martedì 31 maggio 2022

Paramilitari scatenati in Chiapas - Elio Henriquez

 

 

Il Centro per i diritti umani Fray Bartolomé de Las Casas (Frayba) ha riferito di aver documentato a marzo 437 attacchi contro comunità nel municipio di Aldama, perpetrati da gruppi armati della città di Santa Martha, situata a Chenalhó.

In una dichiarazione, il Frayba afferma che questi attacchi hanno portato “allo sfollamento intermittente di 3.499 persone, che stanno subendo l’impatto di violenze permanenti”. Aggiunge che i residenti di Santa Martha hanno sparato e ferito un musicista del vicino comune di Santiago El Pinar, durante una festa tenutasi nella città di San Pedro Cotzilnam, e una bambina di 9 anni nella comunità di Tabac, situata ad Aldama.

Il Frayba assicura che lo Stato messicano “non rispetta le raccomandazioni della Commissione interamericana per i diritti umani (IACHR) per garantire la sicurezza e la vita della popolazione di Aldama”. Ricorda che “di fronte agli attacchi armati e alle violenze che sono peggiorate dall’inizio del 2018”, una commissione di 115 membri nominati in rappresentanza delle comunità colpite e il Frayba hanno chiesto misure precauzionali alla IACHR.

Questa commissione ha ritenuto che sussista una “situazione di gravità, urgenza e possibile generazione di danni irreparabili”, per la quale ha “aggiornato il seguito delle misure MC-882-17, MC-284-18” a favore delle famiglie Tzotzil da 22 città dei comuni di Chalchihuitán, Chenalhó e Aldama “ai sensi della risoluzione 102/21 (monitoraggio) del 15 dicembre 2021”.

Allo stesso modo, ha aggiunto che “le azioni che le autorità dello Stato messicano hanno compiuto per garantire la vita e l’incolumità della popolazione sono state inefficaci, come abbiamo costantemente evidenziato”.

Ha inoltre affermato che la Federazione “ha concentrato la sua attenzione sul conflitto territoriale, per il quale, il 3 marzo precedente, ha consegnato ai membri della comunità di Aldama la proprietà Cerro Bola situata nel comune di Ixtapa, un sito che è quasi 100 chilometri dal loro luogo di nascita. Lo stesso giorno della cerimonia di consegna della proprietà, la popolazione è stata costantemente attaccata.

“Tuttavia, i governi statale e federale continuano a ignorare le indagini, il disarmo e lo smantellamento del gruppo aggressore, le sue fonti di finanziamento e il legame con le autorità statali e locali“, ha concluso il Frayba.e

Fonte: La Jornada

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domenica 29 maggio 2022

S.O.S. alberi a Cagliari!S.O.S. alberi a Cagliari!

Cagliari, Viale Trieste (da Google Street View)

Gli alberi kasteddai hanno bisogno di aiuto, dell’aiuto dei cittadini cagliaritani.

Sabato 28 maggio 2022, alle ore 10.30, in Piazza Repubblica, a Cagliari, si è tenuto il sit in per chiedere una valida politica di tutela e incremento del patrimonio arboreo cittadino.

Cagliari, sit-in per gli alberi (28 maggio 2022)

Un centinaio di persone, nonostante la mattinata ottima per andare al mare.

Basta, non si può più tollerare la pessima abitudine di tagliare e capitozzare alberi e apparato radicale in ogni angolo di Cagliari e in ogni stagione, spesso e volentieri in assenza di qualsiasi plausibile giustificazione, quando non in violazione di vincoli ambientali e culturali.

Tantomeno possono passare sotto silenzio progetti assurdi di stravolgimento delle poche vie alberate cittadine, come Viale Trieste e Via del Cimitero.

Cagliari, sit-in per gli alberi (28 maggio 2022)

Centinaia di alberi fatti fuori senza tanti complimenti, mentre, con sovrano sprezzo del ridicolo, l’Amministrazione comunale si candida a capitale europea del verde 2024.

I cittadini non vengono minimamente coinvolti, quindi devono rimboccarsi le maniche per difendere i propri alberi, il proprio verde pubblico.

Forza e coraggio, c’è da difendere in ogni modo gli alberi kasteddai!

Gruppo d’Intervento Giuridico (GrIG)

Cagliari, Su Siccu, lavori pubblici con taglio dell’apparato radicale (ott. 2020)


Cagliari, Via del Cammino Nuovo, taglio alberi (marzo 2022)


 

Cagliari, taglio alberi Viale Buoncammino (7 sett. 2020)


Cagliari, confronto fra fioritura Jacarandae. Nel 2022 c’è stata una potatura prima della fioritura.

(foto da Google Street View, La Nuova Sardegna, per conto GrIG, S.D., archivio GrIG)


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scrive Mario Guerrini, su aeroporti e sanità


 

La guerra dei cieli. In Sardegna. Per aggiudicarsi l'ultimo aeroporto a gestione pubblica dell'Isola. Quello di Cagliari Elmas. C'è una sorda belligeranza tra gruppi finanziari, imprenditori, fondazioni bancarie. È una vicenda che coinvolge anche la Regione del Governatore Solinas. La Società di gestione, la Sogaer, è per quasi il 95 % della Camera di Commercio. Nella scalata non sarebbero estranei interessi di aria massonica. È una storia che si combatte dietro le quinte. Gli altri due scali sardi (Olbia e Alghero) sono già passati di mano ai privati. Ma l'aeroporto di Cagliari è il più importante. Con i suoi quasi 5 milioni di viaggiatori. Il pericolo è che le priorità degli investitori privati sono mirate esclusivamente al profitto. E solo a quello. E potrebbero non coincidere con quelle del territorio. Situazioni già consolidate in altre realtà. Come la Grecia. Ad esempio. Un altro colpo all'autonomia dell'Isola?

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L'ultima follia del Governatore della Sardegna, Christian Solinas. Costruire 4 nuovi ospedali. Nel vicinissimo 2017, Presidente Pigliaru (PD). Riforma sanitaria dell'assessore Arru, medico (PD). Parola d'ordine: tagliare. Riduzione di 64 primariati su un totale di 447. Eliminazione di 111 posti letto. Risparmio: 50milioni di euro. Adesso c'è Solinas. Laurea molto chiacchierata in legge. Annuncia: costruiremo 4 nuovi ospedali. Mentre la popolazione sarda diminuisce. Mentre in Sardegna c'è sovrabbondanza di strutture ospedaliere. Alcune addirittura almeno parzialmente chiuse. Mentre si eliminano o ridimensionano i reparti. Quasi ovunque. E la domanda di salute non potrà che essere , al massimo, la stessa di oggi. Se non è follia, poco ci manca. Con una spirale assurda di posti letto e di nuovi primariati. A beneficio del clientelismo, dello sperpero di risorse, del trionfo dei tradizionali tentacoli massonici. Già ora mancano 4 mila infermieri e un numero infinito di medici. E la tecnologia ospedaliera e spesso carente e superata. Ci ritroveremo con 4 nuovi ospedali e la esistente rete ospedaliera vecchia e in totale sofferenza. E, soprattutto, la medicina territoriale in disarmo. Pur essendo quella fondamentale in una regione vasta e a basso indice abitativo come la Sardegna. E i sardi, per certe patologie, continueranno l'odissea dei viaggi della speranza nella Penisola. Senza contare, quanto a sprechi, il Mater Olbia. E senza contare, in supporto alla Sanità Pubblica, la ottima rete ospedaliera privata. Semplicemente pazzesco.

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sabato 28 maggio 2022

“La vera scienza non usa animali” - Federica Nin

(intervista di Lorenzo Poli)

Il 24 aprile si è celebrata la Giornata Mondiale dedicata agli animali da laboratorio per ricordare le morti silenziose dei tanti essere senzienti torturati ed uccisi in nome di una cattiva scienza. I motivi non sono solo etici e morali, ma anche filosofici, scientifici e logici. Sperimentazione animale, vivisezioni e metodi sostitutivi nella ricerca scientifica: questi sono i temi che affronta il libro “La vera scienza non usa animali. Good Science versus Bad Science”, uscito per la ricorrenza, edito da Edizioni Oltre e scritto dal divulgatore scientifico Davide Nicastri e dalla psicologa Federica Nin, con contributi di oltre 20 professionisti del mondo biomedico, giuridico e filosofico-etico. Il libro ha la funzione di trasmettere l’idea che il vivisezionismo non è solo un problema riguardante il “benessere animale”, ma un problema di validità scientifica in quanto superato dal concetto di specie-specificità, riconosciuto persino dal Ministero della Salute italiano fin dal 21 settembre 20151. A tal proposito abbiamo intervistato Federica Nin, psicologa impegnata nella critica epistemologica e scientifica dei metodi di ricerca animal-based, oltre ad essere co-fondatrice e segretaria di OSA – Oltre la Sperimentazione Animale, associazione medico-scientifica che da anni informa sui metodi sostitutivi animal-free e segue ricercatori obiettori di coscienza.

 

Come è nata l’idea di questo libro?

L’idea nasce dalle domande che ci siamo posti sulla sperimentazione animale e sul fenomeno storico e attuale della vivisezione. Per esempio, perché la diversità di cure tra un canarino, un cane e un elefante, non è una differenza solo di dosi? Perché certi farmaci e sostanze ad uso veterinario che funzionano per una specie, non vanno bene per un’altra, e addirittura non sono adatte a tutte le razze di una stessa specie? Perché oltre la metà dei farmaci messi in commercio e testati su animali presentano gravi effetti collaterali? Perché capita che farmaci vengano ritirati dal commercio? Perché è pericoloso usare certi antiparassitari sui gatti mentre vanno bene per i cani? Perché possiamo mangiare il cioccolato, ma al nostro cane potrebbe risultare fatale? Perché sia gli esseri umani che i topi hanno il gene che permette al topo di sviluppare la coda, ma noi non abbiamo la coda? E perché…? E la domanda cruciale: la sperimentazione su animali è ancora “un male necessario”? A noi non risulta. Anzi, con le forze schierate in campo a favore della sperimentazione animale, i denari e le risorse umane impiegate, francamente non si può non stupirsi che siamo ancora così indietro con la cura e la guarigione di moltissime delle malattie che ci affliggono. E inoltre ci siamo chiesti perché non diffondere e favorire nuovi modi di fare il bene degli umani senza passare attraverso il male degli animali. Così abbiamo deciso di chiedere lumi a rappresentanti del mondo scientifico e biomedico domandando loro di raccontarci tre cose: come hanno scoperto l’esistenza della sperimentazione animale e maturato la loro posizione al riguardo, le informazioni e opinioni che in base alle loro competenze ed esperienze ritengono importante o utile far conoscere, e secondo loro a che punto siamo nella strada per il superamento e l’abbandono di questo metodo, quali siano i passi fondamentali da fare e chi li dovrebbe fare. Poiché la sperimentazione animale non è solo una questione scientifica, ma anche giuridica, politica, economica, morale, filosofica, sociale eccetera, abbiamo pensato di destinare due piccole sezioni anche a testimoni rispettivamente del mondo giuridico e del mondo filosofico ed etico, rivolgendo loro le medesime domande.

Il libro nasce anche dal desiderio di rompere quel muro che fa sì che ormai la maggior parte delle persone sia abituata a sentire parlare delle questioni etiche derivanti dall’uso di animali non umani nella ricerca biomedica, nei test della scienza in generale, ma non abbia familiarità col fatto che ci sono anche problemi scientifici con la pratica: perché questa è Bad science, cattiva scienza, anche nel senso scientifico, dato che è difficile trasferire all’uomo i risultati ottenuti su esseri viventi profondamente diversi sul piano anatomico, fisiologico e, conseguentemente, farmacologico. Lo dimostra il fatto che gli effetti negativi dei medicinali spesso emergono non durante la sperimentazione animale, ma in seguito, nel corso dell’impiego medico. Nonostante tutti gli accorgimenti adottati, un margine d’incertezza permane, tant’è vero che tutti concordano nel ritenere cruciali non le prove di attività e sicurezza effettuate sull’animale, bensì la sperimentazione sull’uomo.

Inoltre, i modelli animali sono fuorvianti, perché riproducono i sintomi e le manifestazioni esteriori delle malattie, non le loro cause. Di conseguenza, hanno favorito e tuttora consentono solo l’avvento di medicinali sintomatici, anziché curativi.

 

Quale giustificazione scientifica hanno la sperimentazione animale e la vivisezione?

Ci sono motivi pratici, legali, burocratici, economici, finanziari, storici, politici, culturali, di prassi, di routine… per perseverare con la sperimentazione animale, ma giustificazioni scientifiche non ce ne sono, o non ce ne sono più. Il rifiuto di abbandonare questa metodica non è di natura scientifica bensì è racchiuso e concluso in un vuoto e logoro slogan privo di argomentazioni scientifiche, che i fautori di questo metodo esprimono con un loro dogma: “senza i modelli animali il progresso delle scienze si fermerebbe, essi sono indispensabili perché non c’è modo di sostituirli, altri metodi non ce ne sono”.

Allora, in primo luogo segnalo, limitandomi a un esempio italiano, che la mia associazione medico-scientifica, O.S.A -Oltre la Sperimentazione Animale, ha fatto uscire nel 2019 un libro che ne è pieno: “Le nuove frontiere della scienza. Modelli sperimentali per la ricerca biomedica del XXI secolo” edito Aracne. Tra l’altro, data la rapidità del progresso tecnologico sotto gli occhi di tutti, oggi ve ne sono molti altri ancora, e ogni giorno se ne aggiungono di nuovi.

In secondo luogo, faccio notare che la storia delle nostre malattie e della nostra incapacità di trovare cure e soluzioni in grado di sconfiggere le malattie tuttora incurabili, come molte forme di cancro e le tante malattie neurodegenerative (come l’Alzheimer, il Parkinson, la Sclerosi Multipla ecc.) purtroppo dimostrano che la ricerca scientifica è ostacolata e frenata dall’obbligo di sperimentare sugli animali prima di sperimentare – comunque e obbligatoriamente – sull’uomo (ci sono quattro fasi di sperimentazione sull’uomo successive alle prove su animali, ma questo richiederebbe un altro articolo).

Terzo, tale regola ha motivi storico-politici e non scientifici, che risalgono a quando il processo di Norimberga portò alla luce i criminali esperimenti nazisti sugli ebrei e gli altri prigionieri dei lager. Fu in seguito a ciò, che la richiesta di utilizzare gli animali nella ricerca medica e tossicologica al fine di tutelare i diritti, la sicurezza e il benessere dei soggetti umani che partecipano ad una sperimentazione fu formalizzata nel Codice di Norimberga e successivamente in leggi, codici e dichiarazioni nazionali e internazionali, fondate a partire dal solo diritto consuetudinario.

Sono passati 75 anni e possiamo comprendere che in quell’epoca non sia venuto in mente niente di meglio che testare sostanze e terapie sugli animali, dando per presunto cioè pre-supposto che gli studi animali abbiano un valore predittivo per l’uomo. Ma è incredibile e inaccettabile che, a fronte degli avanzamenti tecnologici formidabili che si sono avuti in ogni campo e che si succedono a ritmi impensabili prima, a fronte dei nuovi modelli interpretativi del mondo (pensiamo alla fisica quantistica per esempio) ancora ci si accontenti di una metodologia scientificamente e tecnologicamente sorpassata e ingiustificata oltre che eticamente riprovevole.

Quelle norme si basano su princìpi scientifici superati, non svolgono alcuna funzione utile, aumentano i costi di sviluppo dei farmaci, impediscono la realizzazione di farmaci e terapie altrimenti sicuri ed efficaci, comportano l’esclusione di sostanze che vengono scartate perché tossiche per gli animali ma che invece potrebbero essere terapeutiche per gli umani.

Per aderire consapevolmente a questa conclusione, suggerisco la lettura di un articolo scientifico, dotto ma semplice e illuminante, di Greek, R., Pippus, e A. & Hansen, L.A, che argomenta e documenta il fatto che Il Codice di Norimberga, proprio richiedendo l’uso di modelli animali, mina la salute e la sicurezza umana2.

Le nuove conoscenze e nuove impostazioni epistemologiche, la teoria dell’evoluzione e la scienza della complessità, hanno grandi ripercussioni sulla pretesa dell’estrapolazione interspecie.

Ai tempi dei processi di Norimberga nessuno se ne rendeva conto. Prevedere la reazione di un sistema complesso (che non è a causalità lineare, ovviamente) basandosi sulla reazione di un altro non è soltanto problematico, è praticamente impossibile, non dà e non può dare risultati attendibili. Ma questo è proprio ciò che pretendono di fare gli scienziati quando testano un farmaco su un topo o una scimmia nel tentativo di valutare quale sarà l’effetto del farmaco su un essere umano.

Questa critica è diffusa nella letteratura scientifica. Sostanzialmente vi è un accordo generale sul fatto che le tecnologie predittive saranno quelle basate sull’uomo, sulla biologia umana. Ma la stranezza è che, dopo aver spiegato perché i modelli animali non devono essere considerati predittivi3, gli autori si sentono spesso in obbligo di piazzare un avvertimento alla fine dell’articolo, dove si afferma che la società dovrebbe tuttavia continuare a sostenere la ricerca sugli animali. Simili affermazioni, chiaramente in contrasto tra loro, contribuiscono non poco alla confusione del pubblico circa il valore dei modelli animali. In aggiunta, anche la profonda variabilità della risposta umana limita le possibilità predittive dei modelli animali. I medici sanno da tempo che esistono differenze nella predisposizione alla malattia e nella reazione ai farmaci tra i gruppi etnici [3-9], tra i sessi [10-14] e persino tra gemelli monozigoti [15-18].

Ma anche noi dovremmo esserne consapevoli: basta leggere il foglietto illustrativo di un farmaco, per capire che i suoi effetti sono quasi sempre diversi addirittura nelle diverse epoche della nostra vita: ai bambini sono di solito vietate o comunque sconsigliate una grandissima quantità di medicine, e lo stesso vale per gli anziani. Se su noi stessi il medesimo rimedio farmacologico ha diversa efficacia a seconda che siamo bambini, adulti, anziani, e anche uomini oppure donne (vedi “medicina di genere”), come possiamo credere che siano attendibili e sicuri gli effetti prodotti su animali che sono lontani e molto diversi da noi?

Dovrebbe bastare questo a far esitare quando si prende in considerazione l’utilizzo degli animali come modelli per l’uomo: di quali esseri umani si suppone che l’animale preveda la reazione?

 

La negazione dei metodi sostitutivi alternativi da parte della stragrande maggioranza della comunità scientifica può essere definita “ignoranza epistemologica”?

Anch’io vedo ignoranza epistemologica in quella parte della comunità scientifica, purtroppo ancora maggioritaria, che si oppone al superamento dell’uso di animali nella ricerca, vedo disinteresse verso i criteri di verità nella ricerca scientifica, di validità, di affidabilità, vedo atteggiamenti condizionati da pregiudizi e da inerzia, un certo qual rifiuto verso un’attitudine euristica a cercare soluzioni alternative o anche solo ad adottare quelle esistenti, e anche una ingiustificabile indifferenza all’urgenza etica di trovare il modo di abbandonare l’uso cosiddetto scientifico di animali nei laboratori. Chi è abituato a maneggiare topi, scimmie e i vari animali cavia neanche si informa sui NAM, i Nuovi Approcci Metodologici e trova più semplice negarne l’esistenza e l’ulteriore progettabilità e realizzabilità. Il guaio è che se le nuove leve vedranno solo laboratori con animali, e continueranno a ignorare metodi diversi, in un sistema arcaico che si autoalimenta. Così, da questa ignoranza non se ne esce.

Non a caso, la tua domanda mi fa pensare specularmente anche all’epistemologia – anzi, al plurale, le epistemologie – dell’ignoranza: l’analisi dell’ignoranza condotta negli ultimi anni ha fatto emergere un insieme multidisciplinare di studi e conoscenze. I cosiddetti Ignorance Studies sono infatti oggi un fronte di ricerca variegato e in espansione, che sfrutta collegamenti tra diversi settori accademici. E le Epistemologie dell’Ignoranza si occupano anche dell’analisi del rapporto tra ignoranza e conoscenza scientifica. Un tema discusso è per esempio il legame tra ignoranza e selezione del sapere.

Grande interesse è rivolto non semplicemente ai fattori personali dell’ignorare, ma a quelli collettivi, prodotti da fattori culturali e interessi esterni: in tal caso, si studia l’ignoranza non come fenomeno casuale, bensì l’ignoranza come prodotto di attività e sforzi collettivi, quella creata socialmente per svariati motivi, a vantaggio degli interessi economici di particolari agenti. Essa può essere per esempio il frutto di una conoscenza situata, cioè costruita e sviluppata all’interno di una prospettiva specifica, e la conoscenza scientifica secondo l’epistemologa Donna Haraway (19) sarebbe sempre situata. Il problema rilevato dalla studiosa è la mancanza esplicita di distinzione tra una prospettiva maggioritaria e una prospettiva obiettiva: questa confusione ha sostanzialmente permesso di coltivare indifferenza in merito a punti di vista minoritari e silenzio relativamente ad argomenti di interesse per le minoranze sociologiche.

Secondo me questa impostazione è utile a valutare anche il rapporto tra la componente maggioritaria e quella minoritaria della cosiddetta comunità scientifica in tema di sperimentazione animale.

Orbene sappiamo che è parte della struttura delle scienze l’assunzione di un punto di vista consensuale (“la comunità scientifica sostiene che…”), ma in tema di sperimentazione animale il punto di vista della sua presunta insostituibilità, che viene assunto come pre-supposto al pari di un pre-giudizio o di un dogma (e non raggiunto attraverso un confronto e un esame epistemologico), non è scientifico. L’Intersoggettività, pretesa sulla base di un’adesione acritica come ad un dogma e rivendicata come maggioritaria non è affatto indice né garanzia di oggettività, così come non lo è la convenzionalità, ossia la condivisione di convenzioni. Anche in questo campo si confonde (e si vuole confondere) una prospettiva maggioritaria con una prospettiva obiettiva. Ma il fatto che una parte maggioritaria di ricercatori tuttora faccia e difenda sperimentazione animale non trasforma questa in scienza. Anzi, direi che è contro l’interesse della scienza mettere in ombra o anche soverchiare le minoranze culturali e, a questo punto aggiungo, scientifiche.

D’altra parte, davvero ci si può sorprendere che alcune parti interessate al mantenimento dello statu quo oppongano resistenza al cambiamento? Stabilire l’utilità o meno della sperimentazione su animali è un problema cruciale perché l’opinione pubblica sostiene la ricerca animale solo se favorisce lo sviluppo di farmaci migliori. Di conseguenza, chi ha convenienza al mantenimento dello statu quo difende gli esperimenti sugli animali sostenendo fermamente che sono essenziali per condurre trial clinici sicuri. Non importa se è esattamente il contrario: proprio la sperimentazione umana immediatamente successiva a quella animale è la più rischiosa.

 

Perdonami la domanda provocatoria: se non si sperimenta sugli animali su cosa si sperimenta?

Ecco, questo libro mira anche a scardinare questa domanda, a cercare di far cadere quel concetto secondo cui quando la gente ti dice “ma se non sperimenti sugli animali, allora il replacement, cioè il rimpiazzo del modello animale, con che cosa lo fai? con che cosa li rimpiazzi? Ecco, bisogna anche rompere questo meccanismo psicologico secondo il quale la gente si immagina, e anch’io mi immaginavo alle origini, che si debba trovare un equivalente, cioè: non lo faccio sull’animale allora su cosa lo faccio l’esperimento? sull’uomo? su di noi? Sì, è su di noi, ma non nel senso che lo si faccia direttamente sull’uomo. Non è una questione di rimpiazzare questo con quello alla pari, la sostituzione la si fa con l’integrazione di più approcci, sia computazionali, sia biologici sia di varia natura, integrando i quali, e basandosi su cellule umane non su cellule animali, otteniamo delle risposte predittive per l’uomo in quanto basate sulla biologia umana. Viceversa, assistiamo all’assurdo di vedere degli approcci moderni favolosi, vanificati per il fatto che vengono applicati a cellule animali, alle solite cellule del topo: c’è una mentalità murinocentrica cioè con il topo al centro della ricerca, che rovina tutto.

 

Oltre ad essere psicologa, divulgatrice scientifica e scrittrice sei anche pittrice e la copertina del libro rappresenta un tuo quadro. Cosa rappresenta?

Lo avevo realizzato in un momento di grande solidarietà e partecipazione per i macachi di Parma e dedicato a loro, rappresenta uno di loro, rappresenta la mia compassione per la loro sofferenza e la loro miserevole vita nei cinque anni di sperimentazione cui sono destinati prima della soppressione finale per esaminarne il cervello, ed esprime anche il mio biasimo per chi assoggetta queste meravigliose creature, a noi così affini moralmente ma non biologicamente, con violenza e spietatezza rese strumenti di un tipo di ricerca, quella neuroscientifica, che inutilmente e quindi con una crudeltà ancora più ottusa e imperdonabile, pretende di assumere i primati non umani a modello del cervello e della mente umani. Vorrei che dalla lettura di questo libro scaturisse una trasformazione o un’aggiunta dell’antico quesito se sia eticamente corretto infliggere a un altro essere vivente sofferenze a beneficio dell’uomo. Cioè la domanda deve diventare: è eticamente corretto infliggere a un altro essere senziente delle sofferenze fine a se stesse, senza che neanche ne venga alcun beneficio per l’uomo?

 

1 https://www.salute.gov.it/portale/news/p3_2_1_1_1.jsp?lingua=italiano&menu=notizie&p=null&id=2244

2 Greek, R., Pippus, A. & Hansen, L.A, The Nuremberg Code subverts human health and safety by requiring animal modeling,BMC Medical Ethics volume 13, Article number: 16 (2012) – BMC Med Ethics 13, 16 (2012). https://doi.org/10.1186/1472-6939-13-16

Disponibile anche nella traduzione italiana di Simonetta Frediani: https://fdocumenti.com/document/una-denuncia-esemplare-il-codice-di-animali-complessita-biologica-etica.html?page=8

3 Shanks N, Greek R: Animal Models in Light of Evolution. 2009, Brown Walker, Boca Raton. Un libro la cui preoccupazione centrale riguarda il “problema di predizione” nella ricerca biomedica. In particolare, gli autori esaminano l’uso di modelli animali per prevedere le risposte umane nella ricerca su farmaci e malattie.

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venerdì 27 maggio 2022

Lo sguardo dei gorilla di montagna - Paolo Pecere

 

Un reportage ecologico e filosofico, dalle foreste del Ruanda.

Kigali è una città di colline verdi su cui spuntano grappoli di case. Infrastrutture e strade sono solide. In centro ci sono le ambasciate e un grande magazzino labirintico, qualche fast food, negozi di telefoni e televisori digitali, motorini. Intorno si diradano edifici e cantieri. Lo strato urbano funzionale si sovrappone allo strato rurale, che rimanda al passato. Per le strade c’è una calma insolita, le persone con cui parlo sembrano timide, hanno un contegno gentile e leggermente grave.

Per prima cosa penso al genocidio. Da questo orrore è cominciata la mia conoscenza del Ruanda. Era la primavera del 1994. In pochi mesi furono massacrate tra mezzo milione e un milione di persone. I numeri sono spaesanti, ma una proporzione aiuta a comprendere meglio la misura della strage: nel paese di sette milioni di abitanti morirono due terzi dei Tutsi, l’etnia di minoranza. Si uccideva per le strade e nelle case, in campagna e in chiesa, solitamente con machete e mazze. Quasi tutti hanno sperimentato la morte di cari e vicini di casa, restando orfani, invalidi, traumatizzati. Durò fino alla fine dell’estate e oltre, senza nessun intervento esterno a protezione della popolazione.

Il governo ha favorito, negli ultimi anni, una pacificazione nazionale, con un programma educativo e la riduzione di pena ai responsabili confessi. È gradualmente ripreso un turismo internazionale. Ma non mancano i segni di un conflitto ancora latente e complicato, che rende impossibile parlare liberamente. Non sono venuto in Ruanda per ricerche sulla storia politica e sociale, però; come molti altri visitatori, sono qui per la storia naturale. Oggi la conservazione e l’ecologia sono al centro del sistema educativo del Paese (nei negozi la merce è avvolta in buste di carta). Tre grandi parchi naturali con savana, foreste e vulcani garantiscono un costante afflusso di turisti che vengono a vedere elefanti, scimpanzé, gorilla di montagna. L’Africa in vent’anni ha perduto il novanta percento della sua popolazione di elefanti, restano solo un migliaio di gorilla tra Uganda, Congo e Ruanda, e la conservazione e la lotta al bracconaggio sono tenute in piedi dal turismo. Il denaro pagato per scattare foto agli animali sostituisce quello per comprare zanne d’avorio, carne e arti amputati. Sostituendo un desiderio umano con altri, il turismo è capace di evitare l’estinzione di intere specie; ma con la pandemia il sistema ha rallentato.

Arrivo ai margini della foresta di Nyungwe. Pernotto in un complesso gestito da un belga che parla italiano, dove sono il solo ospite. Il giorno successivo arriva una coppia di iraniani, e due ragazze che fanno cooperazione in Congo. Mi spiegano che a Kinshasa si esce solo in auto, perché armi e droghe sono così a buon mercato che è pieno di ragazzi pronti a rapirti e poi valutare il da farsi. Il Ruanda in confronto è un paese facile, un’opzione per riprendersi un po’, e ben venga la bellezza naturale. Vado a camminare nei dintorni. Le colline sono un tappeto lucido di tè, su cui spiccano azzurrini gli eucalipti. All’orizzonte la foresta si alza come un’onda gigantesca. La parola “verde” non coglie nulla della sinfonia sensoriale che m’imporrà giorni di silenzio attento e assimilazione. Per entrarci, però, bisogna avere un mezzo di trasporto. Mi accordo con un ragazzo per andarci in moto.

Nel freddo del primo mattino ci vuole un’ora di corsa sul solco di asfalto sinuoso, tra quelle che sembrano pareti di un canyon vegetale. Incrociamo diverse postazioni di soldati. Lo Stato ha limitato la coltivazione e la caccia ai confini del parco, protegge i non–umani in assetto da guerra. Quando arrivo in uno dei centri di accoglienza trovo un paio di ranger assonnati. Spiego il mio piano: inoltrarmi nella foresta in cerca dei colobi, le scimmie bianche e nere tipiche di questa antica foresta pluviale. La guida è obbligatoria e, grazie a un sistema di trasmissione con squadre di guardiaboschi, garantisce la localizzazione degli animali. Mi chiedono di tirare fuori certificati, visti, carta di credito. La carta non funziona, problema di linea. Non sanno come aiutarmi, mi toccherà tornare indietro e andare in un villaggio a fare un pagamento; ma a quel punto sarà tardi. In quel momento compare un uomo bianco col berretto, alto e corpulento, circondato da guide private. È uno svizzero, si presenta con un sorriso: “Mi chiamo Beat, cioè Beatus”. Propone di pagare lui con la sua carta oro, lo ripagherò con calma. Gli dico che insegno e scrivo. “Forse ho un lavoro per te. Cerco qualcuno che racconti i miei viaggi. Ho visitato 176 paesi nell’ultimo anno! Nonostante la pandemia! Guarda!” Mi mostra la mappa dei viaggi sul telefono, un globo con centinaia di bandierine. M’invia il suo contatto con un messaggio: una schiera di emoticon con gli occhi a cuore. Si allontana per l’escursione, seguito da un tizio che gli porta il treppiede per le foto.

M’incammino tra i mogani. Tra dislivelli di decine di metri, i tronchi sembrano sottili pilastri di un mondo verticale. Finiscono in un tetto di foglie su cui la timidezza delle chiome traccia nitidi contorni di luce. Sembra di stare sotto un cielo di cellule verdi. Lo sguardo scende fino alle radici, dove spuntano i dischi dei funghi sulle cortecce, e l’esplosione rossa di un giglio di sangue. Felci gigantesche nascondono il terreno. Mancano gli elefanti, che le mangiavano, ma c’è un progetto per reintrodurli.

Le scimmie sono in un profondo avvallamento. Sul pendio ripido la vegetazione è impenetrabile, si avanza col machete cercando appoggio su un tappeto scivoloso di piante piegate. Un ranger mi indica un tronco filiforme, e vedo il colobo, con la sua barba bianca e la coda penzolante da un ramo. È immobile a venti metri da terra, mastica una pianta. In alto e in basso ce ne sono altri. Sono decine, il gruppo intero che si sposta nella foresta. Mi tengo in equilibrio addosso a un tronco. Il guardiacaccia mi indica una “blue monkey”, un cercopiteco dal diadema, che sta nei pressi del gruppo. Lentamente i colobi si spostano, scendono passando sopra e accanto a noi che stiamo immobili. La vita delle scimmie è un continuo spostamento in cerca di cibo.


Il giorno dopo vado in cerca di scimpanzé. Anche questi si spostano, ma soli o in piccoli gruppi. Ogni sera preparano il giaciglio per la notte. Vedo una femmina col piccolo, seduta su un ramo altissimo. Resto mezz’ora a spostarmi lentamente, torcendo il collo, finché non inizia a scendere. È rapidissima sul tronco, arriva a terra e s’incammina tenendo il figlio per mano. Un’immagine in movimento della transizione dalla vita arboricola a quella terrestre. La sera mi scrive Beat. Mi invia delle cose che ha scritto, vuole un parere in cambio della sua cortesia. C’è anche un CV, da cui risulta che è un imprenditore iscritto a Filosofia. I testi che mi sottopone espongono la sua visione del mondo, mediante assiomi e brevi proposizioni, passando in poche pagine dalla fisica delle particelle a un progetto di pace universale.

Esco dal parco per dirigermi a nord, al confine con il Congo. La mia destinazione è il Parco Nazionale dei Vulcani, dove ho appuntamento con Veronica Vecellio, una studiosa italiana che da una vita si occupa dei gorilla. Passo due giorni tra viaggi e attese alle fermate dei bus, a chiacchierare con i ragazzi locali. Visito le piantagioni di caffè nei pressi del lago Kivu, al confine con il Congo, dove da giorni arrivano profughi in fuga da un’eruzione vulcanica.

Arrivo a Musanze. È un altro paese anonimo: due strade principali, la banca, il distributore di benzina, negozi che vendono tutto e niente, qualche isolato periferico e un arcipelago di villaggi sparsi tra i campi di patate. Ma qui si viene da tutto il mondo perché sui monti vive una popolazione di gorilla che per decenni ha fatto parlare di sé in Occidente. Nel 1966 arrivò Diane Fossey, la primatologa che sfidò le convenzioni scientifiche e sociali andando a vivere da sola con i gorilla, legandosi a loro sentimentalmente, proteggendoli dai cacciatori che li uccidevano per farne cibo e medicine tradizionali, o li catturavano vivi per venderli agli zoo. Fossey ottenne la tutela di una piccola gorilla, che chiamò Coco, rimasta orfana dopo l’uccisione dei genitori. Al momento di riceverla – così raccontò in seguito – trattenne la voglia di abbracciarla per timore di impaurire l’animale sfiduciato, che infine si avvicinò spontaneamente:

Coco mi si sedette in braccio calma per qualche minuto, prima di camminare sulla panca sotto le finestre che davano sui vicini pendii del Bisoke. Con gran difficoltà si arrampicò sulla panca e guardò la montagna. All’improvviso cominciò a singhiozzare e a piangere vere e proprie lacrime, qualcosa che non ho mai visto fare a un gorilla prima e dopo. Quando si fece buio si avvolse in un nido di piante che le avevo preparato, e piagnucolò a bassa voce fino a addormentarsi.

L’indomani Fossey trovò l’intera casa sottosopra, ma gioì per la viva curiosità che aveva portato Coco a aprire tutto e spargere le cose in giro. In seguito prese in casa un secondo gorilla, Pucker: i due passarono dall’antagonismo a una bisognosa alleanza, finendo col dormire abbracciati. Cominciò così una convivenza che per Fossey iniziava ogni giorno con una fragorosa sveglia alle sette, quando i due gorilla sbattevano i pugni sulla porta della stanza. La descrizione è quella della vita quotidiana di un genitore.

Se il tempo era coperto o freddo, passavano un’ora a mangiare tutti contenti, per poi prepararsi i nuovi giacigli con le piante. Se c’era il sole chiedevano che li portassi fuori, dove potevano sfogare l’energia repressa in lotte scalmanate, inseguimenti e arrampicate sugli alberi.

Ma non sarebbe durata a lungo. Fossey aveva ottenuto la custodia dei gorilla a condizione di restituirli al proprietario di uno zoo non appena fossero cresciuti. Questo era il solo modo per salvare le loro vite. Quando li vennero a riprendere sentì di averli traditi e non riuscì a salutarli:

Scappai dalla capanna, correndo per i prati delle nostre infinite camminate, corsi nel profondo della foresta fino a non poterne più. Non c’è modo di descrivere il dolore per la loro perdita, anche ora, più di dieci anni dopo.

Ci volle molto tempo per riuscire a convincere la società che i gorilla dovevano restare tra i monti, e provare che avevano sentimenti come quelli umani, capacità linguistiche e rapporti sociali complessi fu parte di questo processo. Col suo approccio Fossey interveniva in un dibattito antico. Molti filosofi greci, come Aristotele e gli stoici, sostenevano che le bestie prive di linguaggio e ragione, gli aloga, non rientrano nel campo della giustizia, per cui far loro guerra, cioè ucciderli per trarne vantaggio, sarebbe giusto. Per molti altri, da Empedocle a neoplatonici come Porfirio, gli animali sono invece dotati di sensibilità e ragione, e pertanto andrebbero trattati con pietà, evitando di ucciderli e mangiarli senza necessità. La questione fu ripresa più volte da filosofi e scienziati, e riguardò particolarmente i primati. Per Darwin, comprendere la mente di scimmie e primati era un compito della massima importanza “metafisica”, poiché ne andava di confutare il primato dell’uomo. L’orang utan che osservò nei giardini della Società zoologica di Londra “scalciava e piangeva come un bambino cattivo”; un’altra, Jenny, era “curiosa”, “gelosa”. Si convinse che gli oranghi capivano il linguaggio umano. Per Darwin, non c’era dubbio che in molti animali “c’è compassione nei confronti del dolore o del pericolo altrui”, e che nei primati vi fosse un vero e proprio “istinto morale” che si sarebbe evoluto nella nostra “coscienza morale”. 

Nonostante queste opinioni del grande naturalista, l’ipotesi che gli animali non umani abbiano una ricca vita mentale è rimasta a lungo esclusa dall’etologia, il cui metodo prediligeva la descrizione dei comportamenti senza congetture sul vissuto soggettivo degli animali. Quando Donald Griffin pubblicò L’animale consapevole, nel 1976, le sue tesi che gli animali hanno una coscienza come quella umana suonarono rivoluzionarie. Ma in tutte le scienze cognitive si stava tornando a parlare di coscienza e dagli anni Ottanta l’etologia cognitiva divenne sempre più autorevole e popolare. Parallelamente si ripropose la questione etica della sofferenza animale, che portò in breve tempo al dibattito ancora attuale sui diritti degli animali non umani. Insomma, primatologhe come Jane Goodall e Diane Fossey, per quanto si formassero in un ambiente accademico ancora chiuso rispetto al riconoscimento del pensiero animale, erano al passo con un’avanguardia che avrebbe prevalso. Ma non si trattava solo di convincere gli scienziati. Col suo lavoro Fossey toccò forti interessi economici, per cui nel 1985 fu assassinata nella sua capanna ai piedi del monte Bisoke. È seppellita qui, vicino ai gorilla che amò.


Scelgo proprio il monte Bisoke per la mia prima escursione. La guida, Patience, è un uomo enorme in tuta militare, che avanza insieme a me e a tre soldati armati di fucili. Mi spiega che a volte si possono incontrare dei gorilla, ma non è oggi che andiamo a cercarli. I fucili non sono per loro: la zona è rischiosa, ci sono state incursioni dal territorio congolese, rapine, morti. Pochi minuti dopo alzo lo sguardo e vedo una strana sagoma su un ramo. Sembra un uomo molto largo, seduto a gambe incrociate. “He’s watching you”, sorride Patience, e m’invita a proseguire. 

Mentre avanziamo mi parla di Alex Kagame, il filosofo che ha raccolto molte tradizioni locali, e ha tradotto la Bibbia in Kinyarawanda, una lingua locale, e che tra l’altro studiò all’Università Gregoriana di Roma. Kagame fu un critico del regime coloniale e, nel suo Philosophie Bantu–Rwandaise de l’Être, sostenne che la complicata lingua ruandese implicherebbe un’ontologia specificamente africana. Mentre parliamo Patience pianta il bastone nel terreno e si ferma a riposare sotto un albero nodoso. Mi indica il sentiero che va alla capanna e alla sepoltura di Fossey. C’è un cartello in sua memoria, che mi fermo a leggere. Ma dobbiamo presto ripartire per il sentiero che sale. Abbiamo un intervallo temporale molto stretto per arrivare in cima al vulcano, a 3700 metri, perché verrà a piovere e il ripido cammino diventerà impraticabile.

Anche qui la vegetazione è densa e stratificata, avvolta nella nebbia. Mi affaccio da una sporgenza per vedere il cielo: sopra le foglie delle lobelie vedo altre masse di alberi sospese. Torno al sentiero stretto e fangoso, che poco avanti scompare nella fredda foschia. Patience si ferma. Uno dei soldati gli parla dalla trasmittente. Facciamo ancora qualche passo seguendo una curva: c’è una famiglia di gorilla sul sentiero. Un maschio di fronte a me, poggiato sui pugni, mi osserva. Dietro ci sono femmine e piccoli. Il silverback, il maschio anziano dalla schiena argentata, non si vede. È tra le piante, devo avanzare piano. Ripasso il tutorial linguistico che ho ricevuto in precedenza. I gorilla hanno una ventina di vocalizzazioni diverse. Un sospiro profondo e rilassato, come a schiarirsi la gola, è un modo di dire che siamo in pace. Uno dei soldati lo imita alla perfezione mentre passiamo tra gli animali, che non sembrano curarsi di noi, ma ogni tanto ci guardano. Patience dice di far presto. “Se sei con noi sanno che sei un visitatore, e sono calmi”, spiega. “Ma non avvicinarti troppo, e non fissarli a lungo”. Ma sono loro che guardano me, mentre passo tra loro. 

La società dei gorilla ha una struttura semplice: ogni gruppo ha di norma un maschio dominante e altri esemplari di ogni età e sesso. Si spostano continuamente nel territorio, restandosi vicino, e ogni sera preparano un nuovo rifugio con foglie e rami. Alcuni maschi in età adulta se ne vanno, formano gruppi propri, a volte cercano di prendere il controllo di altri gruppi. A questo scopo devono sfidare l’autorità di un silverback, affrontandolo direttamente o tentando di uccidergli i figli.

Mentre passo oltre mi accorgo del maschio che mi osserva appostato tra le foglie, mentre mastica un ramoscello verde. Ogni mia mossa è oggetto di sorveglianza attenta. Anche se non si vedono tra loro, i membri del gruppo si localizzano a vicenda con suoni e odori. Una rete sensoriale li unisce in una stretta solidarietà finalizzata alla difesa e alla cura dei figli. Al tempo stesso, il loro orizzonte sociale è stretto: con gli altri gruppi convivono a distanza, evitano di mischiarsi, non concepiscono comunità più estese. In inglese i gruppi di gorilla hanno nomi marziali: troopsbands. In realtà il loro stato di natura è raramente uno stato di guerra, e capita che mangino accanto ad altre specie come gli scimpanzé. Ma capitano anche scontri feroci.

“Fra le bestie, alcune si fanno sempre guerra a vicenda, altre – come per esempio l’uomo – quando capita”, così scrive Aristotele. La guerra permanente a cui pensa è soprattutto quella tra predatori e prede. I conflitti tra i gorilla mi fanno pensare piuttosto a arcaiche faide patriarcali. Eppure proprio in questi clan col loro grosso grasso maschio dominante, secondo l’etologo Frans De Waal, si trova l’origine delle nostre capacità morali. L’appartenenza al gruppo che si ricompatta di fronte ai pericoli fonderebbe infatti la consapevolezza di appartenere a una comunità come valore che oltrepassa l’individuo. Le società umane condividono questo principio, ma possono espandere la comunità morale fino a raccogliere intere popolazioni, tutti gli umani, altre specie. Da questo punto di vista il gorilla, che a lungo è stato associato alla violenza brutale, è un personaggio ambivalente e complesso. Del resto proprio adesso l’animale sta accettando che io e altri umani passiamo tra di loro, perché sa che non vogliamo nuocere. La mia impressione è che ci sia di più: quando smette di masticare e mi considera in silenzio sta ricambiando la mia curiosità, e un certo spaesamento. Mi sembra anche che si annoi, e di fronte alla novità cerchi di capire cosa viene a fare lo strano visitatore.


Quando arrivo in cima la nebbia è impenetrabile. Non si vede il lago nella caldera, né il Congo sull’altra sponda. Comincia a piovere. Presto ci riavviamo a valle, cercando di non scivolare troppo su radici esposte e fango sciolto. Mi concentro su piedi e mani, dimentico il resto, fino al margine della foresta. Salto giù da una radice sull’erba di un campo, e solo allora inizio a sentire le gambe indolenzite e ritrovo i pensieri quotidiani, i messaggi sul telefono di persone lontane, l’incertezza delle parole, le preoccupazioni per il passato, l’inutile, l’irreale: non sono più leggero. Capisco meglio quel che è accaduto là sopra. Con i gorilla non avevamo solo da guardarci o annusarci, soprattutto siamo stati insieme, a goderci la bella giornata, in un’esperienza di ricongiunzione tra viventi sempre più rara, come una festa silenziosa. Tornato qui alle monocolture umane, alle strisce d’asfalto, ai rantoli delle marmitte, alle insegne dei negozi fulminate, al piacere globale del cappuccino, sono in un mondo più povero.

Le strade di Musanze sono piene di ragazzini, e come sempre finisco con l’andarmene in giro con un corteo di accompagnatori. Due di loro, Ignace e Claude, mi pregano di andare a visitare il loro villaggio. Dicono che ci vuole mezz’ora, ci mettiamo più del doppio di buon passo, avanzando tra sterrati e case con i tetti di lamiera. Un gruppo di vigilanti di zona chiede informazioni su di me, ci fanno passare. Entriamo in una delle tante boarding school evangeliche. Ampi cortili erbosi, aule vuote, e un grande capannone dove stanno riuniti tutti per una specie di spettacolo. A turno gruppi di studenti e studentesse fanno la loro canzone. I gruppi sono decine, si fa buio. Ignace e Claude aspettano che dica qualcosa, sembrano ansiosi. Dico che è molto bello, e che vorrei avviarmi. Ma loro insistono che parli con un professore, che mi riceve nel suo studio, poi s’incammina con noi.

Andiamo velocissimi e in silenzio verso Musanze, scambiando qualche parola su studenti e scuola col collega, e finalmente il professore istruito dai ragazzini mi dà il messaggio: Ignace e Claude vorrebbero studiare turismo, non hanno però i soldi per la retta. Ecco un tema del nostro rapporto, che proseguirà per mesi. Loro due, come tanti altri figli di contadini, trovano nel turismo una promessa di cambiamento sociale, e le scuole private ne approfittano. Claude e Ignace me li ritrovo mattino e sera di fronte alla pensione. Tornano col buio, mi spiegano che la madre non li aspetta per la cena, che lascerà qualche patata lessa: hanno sedici anni, ormai sono grandi e lei deve badare ai figli minori. Chiacchieriamo di fronte a un frappè da “Crema”, il locale nuovissimo che sta sulla strada principale. Prima di ripartire, sulla porta della pensione, mi portano un regalo: un pezzo di legno nero su cui è scolpito il volto di un gorilla. Ignace dice di averlo fatto lui, ma ho visto in giro quel souvenir. Il modo in cui guardano il simulacro mi colpisce: per loro è chiaramente un’entità estranea e di scarso interesse, che per un caso indecifrabile affascina i bianchi, porta ricchezza, e ci ha fatto incontrare. Scrivo il mio numero di telefono su un foglietto. Intorno stanno altri ragazzi che nel frattempo ci hanno seguito: mentre comincio a chiudere il cancello vedo che iniziano a contendersi il foglietto, spalancano gli occhi, iniziano a spintonarsi.

L’ultimo giorno sui monti, in cerca di gorilla. Il gruppo è segnalato su un pendio remoto. Raggiungerli è arduo, si avanza aprendo cunicoli nella vegetazione solida, il guardiaparco mi aiuta a tirarmi su. Lo perdo di vista in una strettoia, faccio tre salti avanti ed ecco l’animale nero. È a pochi passi da me, mi viene incontro. Mi dicono di non toccarlo e stare fermo. Resto immobile mentre mi passa accanto strofinando il pelo lucido sul mio fianco. Sento il suo odore forte, inconfondibile. Postura e posizione fanno parte del modo in cui comunichiamo.

Mi accorgo di altri quattro maschi, siamo circondati. Sembra di stare tra uomini che parlano un linguaggio straniero, le cui intenzioni sono imprevedibili. Condividiamo lo stesso spazio, ma a tratti sembra che siamo in luoghi diversi e non comunicanti. Con l’esperienza e lo studio, forse, sarei capace di tradurre quel che fanno e pensano. In parte, si capisce, fanno cose familiari. Uno di loro, un passo sotto di me, sgranocchia piante dandomi le spalle. Un giovane maschio si sdraia sull’erba, piedi all’aria, e si riposa al sole. Altri due stanno accucciati tra le piante, bloccandoci la via del ritorno. Saliamo ancora, entriamo in un boschetto e vediamo un trio di maschi all’ombra. Uno di loro, il silverback, mi ricorda un mio parente in Italia, molto attaccato al divano: sta con la testa reclinata, le braccia incrociate sulla pancia e le gambe mezze stese. Socchiude gli occhi e si rilassa. Un altro spunta con la testa da sopra una radice, sdraiato di fianco. Mi fissa con gli occhi nocciola bene aperti. Mi avvicino, gli scatto delle foto. Continuiamo a osservarci per qualche minuto, prima che decida di girarsi. Forse si chiede che faccio con quell’apparecchio nero che tengo sugli occhi, e cosa mi spinga a guardarlo con tanto interesse. Mi rispecchio nel gorilla attribuendogli dubbi e pensieri simili ai miei; mi pare per un attimo che, al termine di un viaggio lunghissimo nello spazio e nel tempo, tra noi sia possibile un’intesa meravigliosa.

Ragionare così, in etologia, è stato a lungo sospettato di antropomorfismo. Gli altri animali non sono umani, per cui non possiamo sapere con certezza cosa pensino, e il fatto stesso che pensino per molti è dubbio. Il darwinismo suggerisce una replica: “se è vero che gli animali non sono esseri umani, è altrettanto vero che gli esseri umani sono animali”. La prossimità biologica giustifica una somiglianza psicologica, per cui di fronte a comportamenti che associamo a certi pensieri non bisogna farsi scrupoli a prendere sul serio la nostra interpretazione. Negarlo è una forma di “antropodiniego”, che nasconde un’infondata pretesa di eccezionalità. Certo, non siamo del tutto sicuri di cosa pensino i gorilla, né di quanto le nostre traduzioni siano adeguate quando ci diciamo che sono “curiosi”, “divertiti”, “irritati” e così via. Ma fare ipotesi è pienamente legittimo. Del resto, anche tra umani la comprensione ha sempre margini d’incertezza e vaghezza. Quando parliamo di “amore” o “dolore” possiamo intendere cose diverse, e l’esperienza degli altri non è immediatamente trasparente, eppure non mettiamo in dubbio che esista e che sia tutto sommato comprensibile. E d’altra parte, gorilla e altri primati hanno mostrato di poter comprendere molte parole del linguaggio umano, inclusi concetti astratti. Insomma possiamo capirci su molte cose, con tutto il fondo d’indeterminatezza che ogni comprensione comporta.

La riflessione sulla morale dei primati pone problemi simili. Da Darwin a De Waal, la capacità morale umana è stata collegata con i suoi precedenti nei primati. Per Darwin l’“altruismo reciproco” avrebbe prodotto benefici di gruppo, e questo ne avrebbe potuto spiegare lo sviluppo. Ci si domanda però se i primati siano capaci di sentimenti empatici e di pensieri altruisti. Alcuni esperimenti lo suggeriscono. Le scimmie reso non accettano cibo se questo produce dolore nei loro simili. Le cappuccine protestano se ricevono un compenso peggiore delle altre per lo svolgimento di un compito. Non è chiaro se questi comportamenti implichino il “sentimento della compassione” tipicamente umano, l’empatia come “scambio di posto nella fantasia con chi soffre”. Né il senso di un’ingiustizia subita comporta senz’altro l’idea di una giustizia universale. La questione è complessa. Ci sono diversi gradi di coinvolgimento nello stato degli altri: il contagio emozionale, per cui il fastidio istintivo per il disagio altrui ci spinge a lenirlo in qualche modo, la vera e propria empatia cognitiva, per cui si capisce cosa prova l’altro, e l’altruismo, per cui si decide di aiutare un altro mettendosi dal suo punto di vista. Tutti questi comportamenti possono nascere da emozioni naturali, da pressioni sociali, o da un vero e proprio ragionamento.

Sembra che l’altruismo presupponga una coscienza della distinzione tra sé e gli altri che si trova solo in animali come scimmie, delfini e elefanti, oltre che negli uomini. È comunque difficile capire quando un comportamento sia accompagnato o motivato da considerazione consapevole. Ma questa difficoltà vale anche per gli umani. L’azione morale può essere mossa da pulsioni cieche, calcoli, ideali. Sulle motivazioni altrui possiamo fare solo congetture più o meno fondate, e spesso raccontiamo a noi stessi di agire con altruismo quando in realtà non è così. Di certo sappiamo formulare norme universali e abbiamo una potente capacità di autocontrollo e riflessione (benché imperfetta, e spesso inutilizzata). Proprio per questo consideriamo responsabili gli altri umani che si comportano in modo violento e crudele, ed è del tutto inappropriato dire che si comportano “come animali”, perché l’assenza di rispetto e di pietà che c’indigna è propriamente umana.

Questo porta al problema della nostra responsabilità verso gli altri animali. Le nostre società possono essere più o meno gerarchiche, più o meno ingiuste, non diversamente da quelle di scimmie e primati; ma in noi c’è la capacità di concepire una comunità che includa chi è diverso, prima di tutto altri popoli. “La strada per l’amore universale e il vantaggio reciproco” è “considerare i paesi dove vivono gli altri popoli come fossero il proprio”, scriveva già il pensatore cinese Mozi. Certo la distanza indebolisce il senso di quella distanza, e cosa accade in Cina importa normalmente meno all’Europeo di quel che avviene nel suo paese. Le emozioni non hanno lo stesso raggio d’efficacia della ragione, ma esperienza e riflessione possono forse aumentarlo. Lo stesso vale per il rapporto con gli altri animali: lo sforzo d’immaginarne i pensieri fa parte dell’obiettivo di stabilirne dei diritti.

Peter Singer ripropose cinquant’anni fa la questione dei diritti degli animali rispetto a pratiche come il maltrattamento, la vivisezione, l’allevamento di carne. Parlò di “liberazione animale”, riprendendo il paragone aristotelico tra schiavi e bestie. Quel paragone è controverso: alcuni insistono sulla discontinuità tra i due casi, sottolineando che gli animali non umani non potranno mai diventare membri effettivi della società, a differenza degli schiavi liberati, né rivendicare i propri diritti. Resta l’esigenza di conferirli, questi diritti, rompendo con tradizioni millenarie che hanno fatto degli altri animali degli esseri naturalmente subordinati, riserve di cibo ed energia che si possono sfruttare indiscriminatamente, strumenti da colpire se mal funzionanti. Capire il raglio dell’asino, il tocco di ringraziamento della balena liberata dalle reti, il pianto dell’elefante orfano, diventa decisivo.

Il caso dei primati è singolare, perché la loro vicinanza biologica è saldamente incarnata nel nostro apparato cognitivo. Darwin già accostava la comprensione delle emozioni a quella dell’espressione facciale. Lo confermano le recenti scoperte sui neuroni–specchio, che si attivano quando percepiamo un altro che svolge un’azione e quando compiamo quella stessa azione: le emozioni tendono a riprodursi in noi quando osserviamo certe espressioni sul volto, ma questo vale solo per i nostri simili, come uno scimpanzé. La nostra vicinanza è profonda, la distanza è sottile. 

Si torna allora alle domande sollevate dalla vita di Fossey: quanto possiamo capirli? Come possiamo legarci a loro? Fossey affrontò la questione nel libro autobiografico Gorilla nella nebbia, popolarizzato nel film con Sigourney Weaver che ne è stato tratto, e ha lasciato un’eredità vivissima. Il Diane Fossey Gorilla Fund è ancora oggi una delle istituzioni più solide e prestigiose per lo studio e la conservazione dei gorilla di montagna. Proprio qui lavora la persona che sono venuto a incontrare, e a cui giro le mie domande. Veronica Vecellio è nata a Roma come me, ma per oltre vent’anni ha studiato scimmie e primati in diversi paesi africani. Lavora dal 2005 al Diane Fossey Gorilla Fund, dove oggi dirige le pubbliche relazioni.

La incontro per un caffè da “Crema”. Per un po’ conversiamo di Roma, delle nostre vite private, di conoscenze e letture comuni. Ha l’accento lievemente apolide di chi vive da tanto lontano dal paese d’origine, e uno sguardo d’incondizionata curiosità. Le domando come ha deciso di studiare i gorilla. “Ho sempre avuto una speciale connessione con gli animali. Sono cresciuta e ho trovato me stessa nel rapporto con gli animali e nell’esplorare la natura, e mi è sempre piaciuto farlo da sola. Questa mia passione, che solo quando anni dopo si è concretizzata in carriera, l’ho riconosciuta come dote solo da adulta. Prima vivevo un po’ come un’estranea e mi sentivo strana! Faticavo a trovare il mio posto e la mia motivazione nella società urbana di Roma, che ho amato ma sempre con un sentimento di non appartenenza. Così appena ho maturato l’idea che potevo andarmene non ho esitato a farlo. Non mi spaventavano gli sguardi allibiti della gente o frasi di preoccupazione, io da quel momento in poi non avevo nessun dubbio”.

 

“Perché i gorilla?”.
“Ero affascinata dalla storia di Diane Fossey. Ho visto il film Gorilla nella nebbia e mi è scoccata l’idea che volevo essere come lei, avvicinarmi ai gorilla ed essere parte della natura selvaggia africana”.
“Com’è il tuo legame con i gorilla,  quanto è stato importante nella tua vita?”.
“Il rapporto con i gorilla ha completamente plasmato la mia vita tanto da diventare la mia identità. Il contatto personale non è la cosa che mi ha cambiato, anche se non ne ho avuti tanti; il fatto che davvero sento mio è condividere la natura con i gorilla. Mi spiego meglio. Quando sono con i gorilla e loro mi ignorano e continuano a fare le loro cose quello è davvero il momento in cui mi sento ‘io’, esattamente dove e come voglio essere. Non condivido la necessità di creare un contatto personale, essere toccata o avere un rapporto di curiosità e affetto, quello che davvero mi fa felice è vivere ed essere parte della natura senza modificarla. I gorilla di montagna in Ruanda sono stati abituati all’uomo da anni, da quando Diane ha iniziato a avvicinarli. Non si è trattato per loro di una convenienza pratica, come il fatto di ricevere cibo. È stato un processo naturale ed ora l’uomo è accettato dai gorilla come parte del loro ambiente. È pazzesco!”

“Negli studi sugli altri animali, e in particolare sui primati, si discute spesso dell’opportunità o del rischio di proiettare eccessivamente le categorie e le emozioni umane. Tu che ne pensi?”.
“Antropomorfizzare i comportamenti animali è la cosa più naturale del mondo e non ci vedo niente di sbagliato fintanto che il comportamento che stiamo antropomorfizzando è davvero simile al nostro. Prendi i gorilla: condividiamo con loro la maggior parte del nostro patrimonio genetico e condividiamo con loro un’evoluzione comune. Il loro aspetto, la loro fisiologia e anatomia e il loro modo di comunicare sono simili a quelli umani. Per questo moltissimi comportamenti ed espressioni sono facili da interpretare. In questo senso dare un significato umano ai comportamenti dei gorilla e qualsiasi altra specie di scimmia antropomorfa non soltanto ha senso; facendolo, oggettivamente li comprendi meglio dal punto di vista scientifico. Ti faccio degli esempi. Quando un gorilla muore e i componenti del gruppo restano con il corpo del defunto, noi diciamo che stanno elaborando il lutto, ed è assolutamente vero. Lo fanno in modi diversi, chi più e chi meno. Anche la varietà di personalità e comportamenti è molto simile a quella dell’uomo. Ti racconto la storia di Fashya. Quando aveva 4 anni è rimasta intrappolata in una trappola per antilopi, quando l’abbiamo liberata le è rimasta una gravissima ferita al piede. Non riusciva a camminare. Fashya era rimasta orfana di madre pochi mesi prima. L’amica Icyororo era sempre al suo fianco per aiutarla a camminare. Un giorno le abbiamo viste mentre attraversavano un fiume: Fashya non ci riusciva e Icyororo le ha porto la mano e l’ha tirata dall’altra parte. Mentre le due giovani stavano attraversando il fiume, loro padre (il padre adottivo) le aspettava insieme a tutti gli altri del gruppo. Oggi Fashya e Icyororo hanno 9 anni e Fashya si è ripresa dalla ferita. Chiamiamo il loro rapporto amicizia e io non trovo un termine che sia più adatto”.


 “Mi ha colpito scoprire che nella società dei gorilla c’è una struttura fortemente gerarchica, e che i maschi possono uccidere i figli degli altri allo scopo di prendere il controllo del gruppo. Forse nei gorilla vediamo qualcosa di simile e inquietante, e nello stesso tempo qualcosa che siamo capaci di superare?”.
“Una delle cose più affascinati dell’osservare una specie non umana è cercare di capire le strategie di successo sociale e le politiche interne. I gorilla hanno delle società fortemente incentrate sul nucleo familiare. Questo ha dei pro e contro dal punto di vista umano (mentre dal punto di vista naturale tutto è pro). Ogni adulto del gruppo darebbe la vita per la protezione dei piccoli. I maschi, essendosi evoluti con una taglia più grande per il loro ruolo di protettori, usano la loro stazza per mantenere ordine e per proteggere dagli attacchi esterni. La gerarchia è una strategia di mantenimento dell’ordine e funziona molto bene. Il silverback dominante guida e protegge e allo stesso tempo si mantiene attraente per le femmine che si devono sentire al sicuro. L’infanticidio avviene quando un maschio esterno alla famiglia entra nel gruppo con l’obbiettivo di attrarre femmine e di formare un suo gruppo o ingrandire quello che ha. Uccidendo i piccoli riporta le femmine allo stato fertile, che la femmina perde dal momento del parto per 3–4 anni durante l’allattamento. Inoltre quando una femmina perde un piccolo per un incidente così grave normalmente cambia gruppo perché non si sente più protetta. Insomma alla base di tutta l’organizzazione sociale c’è la protezione dei piccoli dall’infanticidio! Quindi anche se questa è una strategia usata (raramente) dai gorilla per attrarre femmine, è pure il fattore decisivo per cui i gorilla preferiscono stare in gruppo”.

“Hai avuto episodi (positivi o negativi) in cui le tue aspettative sul comportamento dei gorilla sono state spiazzate?”.
“Sì, parecchie volte. Ti voglio raccontare di Maggie, una femmina eccezionale. Quando il maschio dominante del suo gruppo, si chiamava Bwenge, è stato ucciso da un altro silverback, lei (cosa rarissima) ha preso le redini del gruppo di otto gorilla. Non solo è riuscita a proteggere tutti dal silverback che ha ucciso Bwenge, ma, quando si è imbattuta in altri silverbacks solitari che volevano approfittare della situazione, non si è arresa: l’abbiamo vista correre alla carica di silverbacks molto più grandi di lei per proteggere il gruppo. Quando Maggie ha finalmente trovato un altro gruppo dove si è sentita al sicuro ha smesso di lottare. Il suo gruppo si è unito a quest’altro, guidato dal maschio Ugenda. Maggie però non voleva restare e quando ha potuto se n’è andata da sola e così è rimasta fino a che siamo riusciti a seguirla. Io e gli altri ricercatori, che hanno avuto la fortuna di seguire la vicenda, siamo rimasti sbalorditi dalla personalità di questo gorilla che ha messo in salvo la sua famiglia e poi ha continuato da sola”.


“Qui c’è l’istinto del gruppo, ma anche un individuo che va oltre”.
“Ho tanti altri esempi, come quello di Giraneza, il silverback che uccideva altri silverback, un vero serial killer. Un comportamento mai visto prima. Alla fine è morto di polmonite e nessuno di noi ha pianto, dato che aveva ucciso quattro silverbacks a sangue freddo, una cosa terribile”.
“Passando poco tempo con questi animali ho avuto un assaggio di una sensazione gioiosa, di pacifica convivenza tra diversi nel medesimo ambiente, qualcosa che mi sembrava avvenire al di qua del linguaggio e della razionalità. Per trent’anni hai approfondito questa esperienza: potresti farne a meno o farà sempre parte della tua vita?”.
“Sarà sempre la mia vita sia sul campo che fuori. Abbiamo il dovere di proteggere i diritti degli animali, e io contribuirò sempre in qualche modo alla loro conservazione. Il senso di famiglia che si sente quando si sta con i gorilla va al di là di ogni concezione del regno animale che si può ricavare da una conoscenza impersonale. Osservare cosa significa famiglia per un’altra specie è veramente qualcosa di unico: capisci i sentimenti, i modi di comunicare, le diverse personalità e i diversi rapporti, chi si piace di più e chi meno. Non ci si stanca mai. Tu lo hai vissuto e così succede ai fortunati che possono venire a visitare i gorilla di persona e senza barriere. Dicono che è un’esperienza che cambia la vita: è proprio così”.

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