Sul legame tra arte, terra e agricoltura
La ricerca artistica di Fernando Garcia Dory,
fondatore di Inland
Collective, e Luigi Coppola, membro di Casa
delle Agriculture, riflette sul rapporto tra arte, territorio e
agricoltura, e considera l’ecologia non semplicemente come oggetto di interesse
artistico, ma come un processo sistemico in cui e con cui agire. Inland è un
collettivo paraistituzionale che opera attraverso vari centri per la creazione
di iniziative culturali rivolte al territorio agricolo: la base operativa e il
luogo di sperimentazione del collettivo è in un villaggio nel nord della
Spagna, in cui Garcia Dory e il suo gruppo portano avanti la loro ricerca sull’utilità
dell’arte per la co-progettazione di soluzioni alternative all’interno di
contesti rurali. Il bisogno di un luogo fisso dove gettare le proprie radici e
in cui seminare stabilmente e ciclicamente nuovi sviluppi artistici è nato nel
2013, alcuni anni dopo l’inizio dell’esperienza di Inland, ed è motivato dalla
volontà di occuparsi della sostenibilità stessa del sistema artistico, che
nonostante la grande attenzione rivolta al soggetto-oggetto ambiente continua a
essere un luogo di gerarchia, iperproduttività, ipermobilità ed estrattivismo.
L’esperienza di Luigi Coppola comincia invece a Torino dove, parallelamente
agli studi universitari, è nel mondo del teatro che si manifesta l’interesse
verso i processi collettivi di produzione dell’arte. Da lì nasce un percorso
autoriale individuale che continua ancora oggi, sempre caratterizzato
dall’ascolto verso le comunità di riferimento, spesso marginali, alle quali la
sua ricerca artistica si rivolge. È recente, ad esempio, la pubblicazione
di Ex Situ. Compatible avec la vie (Kunstverein,
2023), un libro che raccoglie saggi e testimonianze sull’uso agricolo, politico
e narrativo dei suoli, a partire dall’esempio di Lubumbashi nella Repubblica
Democratica del Congo. O ancora il lavoro free press sugli ulivi in Puglia,
terra in cui Coppola passa gran parte del proprio tempo, pubblicato col titolo
di Vinculum, in cui si raccolgono testimonianze e suggerimenti
pratici per rispondere alla crisi portata dal batterio Xylella e a quella, ben
più ampia, che sta investendo il modello agricolo intensivo nel Sud Italia.
Coppola fa parte dal 2013 di Casa delle Agriculture, un progetto di
coltivazione di ortaggi, cereali e di molitura sociale a Castiglione d’Otranto,
in provincia di Lecce. È lì che ci incontriamo per parlare di come l’arte possa
contribuire a ripensare l’immaginario agricolo attraverso narrazioni nuove,
diverse, laterali. Pur dedicando gran parte del proprio tempo all’arte della
coltivazione nei terreni della Casa delle Agriculture, per Coppola non c’è
contrasto tra lavoro pratico e teorico, anzi: tra terra e immaginario l’unione
può essere davvero perfetta. L’arte si rivela, in casi del genere, in tutta la
sua utilità come stimolo per la coscienza critica, come produzione di risorse
per la comunità che vanno dalla narrazione territoriale alla ricerca di
economie alternative, che potranno in futuro dare buoni frutti.
Tanto Garcia Dory quanto Coppola hanno potuto fare concretamente ecologia,
dentro e fuori la pratica artistica, grazie a un’alleanza molto stretta con un
settore della società che condivide con quello artistico la posizione di
marginalità rispetto ai flussi produttivi ed economici: il mondo agricolo.
Un’alleanza tra lavoratori dell’arte e lavoratori agricoli – tra terra e immaginario
– che si muove in direzione opposta rispetto alle politiche (e alle poetiche)
di rewilding oggi molto in voga, le quali vedono nell’idea di
“selvatico” la soluzione migliore della crisi dei territori. Nei processi
di rewilding l’umano semplicemente si sottrae, sconfitto, alla propria
responsabilità di abitante della terra. L’agricoltura, al contrario, è un modo
con cui da millenni l’umano scambia e si relaziona con il pianeta per trarne la
propria sussistenza. Attraverso il lavoro agricolo gli esseri umani si assumono
la responsabilità del vincolo che li lega alla terra, nel bene e nel male. “La
fertilità”, mi ha detto Luigi Coppola, “si espande dai margini dei campi, delle
strade e degli uliveti, per poi raggiungere il centro. Bisogna cominciare dai
margini”.
Come per i campi, la fertilità comincia al bordo del nostro mondo, nei
contesti rurali che costituiscono il margine del nostro tempo e delle nostre
città. È una tesi sostenuta anche da Garcia Dory, che nel corso di un evento
organizzato a Torino in collaborazione con Cripta 747 e APS Salotto di Miranda
ha ribadito come viviamo ormai in un’era “post-agricola”: il lavoro della terra
non occupa più un posto centrale né nell’economia né, tantomeno, nella
produzione di capitale simbolico e di immaginario in Occidente e in Italia. Il
calo è drastico nel numero di impiegati, nel numero di
aziende, nel numero di imprenditori e nel contributo che questo tipo di
attività dà al PIL nazionale. Oltre che
sulla deruralizzazione, tutto ciò ha un impatto drastico anche sull’uso dei
suoli.
Su Nature
Communications si parla di post-agricultural
landscapes per definire il paesaggio che emerge dal progressivo
abbandono di aree dedicate alla produzione agricola. Queste zone, che sono
sempre di più, vengono individuate come possibili risorse per la creazione di
oasi di biodiversità capaci di assorbire carbonio e impattare positivamente
sulle circostanze ambientali. Ci sono però alcuni problemi, che aiutano a
capire quanto, anche nei contesti scientifici di maggior prestigio, la
marginalità del mondo agricolo non si limiti alla questione economica ma
riguardi la stessa riconoscibilità e leggibilità del contesto rurale.
L’articolo in questione non contiene infatti alcuna indicazione rispetto a
quale forma specifica di agricoltura e sfruttamento del territorio fosse
presente nei paesaggi post-agricoli presi in esame. Non è specificato in alcun
modo se si trattasse di appezzamenti dedicati ad agricoltura intensiva o a
agricoltura biologica, di sussistenza o industriale.
Nonostante l’attenzione rivolta al
soggetto-oggetto ambiente, l’arte continua a essere un luogo di gerarchia,
iperproduttività, ipermobilità ed estrattivismo.
Solo grazie a una consapevolezza, seppur minima, di questi contesti è
possibile comprendere le dovute separazioni tra pratiche invasive, operate su
larga scala e con l’ausilio di sementi e prodotti dannosi, e pratiche attente
alla rigenerazione e alla sostenibilità dell’intera filiera. “Agricolo”
raccoglie tanto l’agroindustria che fa uso massiccio di pesticidi e automezzi
invasivi, quanto l’agricoltura su medio-piccola scala, che magari si è
convertita a pratiche più invasive solo con la green revolution, fino
ad arrivare ai produttori più attenti, consapevoli del ruolo di “manutentori”
della terra. Il fatto che si offra un quadro rigidamente duale tra agricolo
tout court e post-agricolo inselvatichito è una grossa semplificazione del
mondo rurale. La maggior parte delle persone vive in città e non fa esperienza
quotidiana diretta della campagna, neanche attraverso il cibo, che arriva
impacchettato e senza più stagionalità sui banchi della grande distribuzione.
Questo produce un’inevitabile distanza, che lascia spazio a una visione troppo
semplicistica per cui lavorare la terra si riduce ad estrarre, da essa, valore
e risorse. La terra appare sempre più come un manto vergine e, per
ripristinarlo, la sola cosa da fare è non toccare. Il nome che spesso viene
accostato a questa verginità è “natura”.
In realtà, il rapporto tra l’umano e la terra si esprime anche attraverso
il lavoro agricolo. Non si tratta di un rapporto a senso unico, di puro
sfruttamento: o meglio, non per forza. La campagna, di fatto, è l’opposto della
natura: è caratterizzata dal lavoro, dall’adattamento che si esprime in ogni
elemento del paesaggio. Tuttavia troppo spesso queste due parole vengono usate
come sinonimi. La “casa in campagna” è il buen retiro dove
abbandonarsi al silenzio del bosco, non il luogo dove rimboccarsi le maniche.
Nessuno vuol sentire il continuo ronzio di un trattore che lavora mentre si sta
godendo il riposo tra campi e vigneti.
Questo rovesciamento è diretta conseguenza dello sviluppo urbano moderno,
che oltre a cambiare il volto delle città ha anche modificato la percezione di
ciò che sta fuori da essa. Di questa inversione parla Augustin Berque, geografo
e filosofo francese, in Pensare il paesaggio (2022), quando
individua come tratto fondamentale delle società complesse proprio la
“rimozione del lavoro della terra”. La terra, che per il contadino
è fatica, opportunità, sussistenza, diventa natura selvaggia in cui l’essere
umano appare come intruso o dominatore. È l’antropocentrismo più sfrenato che
crea la sua stessa controparte, per bilanciare l’incapacità di una relazione
sana con quel che lo circonda. La città produce la natura, è ben lontana
dall’esserne l’antitesi. Il musicista e vignaiolo Maurizio Carucci racconta che,
quando dice di vivere in Appennino, si vede spesso rispondere: “ma non c’è
niente, è vuoto”. Ironizzando, Carucci suggerisce che siamo noi a non esser
capaci di vedere quante cose vibrano in quel territorio, che perciò ci
immaginiamo vuoto. Città uguale “pieno” (coinvolgimento, scambio, incontro,
pratica), natura uguale “vuoto” (silenzio, solitudine, lasciar correre la
vista, intimità passiva): non c’è nessun conflitto, sono due cocci dello stesso
vaso, ambedue conservano le tracce della stessa frattura.
Una conseguenza diretta di queste visioni del paesaggio agricolo è la
“gentrificazione rurale”, di cui si parla molto, soprattutto in Italia, in
riferimento a quelle aree rurali che vengono convertite al business del
turismo. Il geografo Martin Philips dell’Università di Leicester individua alcune caratteristiche
peculiari della gentrificazione rurale. Comincia con l’immigrazione di persone
provenienti da classi sociali elevate verso luoghi marginali e legati
tradizionalmente alla sussistenza agricola, un’immigrazione che impatta sul
paesaggio con la trasformazione di sempre più edifici legati ai servizi
quotidiani in spazi residenziali per il turismo breve o lungo. La conseguenza
inevitabile è lo spostamento delle persone autoctone e delle attività legate
alla sussistenza verso altre aree, in seguito all’innalzamento dei prezzi o
alla perdita di servizi. È evidente che si tratta di fenomeni interconnessi.
Sono esempi di gentrificazione rurale in Italia luoghi come Civita di
Bagnoregio o buona parte delle Langhe, in cui i processi evidenziati da Philips
sono palesi e già in stato avanzato, ma ci sono molte altre zone rurali
d’Italia e d’Europa dove sta accadendo lo stesso. Nella gentrificazione rurale
ad essere escluso è, di nuovo, l’elemento agricolo su cui si basa la
possibilità di vivere in campagna produttivamente. Campagna e natura diventano
una cosa sola: il teatro del buen retiro dove ci si
trasferisce per scacciare le fatiche quotidiane e il trambusto cittadino. È una
forma di colonialismo, in cui l’agricoltura e chi ci campa finiscono tra
incudine e martello, senza risorse sufficienti e soprattutto senza immaginari
concreti di sussistenza e partecipazione attiva alla contemporaneità, al di
fuori del mercato dell’accoglienza turistica e della spettacolarizzazione
arcaica e conservatrice del proprio lavoro.
Nella diffusione della gentrificazione rurale anche l’arte ha fatto la sua
parte. Garcia Dory cita a titolo d’esempio il romanticismo inglese, che ha
contribuito a creare un’immagine della natura come luogo incontaminato,
inospitale ma affascinante, grazie al quale gli esseri umani possono fare
esperienza di emozioni sublimi e catartiche. In tempi più recenti due esempi
che, in maniere diverse e sullo stesso territorio, mantengono viva
l’impressione di un’arte che di fronte al mondo rurale presta il fianco a uno
sguardo superficiale e astratto sono il Big Bench Communnity Project,
avviato nelle Langhe da Chris Bangle e l’omonimo studio, e La
cappella del Barolo realizzata nel 1999 da
David Tremlett e Sol LeWitt a La Morra, in provincia di Cuneo, su commissione
di Bruno Ceretto.
La terra appare sempre più come un manto vergine
da non toccare, e il nome che spesso viene accostato a questa verginità è
‘natura’.
Il primo dei due progetti artistici comprende oggi centinaia di enormi
panchine colorate, situate in zone rurali che offrono una visuale
particolarmente suggestiva. Il progetto è nato a Clavesana, in provincia di
Cuneo, per poi espandersi un po’ ovunque in Italia e in Europa. La
cappella del Barolo è invece una cappella sconsacrata dove è stato
fatto un intervento pittorico che ha completamente trasformato l’aspetto
dell’edificio, oggi coloratissimo e di grande impatto visivo. Si tratta, in
ambo i casi, di strutture che ogni giorno ospitano centinaia di visitatori,
incantati di fronte alla stranezza dell’opera e alla bellezza del paesaggio.
Raccolgono un enorme consenso di pubblico e sono diventate una tappa obbligata
per turisti e autoctoni. Sembrano offrire un punto di vista vantaggioso sul
paesaggio e, con il loro aspetto gradevole, esaltarne la suggestività.
Il ruolo dell’artista in questi casi non ha nulla di ecologico pur
trovandosi nel bel mezzo di un territorio rurale. L’arte non entra in alcuna
relazione, tantomeno critica, con le dinamiche concrete del proprio contesto di
riferimento. Nel caso delle Langhe, si tratta di una terra che non si può
ridurre ai paesaggi mozzafiato e ai vini di pregio: le Langhe sono un luogo di
iper-sfruttamento dei suoli, di impoverimento dell’ecosistema in cui i boschi
sono quasi completamente assenti e tutto il panorama è occupato da una monocultura,
condotta spesso in maniera invasiva. È una zona dove il prezzo della terra è
cresciuto vertiginosamente, in cui sono tutt’altro che assenti le
disuguaglianze sociali e i rischi connessi al clima. È un territorio che
rispetta alla perfezione ciascuna delle tre caratteristiche della
gentrificazione rurale evidenziate da Philips. Lo stesso discorso vale per le
panchine giganti.
I contesti rurali sembrano intrappolati nella convinzione diffusa che la
loro unica “risorsa” culturale risieda nella tradizione, una tradizione che
fatica a uscire dal passato per affacciarsi oltre. Mentre il futuro si realizza
nelle città, densamente popolate e produttive, il destino dello spazio che
rimane sembra essere quello di rivoltarsi su sé stesso, nell’eterna riproduzione
di vecchi spettacoli. “La cultura è uno dei principali fattori di
espropriazione delle aree rurali”, ha dichiarato Garcia Dory nel corso
dell’evento a Torino. Eppure, a suo modo di vedere, l’arte avrebbe tutto il
potenziale per “dinamizzare” le aree rurali, nel senso di smuoverne la
fertilità, imprimendo vigore e vitalità. Nell’opera di Inland, come in quella
dei collettivi radunati, ad esempio, dalla Confederacy
of Villages, questo si traduce nella co-creazione collettiva di
processi e strumenti che aiutino chi abita in zone rurali a immaginare strade
concrete di progettazione imprenditoriale e sociale.
Un esempio: di fronte alla mancanza di un’economia sostenibile per la
vendita del latte, arrivato a prezzi troppo bassi per garantire il
sostentamento delle famiglie, Inland ha collaborato con gli abitanti di un
paese situato nel nord della Spagna per produrre una macchina che permettesse
di realizzare formaggio anche con quantità minime di latte, abbattendo il costo
fisso dei macchinari e creando uno strumento condiviso di produzione ed
espressione. Espressione perché attraverso le scelte produttive del formaggio
si concretizza l’identità del produttore, il quale, nel frattempo, può
garantirsi guadagni sufficienti attraverso la commercializzazione di un
prodotto trasformato. Visto che non era presente, sul territorio, una
tradizione viva di produzione casearia, Inland ha organizzato una degustazione
pubblica di tanti tipi di formaggi diversi e poi, attraverso un questionario,
ha offerto la ricetta del formaggio con le caratteristiche che avevano raccolto
maggior “consenso”, per cominciarne la produzione. Si tratta, di nuovo, di uno
spazio di consenso, ma rivolto a chi vive la ruralità, a chi la terra la lavora
e la abita, o vorrebbe farlo.
Ciò che accomuna i racconti di coloro che si trovano a vivere fuori dai
centri urbani o a intraprendere attività agricole di sussistenza e commercio è
il timore per quella “mancanza di stimoli” che, più precisamente, può esser
definita come mancanza di un orizzonte culturale di riferimento, che faccia
sentire chi lo abita parte del mondo contemporaneo e non semplicemente un dropout.
Non ci si allontana dalla città o dalla società dei consumi per abbandonare il
proprio tempo, ma per viverlo appieno, soprattutto perché oggi si tratta di una
scelta consapevole: come scrivono i giornalisti Gaspard D’Allens e Lucille
Leclair in Les Neo-Paysans (2016), mentre i
vecchi paesani erano “paesani per nascita” quelli nuovi sono “paesani per
scelta”. La cultura è importante tanto per i nuovi arrivati quanto per i vecchi
residenti, perché ambedue traggono beneficio dall’essere parte di un orizzonte
culturale vivace.
Dal niente non nasce niente: per dinamizzare il territorio rurale l’arte
attinge da ciò che già c’è, ma per rimetterlo in circolo e non per congelarlo
in una teca da museo. Nelle campagne ci sono riti, canti, tradizioni, storie
che si tramandano da secoli e che possono diventare materiale per l’immaginario
contemporaneo. È questo il punto di partenza del percorso artistico di Coppola
che, ad esempio, con il Parco Comune dei Frutti Minori non ha
fatto altro che servirsi delle ricchezze che si erano accumulate nei secoli
lungo un itinerario: piante ai bordi delle strade, oliveti, frutteti, campi
coltivati e soprattutto tanti campi abbandonati, architetture vernacolari,
frutta e verdura selvatica. Tutte queste “tappe” compongono un cammino nato
dalla partecipazione della comunità, che ora ne fruisce per prima attraverso
passeggiate guidate, didattica per bambini e anche, ovviamente, attraverso i
turisti.
L’arte si rivela in tutta la sua utilità come
stimolo per la coscienza critica e come produzione di risorse per la comunità.
Attraverso le pratiche agricole può esprimersi il rapporto tra esseri umani
e terra, ma anche tra gli esseri umani stessi: un’ecologia circolare, che non
lascia niente fuori e non si fa guardare dall’esterno. Un esempio di come i
rapporti ecologici si possano muovere agilmente dentro e fuori il regno
dell’essere umano lo si trova nella pubblicazione curata da Inland in occasione
della partecipazione a documenta fifteen, dal titolo Microbiopolitics of milk. In questo testo
sono raccolti testi che riflettono sulle biopolitiche interne al mondo del
latte e della produzione di formaggio (questioni relative ai batteri, al
microbioma, alla nutrizione degli animali e così via) per capire come questa
storia politica possa insegnare qualcosa anche a noi umani in un momento di
crisi dell’identità sociale.
Anche se la ricerca di Inland si concentra sull’ambiente rurale e il lavoro
agricolo, non vuol dire che l’azione del collettivo si limiti alla campagna.
CAR, Centro de Acercamiento a lo Rural, è la sede che Inland ha aperto nel 2018
a Madrid: si tratta di un edificio che, oltre ad accogliere i membri di Inland,
fornisce tutta una serie di servizi e di proposte culturali dirette al
quartiere e alla città. Si va da workshop sulla filatura o la cucina, a una
biblioteca condivisa, da screening di film a talk e pasti condivisi, cucinati
con la collaborazione delle comunità etniche presenti nel quartiere. CAR è il
luogo che fa da tramite, da “finestra” attraverso cui la campagna che il
collettivo abita e lavora si connette con la capitale, con le sue istituzioni e
con una popolazione che come in molte altre grandi città difficilmente ha modo
di coltivare una relazione stabile con il mondo agricolo.
Uno dei momenti in cui tradizionalmente la campagna si unisce e confluisce
nella città è il mercato: nel 2023 Amelie Aranguren, membro di Inland, ha
lavorato sul tema del mercato rionale durante una residenza alla Real Academia
di Spagna a Roma. Il progetto, dal titolo Mercato Nuova Agrocittà, è stato
realizzato in collaborazione con Studio Orizzontale e consiste in un’analisi
delle realtà produttive agricole di natura sociale o comunque legate a un uso
consapevole e non aggressivo della terra, situate lungo il perimetro del
raccordo di Roma. Al termine dei nove mesi di incontri con attivisti,
produttori e consumatori, il lavoro si è tradotto nella progettazione e
realizzazione di un mercato agricolo aperto. Un momento in cui produzione, acquisto
e narrazione del cibo vanno di pari passo, per dimostrare quanto la città non
sia solo luogo di consumo, ma possa tramutarsi in centro di scambio e, sul
proprio perimetro, anche di coltivazione e sussistenza.
Una delle prime opere realizzate da Luigi Coppola dopo l’incontro con Casa
delle Agriculture è invece il “Giardino evolutivo dei cereali”, che si trova
nella sede pubblica della cooperativa. Il Giardino evolutivo è un appezzamento
in cui sono seminate moltissime varietà di cereali lungo un percorso dalla
forma variabile a seconda delle stagioni e che, passo passo, rivela
l’evoluzione delle popolazioni cerealicole nell’Occidente. Si parte dalle
genetiche più antiche, come il farro monococco, per arrivare ai più recenti
ibridi creati nel dopoguerra, lungo un itinerario che è messo a disposizione di
bambini e adulti.
Alla base del Giardino evolutivo e della ricerca di Coppola sulle sementi
c’è l’idea di popolazione evolutiva, diventata anche il titolo di una
performance tenuta a Fondazione Merz, nel 2018. Il concetto di “popolazione
evolutiva” – termine usato dal genetista Salvatore Ceccarelli in Mescolate
contadini mescolate (2016) – mostra come per alimentare la
biodiversità e contribuire alla salubrità dei suoli e degli animali che si
cibano dei loro frutti sia importante allontanarsi dall’ossessione della
monocultura, anche da quella dei cosiddetti “grani antichi”, per tornare a
seminare miscugli, così da dar modo al terreno di rispondere alla semina con
una crescita che rispecchi le sue peculiarità, fragilità e bisogni. Come nel
caso del latte in Microbiopolitics of milk, anche con le
popolazioni evolutive c’è una continuità tra coltivazione, politica e arte.
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