Ultimi giorni di giugno: a Fabriano, nell’ambito alternanza scuola lavoro,
alcuni studenti dell’istituto tecnico agrario sono all’interno di un’azienda
agraria, di proprietà della scuola stessa, dove si trovano animali cosiddetti
da allevamento, nello specifico pecore. Alcuni dei ragazzi cominciano a
divertirsi maltrattandole: uno in particolare calcia loro addosso un pallone,
facendole fuggire spaventate: un agnellino però, troppo piccolo o
troppo debole, non ce la fa a seguire il gruppo e resta
indietro. Uno dei ragazzi non si lascia sfuggire l’occasione: lo
afferra, lo lancia fuori dal recinto, lo riacciuffa, lo scaraventa di nuovo
dentro, quasi fosse diventato lui il pallone: la bestiola riporta la
paralisi di tutti e quattro gli arti e muore dopo tremenda agonia. Gli altri
studenti, nella maggior parte minorenni, se ne guardano bene dall’intervenire e
risulta che abbiano assistito divertiti allo scempio.
Alla notizia viene dato risalto sui media e la dirigente scolastica fa
sapere che verranno presi adeguati provvedimenti disciplinari contestualmente
alla denuncia alla polizia per maltrattamento e uccisione di animale.
Ovviamente lo sconcerto e la condanna sono generali: ci si chiede
essenzialmente a cosa serva una scuola che non riesce a contrastare condotte
così crudeli tanto che qualcuno arriva provocatoriamente ad auspicarne
la chiusura, vista l’inettitudine educativa che l’episodio denuncia.
Di certo comportamenti tanto abnormi su un essere piccolo, inerme,
spaventato devono interrogare su chi siano quei ragazzi e come e dove abbiano
appreso insensibilità, sadismo, ferocia: auspicabile che, oltre alle punizioni,
vengano iniziati percorsi di educazione al rispetto e all’empatia e anche ad
una autoconsapevolezza, che porti in superficie quello che c’è di guasto nella
loro psiche. Perché qualcosa di certo è andato male se si è qui a
discutere di studenti trasformati in aguzzini, anche se con ruoli diversi
nella dinamica di gruppo. Gruppo che, è facile pensare, può avere avuto un
ruolo forte come attivatore di violenza, perché è probabile che il maggiore
responsabile, fosse stato da solo, non avrebbe fatto quello che ha fatto: la presenza
degli altri in questi casi, con una sorta di tifo fatto di lazzi e battute,
sostiene sempre l’eccitazione e il desiderio di un protagonismo, che, quando
non può contare su altre abilità, si accontenta di forme di bullismo a danno
dei più deboli trasformando la colpa in vanto.
L’esercizio di violenza gratuita però, lungi dall’essere un disgrazia che
irrompe inaspettatamente in contesti paradisiaci, se trova terreno fertile nel
temperamento individuale, si nutre poi di modelli familiari, educazione, cultura,
mass media, ambiente.
Di conseguenza, il banco degli imputati, da allestire nel processo contro i
colpevoli di questo disastro comportamentale, se vuole davvero ospitare tutti i
responsabili a voler ben guardare deve allargarsi a molti invitati di pietra.
A cominciare dal fatto che la scuola frequentata dai ragazzi, a quanto si legge
(“Vengono approfondite le problematiche collegate all’organizzazione delle
produzioni animali e vegetali, alle trasformazioni, alla commercializzazione
dei relativi prodotti…”), avvia tra l’altro alla produzione animale e
alla gestione degli allevamenti zootecnici. Vale a dire: all’interno dei
percorsi di formazione gli animali non sono certo visti come compagni
di vita e nemmeno come esseri da conoscere a fondo nel rispetto della
loro etologia, bensì come produttori di cibo, che può essere ottenuto solo
tramite adeguato sfruttamento e conclusiva uccisione. Quello stesso agnellino
brutalmente assalito e ucciso, non avesse avuto la malasorte di impattare in
ragazzi, forti solo del proprio numero e della propria protervia, avrebbe
incontrato destino non tanto diverso a distanza di poche settimane: perché ciò
che succede a quelli della sua specie è di finire afferrati per le zampe,
trascinati lontano dalla madre, caricati su camion dove impazzire di paura per
essere infine sgozzati in un delirio di sangue e di disperati belati in cerca
di un’improbabile pietà. Perché è questa la fine che fanno gli agnelli come
documentato da filmati alla portata di chiunque voglia informarsi, e come
presumibilmente non ignorano i ragazzi che stanno seguendo un percorso di
formazione che prevede tecniche di allevamento.
Ovvio che tutto questo non autorizza nessuno ad infliggere tormenti
gratuiti per puro divertimento: si tratta di comportamenti che anche la legge
contro i maltrattamenti punisce, in quanto crudeli e non necessari, anche se
nessuno fino ad oggi si è assunto l’onere di definire con precisione quali
sarebbero le condizioni che invece rendono i maltrattamenti necessari: il
dubbio trattarsi di ossimoro incombe. In società satolle come la nostra, per
quanto ci si pensi, la necessità parrebbe riferita (in modo francamente
discutibile) solo al piacere del palato: insomma alla gola, per altro vizio che
possiede il non invidiabile privilegio di essere inclusa tra i sette capitali.
Il problema è che lo status di quegli animali, appunto “da allevamento”, è
quello di esseri al servizio di noi umani, che decidiamo quando farli nascere e
quando e come farli morire, del tutto incuranti della dose devastante di
sofferenza che questo percorso procura loro.
Non facilissimo pretendere da adolescenti l’accettazione acritica di
comportamenti basati su una sorta di dissociazione cognitiva: tu li devi
trattare bene e rispettare, poi fra un po’ interveniamo noi e facciamo, sotto
l’egida della legalità, tutto quello che ora etichettiamo come turpe, sadico, e
quindi sanzionabile.
Non bastasse tutto questo a definire la caotica convivenza di giusto e
ingiusto nella vicenda di Fabriano, è interessante ricordare che a San
Romualdo, frazione di Fabriano, le calde giornate agostane da 23 anni a questa
parte (!) vengono allietate da una delle tante sagre estive, nello specifico,
la Sagra dell’agnello, a uso e consumo di tanti cittadini e cittadine, che
accorrono a festeggiare degnamente il clima vacanziero nonché le proprie
papille gustative, allettati dalla pubblicità che assicura (manifesti in giro
per la città lo scorso anno) aria fresca e divertimento,
nonché Agnello in tutte le salse, in un gioco di espressioni dal
doppio significato, opera di qualche creativo in difficoltà nel cogliere la
differenza tra cinismo e spiritosaggine.
Il quadro che si delinea, mettendo in ordine le tessere del mosaico dei
fatti, interroga davvero sulla compromissione dei ragionamenti, sulla
illogicità delle convinzioni, sulla disarmonicità della visione d’insieme sulla
realtà. Quei ragazzi, colpevoli dell’uccisione dell’agnellino, sono cresciuti e
si sono formati vedendo gli adulti abbuffarsi serenamente di altri agnelli,
giusto per godersi meglio giornate di festa; e seguono percorsi scolastici che
prevedono anche come allevare animali che finiranno poi al mattatoio.
Miracolosamente dovrebbero però considerare gli agnelli esseri da trattare con
rispetto, ignorando le incongruenze e le spiegazioni, insite in messaggi
incoerenti, e accettare la logica sottostante, quella implicita ma non detta,
secondo cui la violenza è sanzionabile quando individuale, accettabile
e indiscutibile quando è di stato, vale a dire quando è legalizzata.
Gli adulti sono bambini andati a male, ha detto qualcuno: forse vanno a
male a causa dei puntuali attacchi alla loro empatia, che passa anche dal
sistematico menefreghismo che viene sollecitato davanti alle tante forme di
crudeltà inflitte ad altri, umani e nonumani, se pure a norma di legge.
Le riflessioni necessarie sui fatti di Fabriano, allora, nell’interrogare
sulle responsabilità individuali e su quelle della scuola non possono
prescindere dai modelli educativi e da quelli culturali e ambientali: è fuori
di dubbio che soprattutto in questi ambiti maturano i germi di un’aggressività
che, al suo esplodere, non lascerebbe basiti se solo ci fosse un po’ di
consapevolezza in più, consapevolezza che una buona società è quella che
esclude la violenza in tutte le sue forme e verso tutti gli esseri senzienti.
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