I governi di quasi tutto il mondo – quelli grandi e importanti come quelli piccoli e insignificanti, compreso chi governa una grande o piccola banda armata – marciano come sonnambuli verso una guerra mondiale sempre meno “a pezzi”; sempre più prossima a una conflagrazione generale. Irresponsabili e criminali. Ma marciano anche, doppiamente irresponsabili e doppiamente criminali, verso una catastrofe climatica e ambientale irreversibile… Il dilemma sembra ormai solo quello di vedere quale di quei due eventi si realizzerà per primo, rendendo superfluo l’avvento dell’altro. Ma è vero anche il contrario: se nell’affrontare la crisi climatica e ambientale, il cui decorso è noto ai governi di tutto il mondo da almeno trent’anni (Vertice di Rio: 1992), fossero state impegnate tutte le risorse economiche, tecnologiche e “umane” spese per le armi – ormai oltre i 2000 miliardi di dollari all’anno – quella marcia insensata verso la guerra si sarebbe arrestata: perché un processo non si può combatterlo e accelerarlo contemporaneamente. Così, entrambe le catastrofi sarebbero state messe in mora.
Si parla da tempo della necessità di una Costituzione della Terra. Ma una
costituzione non può essere solo un insieme di norme. Deve essere innanzitutto
un progetto condiviso, che oggi non può essere che l’impegno di tutte le
risorse disponibili, situazione per situazione, per arginare il decorso
della crisi climatica e ambientale: una cosa che non può essere fatta solo da
alcuni, perché richiede il concorso di tutti. Questa è l’unica vera urgenza
del nostro tempo: quella da cui dipendono tutte le altre, a partire dalla lotta
contro le gigantesche diseguaglianze economiche e sociali.
Tutti, tranne i cretini e i politici in malafede, danno ormai per certa la
crisi ambientale in corso; ma nessuno, né al vertice né alla base della
piramide sociale mondiale, ritiene di avere la possibilità, o che valga la
pena, di impegnare veramente tutte le proprie risorse per affrontarla. Bisogna
innanzitutto salvaguardare l’economia! Cioè questa economia: la crescita, lo
sviluppo, l’accumulazione del capitale. E varare, per poi magari
ritirarle subito dopo, solo le misure ritenute compatibili con l’economia, con
la conseguenza di renderle inefficaci e inutili, di danneggiare alcuni e
inimicarsi altri; e di lasciare così campo libero alla guerra: è la vicenda,
tra le altre, dell’European Green Deal. Così la corsa verso il baratro
procede a ritmo sempre più accelerato.
Anche quando la crisi climatica e ambientale planetaria colpisce nel vivo,
e sempre più spesso un territorio che abitiamo o una regione lontana, su cui
comunque ci informano i telegiornali – con un uragano, un’alluvione, la
siccità, l’erosione della costa, la scomparsa di un ghiacciaio, un’ondata di
calore, un incendio incontrollabile, la scomparsa di una o di tante specie –
nessuno fa lo sforzo di collegare questi fenomeni a una tendenza generale, per
capire come cambierà la nostra vita mano a mano che questi eventi si faranno
più frequenti e più gravi.
I nostri e gli altrui politici vivono nel presente come se, mentre i
territori franano, si allagano, si disseccano o bruciano, tutto potesse e
dovesse continuare come sempre. Vivono dentro una bolla e ciascuno ha la sua:
chi pensa a nuove autostrade, nuovi porti, nuovi ponti, nuove grandi opere,
nuovi grandi eventi e chi a nuove auto, nuove barche, nuove crociere, nuove
vacanze esotiche, nuove case ai monti o al mare. Senza tener conto
delle persone – qui milioni; nel mondo già miliardi – che da tutte queste cose,
e da altre ancora, a partire dalla possibilità di sopravvivere, vengono
lasciate indietro… È la bancarotta totale delle classi dirigenti di tutto il
mondo, cresciute nel clima di un neoliberismo, condiviso o imposto: una
bancarotta che rende evidente la necessità di un radicale ricambio
generazionale che lasci il passo a coloro che sanno di essere le vittime
designate della loro inerzia o delle loro complicità.
Neanche ai pochi intellettuali con le cui opinioni spesso concordo capita
mai di esprimersi sulla crisi climatica e ambientale: si limitano, a volte, a
nominarla in una lunga lista di problemi: vivono anche loro nella loro bolla
che questa crisi non riesce a forare.
La deflagrazione delle guerre e la crisi climatica sembrano riflettersi
sulla percezione che abbiamo delle nostre vite solo attraverso le migrazioni:
con la pressione di un numero crescente di profughi cacciati da terre rese
invivibili. Non ci si rende conto che i “flussi” che investono oggi il
mondo sviluppato sono solo l’anticipazione di uno tsunami destinato a mettere
in moto verso l’emisfero settentrionale, nel giro dei prossimi decenni,
miliardi di esseri umani. E che le difese che oggi vengono apprestate
contro quello tsunami – dalle destre, in modo ostentato; da tutti gli altri in
forme sopite, ma sostanzialmente con gli stessi mezzi e gli stessi obiettivi –
sono votate a trasformare le mete di quei viaggi in “fortezze” occupate da
popolazioni sempre più vecchie e incapaci di badare a se stesse. Ma anche
sempre più isolate e odiate dal resto del mondo, sempre più impegnate a gestire
una impossibile difesa del proprio stile di vita “non negoziabile” con una
guerra di sterminio praticata spostando sempre più in là le proprie frontiere,
e con esse i confini di un modo consegnato per questo a bande che lo rendono
inabitabile per tutti, compresi coloro che oggi sono là solo per sfruttarlo
meglio. Come sono già oggi la Libia, la Siria, il Sudan, il Congo, ecc. Ma
anche trasformando l’accoglienza resa ineludibile dalla nostra senescenza
biologica e spirituale in un regime di apartheid si svilupperanno focolai di
conflitti etnici e sociali che renderanno anche da noi la vita quotidiana di
tutti sempre più sgradevole e feroce.
Che tutte le manifestazioni della crisi climatica e ambientale già note
siano destinate a crescere e ad approfondirsi è inevitabile anche se i governi
invertissero rotta domani; cosa che non faranno. Ciò pone all’ordine
del giorno, al di là degli ipocriti programmi di mitigazione varati e
rimangiati dai governi, gli obiettivi dell’adattamento alle condizioni sempre
più ostiche in cui si verranno a trovare gli abitanti di ogni territorio nei
decenni a venire.
Le misure per l’adattamento sono il nesso che può collegare il globale (la crisi
climatica e ambientale planetaria) e il locale (le condizioni
della coesistenza in un ambiente manomesso), l’inerzia dei governi e
l’attivismo di comunità grandi e piccole che si autorganizzano, come già oggi
succede nei territori colpiti da un disastro ambientale: per garantire
comunque livelli essenziali di mobilità, approvvigionamento, produzione,
funzionamento delle reti – energia, telecomunicazioni, acque, rifiuti –
gestione comune dell’ordine pubblico, ecc. In questa prospettiva, una vera
accoglienza dei profughi orientata alla piena valorizzazione della loro
presenza, delle loro culture, del loro lavoro e dei loro collegamenti con le
comunità e i territori di origine, può riprodursi e moltiplicarsi a livello
regionale, nazionale e continentale: oggi, come alternativa praticabile alla
guerra ai migranti, costosa, inconcludente, ipocrita e criminale, quella che le
destre sbandierano senza saperne né poterne venire a capo. Domani, per
garantire la convivenza tra mondi destinati altrimenti a distruggersi
reciprocamente.
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