorso autoriale individuale che continua ancora oggi, sempre caratterizzato dall’ascolto verso le comunità di riferimento, spesso marginali, alle quali la sua ricerca artistica si rivolge. È recente, ad esempio, la pubblicazione di Ex Situ. Compatible avec la vie (Kunstverein, 2023), un libro che raccoglie saggi e testimonianze sull’uso agricolo, politico e narrativo dei suoli, a partire dall’esempio di Lubumbashi nella Repubblica Democratica del Congo. O ancora il lavoro free press sugli ulivi in Puglia, terra in cui Coppola passa gran parte del proprio tempo, pubblicato col titolo di Vinculum, in cui si raccolgono testimonianze e suggerimenti pratici per rispondere alla crisi portata dal batterio Xylella e a quella, ben più ampia, che sta investendo il modello agricolo intensivo nel Sud Italia.

Coppola fa parte dal 2013 di Casa delle Agriculture, un progetto di coltivazione di ortaggi, cereali e di molitura sociale a Castiglione d’Otranto, in provincia di Lecce. È lì che ci incontriamo per parlare di come l’arte possa contribuire a ripensare l’immaginario agricolo attraverso narrazioni nuove, diverse, laterali. Pur dedicando gran parte del proprio tempo all’arte della coltivazione nei terreni della Casa delle Agriculture, per Coppola non c’è contrasto tra lavoro pratico e teorico, anzi: tra terra e immaginario l’unione può essere davvero perfetta. L’arte si rivela, in casi del genere, in tutta la sua utilità come stimolo per la coscienza critica, come produzione di risorse per la comunità che vanno dalla narrazione territoriale alla ricerca di economie alternative, che potranno in futuro dare buoni frutti.

 

Tanto Garcia Dory quanto Coppola hanno potuto fare concretamente ecologia, dentro e fuori la pratica artistica, grazie a un’alleanza molto stretta con un settore della società che condivide con quello artistico la posizione di marginalità rispetto ai flussi produttivi ed economici: il mondo agricolo. Un’alleanza tra lavoratori dell’arte e lavoratori agricoli – tra terra e immaginario – che si muove in direzione opposta rispetto alle politiche (e alle poetiche) di rewilding oggi molto in voga, le quali vedono nell’idea di “selvatico” la soluzione migliore della crisi dei territori. Nei processi di rewilding l’umano semplicemente si sottrae, sconfitto, alla propria responsabilità di abitante della terra. L’agricoltura, al contrario, è un modo con cui da millenni l’umano scambia e si relaziona con il pianeta per trarne la propria sussistenza. Attraverso il lavoro agricolo gli esseri umani si assumono la responsabilità del vincolo che li lega alla terra, nel bene e nel male. “La fertilità”, mi ha detto Luigi Coppola, “si espande dai margini dei campi, delle strade e degli uliveti, per poi raggiungere il centro. Bisogna cominciare dai margini”.

Come per i campi, la fertilità comincia al bordo del nostro mondo, nei contesti rurali che costituiscono il margine del nostro tempo e delle nostre città. È una tesi sostenuta anche da Garcia Dory, che nel corso di un evento organizzato a Torino in collaborazione con Cripta 747 e APS Salotto di Miranda ha ribadito come viviamo ormai in un’era “post-agricola”: il lavoro della terra non occupa più un posto centrale né nell’economia né, tantomeno, nella produzione di capitale simbolico e di immaginario in Occidente e in Italia. Il calo è drastico nel numero di impiegati, nel numero di aziende, nel numero di imprenditori e nel contributo che questo tipo di attività dà al PIL nazionale. Oltre che sulla deruralizzazione, tutto ciò ha un impatto drastico anche sull’uso dei suoli.

Su Nature Communications si parla di post-agricultural landscapes per definire il paesaggio che emerge dal progressivo abbandono di aree dedicate alla produzione agricola. Queste zone, che sono sempre di più, vengono individuate come possibili risorse per la creazione di oasi di biodiversità capaci di assorbire carbonio e impattare positivamente sulle circostanze ambientali. Ci sono però alcuni problemi, che aiutano a capire quanto, anche nei contesti scientifici di maggior prestigio, la marginalità del mondo agricolo non si limiti alla questione economica ma riguardi la stessa riconoscibilità e leggibilità del contesto rurale. L’articolo in questione non contiene infatti alcuna indicazione rispetto a quale forma specifica di agricoltura e sfruttamento del territorio fosse presente nei paesaggi post-agricoli presi in esame. Non è specificato in alcun modo se si trattasse di appezzamenti dedicati ad agricoltura intensiva o a agricoltura biologica, di sussistenza o industriale.

Nonostante l’attenzione rivolta al soggetto-oggetto ambiente, l’arte continua a essere un luogo di gerarchia, iperproduttività, ipermobilità ed estrattivismo.

Solo grazie a una consapevolezza, seppur minima, di questi contesti è possibile comprendere le dovute separazioni tra pratiche invasive, operate su larga scala e con l’ausilio di sementi e prodotti dannosi, e pratiche attente alla rigenerazione e alla sostenibilità dell’intera filiera. “Agricolo” raccoglie tanto l’agroindustria che fa uso massiccio di pesticidi e automezzi invasivi, quanto l’agricoltura su medio-piccola scala, che magari si è convertita a pratiche più invasive solo con la green revolution, fino ad arrivare ai produttori più attenti, consapevoli del ruolo di “manutentori” della terra. Il fatto che si offra un quadro rigidamente duale tra agricolo tout court e post-agricolo inselvatichito è una grossa semplificazione del mondo rurale. La maggior parte delle persone vive in città e non fa esperienza quotidiana diretta della campagna, neanche attraverso il cibo, che arriva impacchettato e senza più stagionalità sui banchi della grande distribuzione. Questo produce un’inevitabile distanza, che lascia spazio a una visione troppo semplicistica per cui lavorare la terra si riduce ad estrarre, da essa, valore e risorse. La terra appare sempre più come un manto vergine e, per ripristinarlo, la sola cosa da fare è non toccare. Il nome che spesso viene accostato a questa verginità è “natura”.

In realtà, il rapporto tra l’umano e la terra si esprime anche attraverso il lavoro agricolo. Non si tratta di un rapporto a senso unico, di puro sfruttamento: o meglio, non per forza. La campagna, di fatto, è l’opposto della natura: è caratterizzata dal lavoro, dall’adattamento che si esprime in ogni elemento del paesaggio. Tuttavia troppo spesso queste due parole vengono usate come sinonimi. La “casa in campagna” è il buen retiro dove abbandonarsi al silenzio del bosco, non il luogo dove rimboccarsi le maniche. Nessuno vuol sentire il continuo ronzio di un trattore che lavora mentre si sta godendo il riposo tra campi e vigneti.

Questo rovesciamento è diretta conseguenza dello sviluppo urbano moderno, che oltre a cambiare il volto delle città ha anche modificato la percezione di ciò che sta fuori da essa. Di questa inversione parla Augustin Berque, geografo e filosofo francese, in Pensare il paesaggio (2022)quando individua come tratto fondamentale delle società complesse proprio la “rimozione del lavoro della terra”. La terra, che per il contadino è fatica, opportunità, sussistenza, diventa natura selvaggia in cui l’essere umano appare come intruso o dominatore. È l’antropocentrismo più sfrenato che crea la sua stessa controparte, per bilanciare l’incapacità di una relazione sana con quel che lo circonda. La città produce la natura, è ben lontana dall’esserne l’antitesi. Il musicista e vignaiolo Maurizio Carucci racconta che, quando dice di vivere in Appennino, si vede spesso rispondere: “ma non c’è niente, è vuoto”. Ironizzando, Carucci suggerisce che siamo noi a non esser capaci di vedere quante cose vibrano in quel territorio, che perciò ci immaginiamo vuoto. Città uguale “pieno” (coinvolgimento, scambio, incontro, pratica), natura uguale “vuoto” (silenzio, solitudine, lasciar correre la vista, intimità passiva): non c’è nessun conflitto, sono due cocci dello stesso vaso, ambedue conservano le tracce della stessa frattura.

Una conseguenza diretta di queste visioni del paesaggio agricolo è la “gentrificazione rurale”, di cui si parla molto, soprattutto in Italia, in riferimento a quelle aree rurali che vengono convertite al business del turismo. Il geografo Martin Philips dell’Università di Leicester individua alcune caratteristiche peculiari della gentrificazione rurale. Comincia con l’immigrazione di persone provenienti da classi sociali elevate verso luoghi marginali e legati tradizionalmente alla sussistenza agricola, un’immigrazione che impatta sul paesaggio con la trasformazione di sempre più edifici legati ai servizi quotidiani in spazi residenziali per il turismo breve o lungo. La conseguenza inevitabile è lo spostamento delle persone autoctone e delle attività legate alla sussistenza verso altre aree, in seguito all’innalzamento dei prezzi o alla perdita di servizi. È evidente che si tratta di fenomeni interconnessi.

Sono esempi di gentrificazione rurale in Italia luoghi come Civita di Bagnoregio o buona parte delle Langhe, in cui i processi evidenziati da Philips sono palesi e già in stato avanzato, ma ci sono molte altre zone rurali d’Italia e d’Europa dove sta accadendo lo stesso. Nella gentrificazione rurale ad essere escluso è, di nuovo, l’elemento agricolo su cui si basa la possibilità di vivere in campagna produttivamente. Campagna e natura diventano una cosa sola: il teatro del buen retiro dove ci si trasferisce per scacciare le fatiche quotidiane e il trambusto cittadino. È una forma di colonialismo, in cui l’agricoltura e chi ci campa finiscono tra incudine e martello, senza risorse sufficienti e soprattutto senza immaginari concreti di sussistenza e partecipazione attiva alla contemporaneità, al di fuori del mercato dell’accoglienza turistica e della spettacolarizzazione arcaica e conservatrice del proprio lavoro.

Nella diffusione della gentrificazione rurale anche l’arte ha fatto la sua parte. Garcia Dory cita a titolo d’esempio il romanticismo inglese, che ha contribuito a creare un’immagine della natura come luogo incontaminato, inospitale ma affascinante, grazie al quale gli esseri umani possono fare esperienza di emozioni sublimi e catartiche. In tempi più recenti due esempi che, in maniere diverse e sullo stesso territorio, mantengono viva l’impressione di un’arte che di fronte al mondo rurale presta il fianco a uno sguardo superficiale e astratto sono il Big Bench Communnity Project, avviato nelle Langhe da Chris Bangle e l’omonimo studio, e La cappella del Barolo realizzata nel 1999 da David Tremlett e Sol LeWitt a La Morra, in provincia di Cuneo, su commissione di Bruno Ceretto.

La terra appare sempre più come un manto vergine da non toccare, e il nome che spesso viene accostato a questa verginità è ‘natura’.

Il primo dei due progetti artistici comprende oggi centinaia di enormi panchine colorate, situate in zone rurali che offrono una visuale particolarmente suggestiva. Il progetto è nato a Clavesana, in provincia di Cuneo, per poi espandersi un po’ ovunque in Italia e in Europa. La cappella del Barolo è invece una cappella sconsacrata dove è stato fatto un intervento pittorico che ha completamente trasformato l’aspetto dell’edificio, oggi coloratissimo e di grande impatto visivo. Si tratta, in ambo i casi, di strutture che ogni giorno ospitano centinaia di visitatori, incantati di fronte alla stranezza dell’opera e alla bellezza del paesaggio. Raccolgono un enorme consenso di pubblico e sono diventate una tappa obbligata per turisti e autoctoni. Sembrano offrire un punto di vista vantaggioso sul paesaggio e, con il loro aspetto gradevole, esaltarne la suggestività.

Il ruolo dell’artista in questi casi non ha nulla di ecologico pur trovandosi nel bel mezzo di un territorio rurale. L’arte non entra in alcuna relazione, tantomeno critica, con le dinamiche concrete del proprio contesto di riferimento. Nel caso delle Langhe, si tratta di una terra che non si può ridurre ai paesaggi mozzafiato e ai vini di pregio: le Langhe sono un luogo di iper-sfruttamento dei suoli, di impoverimento dell’ecosistema in cui i boschi sono quasi completamente assenti e tutto il panorama è occupato da una monocultura, condotta spesso in maniera invasiva. È una zona dove il prezzo della terra è cresciuto vertiginosamente, in cui sono tutt’altro che assenti le disuguaglianze sociali e i rischi connessi al clima. È un territorio che rispetta alla perfezione ciascuna delle tre caratteristiche della gentrificazione rurale evidenziate da Philips. Lo stesso discorso vale per le panchine giganti.

I contesti rurali sembrano intrappolati nella convinzione diffusa che la loro unica “risorsa” culturale risieda nella tradizione, una tradizione che fatica a uscire dal passato per affacciarsi oltre. Mentre il futuro si realizza nelle città, densamente popolate e produttive, il destino dello spazio che rimane sembra essere quello di rivoltarsi su sé stesso, nell’eterna riproduzione di vecchi spettacoli. “La cultura è uno dei principali fattori di espropriazione delle aree rurali”, ha dichiarato Garcia Dory nel corso dell’evento a Torino. Eppure, a suo modo di vedere, l’arte avrebbe tutto il potenziale per “dinamizzare” le aree rurali, nel senso di smuoverne la fertilità, imprimendo vigore e vitalità. Nell’opera di Inland, come in quella dei collettivi radunati, ad esempio, dalla Confederacy of Villages, questo si traduce nella co-creazione collettiva di processi e strumenti che aiutino chi abita in zone rurali a immaginare strade concrete di progettazione imprenditoriale e sociale.

Un esempio: di fronte alla mancanza di un’economia sostenibile per la vendita del latte, arrivato a prezzi troppo bassi per garantire il sostentamento delle famiglie, Inland ha collaborato con gli abitanti di un paese situato nel nord della Spagna per produrre una macchina che permettesse di realizzare formaggio anche con quantità minime di latte, abbattendo il costo fisso dei macchinari e creando uno strumento condiviso di produzione ed espressione. Espressione perché attraverso le scelte produttive del formaggio si concretizza l’identità del produttore, il quale, nel frattempo, può garantirsi guadagni sufficienti attraverso la commercializzazione di un prodotto trasformato. Visto che non era presente, sul territorio, una tradizione viva di produzione casearia, Inland ha organizzato una degustazione pubblica di tanti tipi di formaggi diversi e poi, attraverso un questionario, ha offerto la ricetta del formaggio con le caratteristiche che avevano raccolto maggior “consenso”, per cominciarne la produzione. Si tratta, di nuovo, di uno spazio di consenso, ma rivolto a chi vive la ruralità, a chi la terra la lavora e la abita, o vorrebbe farlo.

Ciò che accomuna i racconti di coloro che si trovano a vivere fuori dai centri urbani o a intraprendere attività agricole di sussistenza e commercio è il timore per quella “mancanza di stimoli” che, più precisamente, può esser definita come mancanza di un orizzonte culturale di riferimento, che faccia sentire chi lo abita parte del mondo contemporaneo e non semplicemente un dropout. Non ci si allontana dalla città o dalla società dei consumi per abbandonare il proprio tempo, ma per viverlo appieno, soprattutto perché oggi si tratta di una scelta consapevole: come scrivono i giornalisti Gaspard D’Allens e Lucille Leclair in Les Neo-Paysans (2016), mentre i vecchi paesani erano “paesani per nascita” quelli nuovi sono “paesani per scelta”. La cultura è importante tanto per i nuovi arrivati quanto per i vecchi residenti, perché ambedue traggono beneficio dall’essere parte di un orizzonte culturale vivace.

Dal niente non nasce niente: per dinamizzare il territorio rurale l’arte attinge da ciò che già c’è, ma per rimetterlo in circolo e non per congelarlo in una teca da museo. Nelle campagne ci sono riti, canti, tradizioni, storie che si tramandano da secoli e che possono diventare materiale per l’immaginario contemporaneo. È questo il punto di partenza del percorso artistico di Coppola che, ad esempio, con il Parco Comune dei Frutti Minori non ha fatto altro che servirsi delle ricchezze che si erano accumulate nei secoli lungo un itinerario: piante ai bordi delle strade, oliveti, frutteti, campi coltivati e soprattutto tanti campi abbandonati, architetture vernacolari, frutta e verdura selvatica. Tutte queste “tappe” compongono un cammino nato dalla partecipazione della comunità, che ora ne fruisce per prima attraverso passeggiate guidate, didattica per bambini e anche, ovviamente, attraverso i turisti.

L’arte si rivela in tutta la sua utilità come stimolo per la coscienza critica e come produzione di risorse per la comunità.

Attraverso le pratiche agricole può esprimersi il rapporto tra esseri umani e terra, ma anche tra gli esseri umani stessi: un’ecologia circolare, che non lascia niente fuori e non si fa guardare dall’esterno. Un esempio di come i rapporti ecologici si possano muovere agilmente dentro e fuori il regno dell’essere umano lo si trova nella pubblicazione curata da Inland in occasione della partecipazione a documenta fifteen, dal titolo Microbiopolitics of milk. In questo testo sono raccolti testi che riflettono sulle biopolitiche interne al mondo del latte e della produzione di formaggio (questioni relative ai batteri, al microbioma, alla nutrizione degli animali e così via) per capire come questa storia politica possa insegnare qualcosa anche a noi umani in un momento di crisi dell’identità sociale.

Anche se la ricerca di Inland si concentra sull’ambiente rurale e il lavoro agricolo, non vuol dire che l’azione del collettivo si limiti alla campagna. CAR, Centro de Acercamiento a lo Rural, è la sede che Inland ha aperto nel 2018 a Madrid: si tratta di un edificio che, oltre ad accogliere i membri di Inland, fornisce tutta una serie di servizi e di proposte culturali dirette al quartiere e alla città. Si va da workshop sulla filatura o la cucina, a una biblioteca condivisa, da screening di film a talk e pasti condivisi, cucinati con la collaborazione delle comunità etniche presenti nel quartiere. CAR è il luogo che fa da tramite, da “finestra” attraverso cui la campagna che il collettivo abita e lavora si connette con la capitale, con le sue istituzioni e con una popolazione che come in molte altre grandi città difficilmente ha modo di coltivare una relazione stabile con il mondo agricolo.

Uno dei momenti in cui tradizionalmente la campagna si unisce e confluisce nella città è il mercato: nel 2023 Amelie Aranguren, membro di Inland, ha lavorato sul tema del mercato rionale durante una residenza alla Real Academia di Spagna a Roma. Il progetto, dal titolo Mercato Nuova Agrocittà, è stato realizzato in collaborazione con Studio Orizzontale e consiste in un’analisi delle realtà produttive agricole di natura sociale o comunque legate a un uso consapevole e non aggressivo della terra, situate lungo il perimetro del raccordo di Roma. Al termine dei nove mesi di incontri con attivisti, produttori e consumatori, il lavoro si è tradotto nella progettazione e realizzazione di un mercato agricolo aperto. Un momento in cui produzione, acquisto e narrazione del cibo vanno di pari passo, per dimostrare quanto la città non sia solo luogo di consumo, ma possa tramutarsi in centro di scambio e, sul proprio perimetro, anche di coltivazione e sussistenza.

 

Una delle prime opere realizzate da Luigi Coppola dopo l’incontro con Casa delle Agriculture è invece il “Giardino evolutivo dei cereali”, che si trova nella sede pubblica della cooperativa. Il Giardino evolutivo è un appezzamento in cui sono seminate moltissime varietà di cereali lungo un percorso dalla forma variabile a seconda delle stagioni e che, passo passo, rivela l’evoluzione delle popolazioni cerealicole nell’Occidente. Si parte dalle genetiche più antiche, come il farro monococco, per arrivare ai più recenti ibridi creati nel dopoguerra, lungo un itinerario che è messo a disposizione di bambini e adulti.

Alla base del Giardino evolutivo e della ricerca di Coppola sulle sementi c’è l’idea di popolazione evolutiva, diventata anche il titolo di una performance tenuta a Fondazione Merz, nel 2018. Il concetto di “popolazione evolutiva” – termine usato dal genetista Salvatore Ceccarelli in Mescolate contadini mescolate (2016) – mostra come per alimentare la biodiversità e contribuire alla salubrità dei suoli e degli animali che si cibano dei loro frutti sia importante allontanarsi dall’ossessione della monocultura, anche da quella dei cosiddetti “grani antichi”, per tornare a seminare miscugli, così da dar modo al terreno di rispondere alla semina con una crescita che rispecchi le sue peculiarità, fragilità e bisogni. Come nel caso del latte in Microbiopolitics of milk, anche con le popolazioni evolutive c’è una continuità tra coltivazione, politica e arte.

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