I semi del profitto - Francesco Paniè
Per oltre diecimila anni i contadini hanno liberamente conservato, selezionato, scambiato o venduto le loro sementi, usandole e riutilizzandole per produrre cibo. Oggi queste pratiche sono state drammaticamente ridimensionate da un secolo di trasformazioni radicali dei sistemi alimentari. Ci troviamo al punto che delle seimila diverse specie vegetali utilizzate come cibo, appena nove coprono il 66% della produzione mondiale.
Sono numeri allarmanti, che la FAO ha raccolto in un recente rapporto
dedicato allo stato della biodiversità per il cibo e l’agricoltura, e che
raccontano come in tutto il mondo le varietà locali coltivate dagli agricoltori
stiano scomparendo a una velocità senza precedenti.
Ne conseguono la standardizzazione e l’appiattimento delle nostre diete,
fenomeni che gettano le loro radici in una progressiva spinta alla privatizzazione
dei mezzi di sussistenza più basilari – i semi – cominciata tra fine Ottocento
e inizio Novecento. Alla scoperta di questa storia, anzi di tante storie
apparentemente parallele ma fra loro intimamente intrecciate, ci porta Fabio
Ciconte con il suo ultimo libro, uscito per Laterza. “Chi possiede
i frutti della terra” è un testo a metà fra inchiesta giornalistica e
ricostruzione storica, una collezione di aneddoti chiave ma allo stesso tempo
un tuffo nelle profondità dell’economia agricola di oggi, nel tentativo ben
riuscito di tenere insieme le cause e gli effetti.
Così, nelle 224 pagine del libro il lettore passa dagli Stati Uniti del
primo Novecento, quando un vivaista con l’occhio per gli affari decide di
costruire una gabbia metallica intorno a un albero di mele particolarmente
saporite, fino alle gabbie immateriali dell’oggi, costituite da brevetti e
convenzioni sulla proprietà intellettuale delle risorse genetiche. “Chi
possiede i frutti della terra” ci porta da un capo all’altro del mondo, seguendo
la filiera di alcuni prodotti emblematici come la mela rosa, il kiwi giallo o
l’uva senza semi, frutti che il mercato paga bene e che incontrano l’entusiasmo
dei consumatori.
Anche noi forse li abbiamo assaporati, senza sapere però che a coltivarli
sono pochi “club” di imprese selezionate e gestite da un sistema quasi
militare, il cui primo obiettivo è evitare che tutti quelli al di fuori del
circolo non possano piantare quella varietà. A meno di non voler correre il
rischio di finire sul lastrico.
Questo dominio assoluto delle leggi del mercato ha soppiantato in gran
parte dell’Occidente qualunque altra forma di gestione delle risorse genetiche,
fosse essa in forma consuetudinaria o regolata dallo stato. In un processo
sorprendentemente rapido, che ha visto nell’invenzione delle sementi ibride uno
dei suoi passaggi più importanti, il diritto di riprodurre la vita vegetale è
stato sottratto agli agricoltori e preso in mano dalle imprese.
Il seme ha così perso la doppia natura (di seme appunto, ma anche di cibo)
che lo rendeva inafferrabile dal settore privato. Tuttavia, con le nuove
scoperte nella selezione genetica e poi l’avvento delle biotecnologie, quella
che può essere considerata la base della vita è stata piegata alle dinamiche
del profitto, al punto che oggi l’agricoltore è quasi sempre dipendente da semi
fabbricati dalle imprese sementiere e deve riacquistarli ogni anno, perché
progettati per rendere bene solto una volta.
L’uniformità è condizione principale per la brevettazione di queste
varietà, ed è diventata criterio universale che confligge con la prassi della
natura (che non genera nulla di identico) e sta portando il sistema alimentare
verso una perdita di biodiversità senza precedenti. La FAO stessa ammette che
“c’è un considerevole consenso sul fatto che, in generale, il passaggio da
sistemi di produzione tradizionali che utilizzano varietà locali a sistemi di
produzione ‘moderni’ che dipendono da varietà ufficialmente rilasciate stia
portando all’erosione genetica”.
La fiducia in un cambio di rotta che potremmo riporre nelle istituzioni
pubbliche vacilla quando Ciconte descrive le soluzioni adottate in questi
decenni dai paesi e dalla comunità internazionale. Le cosiddette
“banche dei semi”, nate per conservare in tutto il mondo decine di migliaia di
varietà locali, antiche e meno antiche di proprietà degli stati, non godono di
buona salute.
A Bari resiste uno degli spazi di stoccaggio più importanti del pianeta, ma
è una struttura sottofinanziata e in abbandono, triste reliquia che testimonia
il disinteresse del pubblico per un comparto per il quale aveva tutt’altra
sensibilità prima della “rivoluzione verde”.
Nonostante lasci forse un po’ di amaro in bocca, “Chi possiede i frutti
della terra” è ci offre una ricostruzione storica che inquadra cause ed effetti
del disastro ecologico ed economico in cui versa oggi l’agricoltura.
Un libro che ci invita anche alla mobilitazione, alla discussione e alla
proposta di un’alternativa, per non subire inermi l’impatto devastante della
crisi climatica sulle nostre agricolture e sui sistemi alimentari.
https://comune-info.net/i-semi-del-profitto/
Da Vavilov a oggi, passato e futuro di uno strumento fondamentale, non solo
per la biodiversità - Agnese Codignola
Si chiama Future
Seeds, ed è iconica almeno quanto il suo gemello norvegese,
il Global Seed Vault delle
isole Svalbard inaugurato nel 2008, di cui rappresenta la continuazione ideale.
La nuova banca mondiale del genoma vegetale di Palmira, Colombia, costata 17
milioni di dollari, progettata per essere del tutto sostenibile e appena
inaugurata, ospita soprattutto semi e germoplasmi di quella parte del mondo,
tropicali, con una particolare concentrazione di varietà di cassava, di cui
contiene campioni di oltre 6.100 varietà, erbe da foraggio (22.600) e fagioli
(poco meno di 38.000).
Inoltre, rispetto all’inaccessibilità totale,
necessaria ma anche esibita del Vault costruito tra i ghiacci artici, Future
Seeds è stata pensata per permettere e anzi stimolare le collaborazioni
internazionali attraverso incontri, seminari, partnership, e l’accesso del
pubblico, anche quello scolastico, per far crescere la consapevolezza
dell’importanza della biodiversità vegetale nelle generazioni più giovani.
Future Seeds è nata sotto l’egida del CIAT (Centro internazionale per l’agricoltura tropicale),
organismo a sua volta membro del CGIAR (Gruppo consultivo sulla ricerca agricola
internazionale), una partnership internazionale fondata cinquanta
anni fa per sconfiggere la fame proteggendo e sviluppando il maggior numero
possibile di specie, con contributi di diversi governi e quello di Jeff Bezos
(come fa notare Science in un
articolo di presentazione). La banca ha iniziato ufficialmente la sua
attività in un momento in cui la guerra in Ucraina sta, tra le altre cose,
ricordando a tutto il mondo quanto siano preziose le sementi, e quanto la loro
custodia sia imprescindibile.
Le banche dei semi ospitano milioni tra varietà e
specie vegetali, moltissime delle quali ancora da studiare, spesso dotate di
caratteristiche di resistenza che potrebbero rappresentare la salvezza per
l’umanità dei prossimi anni.
Luoghi come questi ospitano infatti – si stima – oltre
sette milioni tra varietà e specie vegetali, moltissime delle quali ancora
tutte da studiare, e spesso dotate di caratteristiche di resistenza a
condizioni ambientali sfavorevoli o a parassiti e malattie che potrebbero
rappresentare la salvezza per l’umanità dei prossimi anni. Per capire che
tipo di lavoro si svolga in questi “santuari” della botanica e quale sia la
loro reale importanza, Il Tascabile ha parlato con Pasquale
Tripodi, ricercatore del CREA (Consiglio per la ricerca in agricoltura e
l’analisi dell’economia agraria) di Roma, e coordinatore di uno studio
internazionale pubblicato sulla rivista
scientifica PNAS, nel quale sono
state descritte le specificità genetiche e fenotipiche di oltre 10.000
accessioni (cioè individui vegetali cresciuti in luoghi diversi, grazie ai
quali hanno sviluppato fisionomie proprie) di peperoni: uno sforzo titanico (il
terzo al mondo dopo quelli sui genomi di circa 80.000 accessioni di grano e
10.000 di orzo), reso possibile proprio dall’esistenza delle biobanche. “Le
banche dei semi hanno iniziato a sorgere in diversi paesi dopo che è stata
fondata la prima, in Russia, nel 1921. Già allora, infatti, si era capito
quanto fosse strategico preservare e studiare la straordinaria varietà di
piante commestibili e non presenti sulla terra. L’intuizione si deve
a Nikolaj Ivanovič Vavilov, figura fondamentale, oggi considerato martire
della scienza, la cui storia, ripercorsa oggi, assume un significato del tutto
particolare, così come quella dell’Istituto da lui fondato”.
Nato nel 1887, Vavilov aveva studiato con Gregory
Bateson tra il 1913 e il 1914 in Gran Bretagna, perfezionandosi in Francia e in
Germania. Tornato in Russia, era stato chiamato da Lenin a dirigere l’istituto
di botanica applicata di Leningrado. Nel 1934 Vavilov aveva già fatto aprire
oltre 400 centri di ricerca e stazioni sperimentali in tutto il paese, dove
lavoravano 20.000 tra ricercatori e tecnici, e aveva così condotto l’Unione
Sovietica ai vertici mondiali della ricerca botanica e delle sue applicazioni.
Il suo istituto, nel frattempo, era diventato il VIR, l’Istituto
Vavilov di tutte le Russie per gli impianti industriali, oggi per la
genetica vegetale (da notare che, nel cambio nome, avvenuto pochi anni fa, la
parte rimasta è quella relativa a tutte le Russie): la prima banca
dei semi al mondo, che nel 1940 ospitava già oltre 200.000 campioni (oggi sono
325.000).
Vavilov aveva continuato a viaggiare in ogni angolo
del pianeta, per un totale di 115 missioni in 64 paesi, tutte finalizzate a
studiare le piante delle più diverse latitudini e dare vita a scambi culturali
e scientifici. Ma poco dopo, in seguito alla carestia provocata dalle
dissennate politiche agricole staliniane, gli fu
preferito Trofim Lysenko, ostile a
qualunque ipotesi di genetica mendeliana e sostenitore della cosiddetta vernalizzazione,
una teoria del tutto priva di fondamento secondo la quale, per contrastare
l’insufficienza dei raccolti, era necessario estendere le coltivazioni alle
zone più settentrionali e gelide della Russia, anche ricorrendo a espedienti
che, se non avessero provocato indirettamente milioni di morti, oggi
sembrerebbero grotteschi. La vernalizzazione aveva conquistato Stalin, che nel
1941 condannò Vavilov alla pena capitale, poi commutata in vent’anni di carcere
talmente duro che la morte sopravvenne per fame, nel 1943. La sua ultima
missione, poche settimane prima dell’arresto, nell’estate del 1940, fu in terre
già fatali: Ucraina, e Bielorussia.
Il VIR però si salvò, per poi rischiare di essere
depredato o andare completamente distrutto durante l’assedio nazista di
Leningrado, iniziato nel settembre 1941 e durato 28 mesi, fino al gennaio 1944.
La storia degli uomini russi che riuscirono a mettere in salvo decine di
migliaia di semi, in parte resistendo dentro l’istituto anche alle rigidissime
temperature dell’inverno 1941-42, che raggiunsero i -30°C e oltre, in parte
portando decine di migliaia di campioni in un deposito segreto sui monti Urali,
fuggendo con i germogli nascosti nei vestiti, è diventata leggenda. Nei tre
inverni dell’assedio decine di ricercatori asserragliati nel palazzo del VIR
protessero le sementi sacrificando ogni watt disponibile per mantenere
condizioni ambientali compatibili con la sopravvivenza delle accessioni,
resistendo agli attacchi del nemico e poi a quelli dei topi, spesso a costo
della vita (le vittime per fame si contano a decine). Ma alla fine, anche
grazie alla riproduzione di 6.000 semi fatta alla stazione Pavlosk, a 45 km dal
centro, salvarono migliaia di piante che ancora oggi, fino a febbraio,
rappresentavano un patrimonio inestimabile.
“Il VIR”, spiega Tripodi, “è il modello cui si sono
ispirate tutte le banche successive, ciascuna specializzata in parte nella vegetazione
locale di cui, oltre ai semi, sono conservati tessuti e innesti per permettere
non solo di studiare le piante, ma anche di salvarle in caso di catastrofi
naturali o di guerre, come accaduto di recente in Siria, con il salvataggio dei
semi dell’ICARDA”. La vicenda cui accenna Tripodi è molto simile a quella del
VIR, ma riguarda una guerra contemporanea: quella siriana. Anche in quel caso
si temeva di perdere l’oro giallo del Medio Oriente, ovvero le migliaia di semi
e accessioni conservate a Tel Hadia, a 20 km da Aleppo, presso International
Center for Agricultural Research in the Dry Areas, meglio noto appunto
come ICARDA.
La storia di quell’altrettanto fortunoso salvataggio di 116.000 accessioni è
stata raccontata, tra gli altri, da una dei protagonisti, Mariana Yazbek,
su Nature
Plants, così come da un reportage del New Yorker,
e dimostra che cosa significhi ancora oggi poter contare su una biobanca di
germoplasmi. Già nel 2008, i ricercatori dell’ICARDA erano stati tra i primi al
mondo a inviare i propri semi alle Svalbard, chiedendo ai ricercatori norvegesi
di far duplicare almeno una parte di essi. Tra il 2012 e il 2014, poi, con
l’aggravarsi della situazione sul territorio, avevano effettuato nuovi invii,
continuati fino alla chiusura dell’istituto a causa della guerra, resasi
tristemente indispensabile nel 2015. Ma in quel momento, per fortuna, al Global
Seed Vault era rappresentato l’83% dei campioni siriani. E i norvegesi avevano
lavorato, su quei semi, così come avevano fatto decine di ricercatori ICARDA
fuggiti in diversi paesi.
Tutto ciò ha permesso, in quello stesso anno, a guerra
non ancora finita, di rimettere migliaia di semi a dimora nei campi
sperimentali delle università e dei centri di ricerca di Marocco e Libano, cioè
di salvarne buona parte. Nel 2020, erano 43 i paesi che ospitavano piante che
arrivavano da Tel Hadia, e negli ultimi cinque anni le accessioni siriane hanno
dato vita a oltre 100.000 nuove piante, da cui sono stati ottenuti 81.000 nuovi
campioni rispediti alle Svalbard, insieme ad accessioni di piante marocchine e
libanesi e di altri paesi del Mediterraneo e del Medio Oriente, tutte molto
resistenti ai climi aridi. Nel frattempo, lo staff di ICARDA ha sparso il 98%
dei suoi semi e delle sue accessioni in altre 11 biobanche internazionali. “Se
non ci fossero stati la banca di ICARDA e il Global Seed Vault, e se i
ricercatori non avessero iniziato da anni a preservare i campioni,
probabilmente avremmo perso centinaia di specie, oltretutto provenienti dalle
zone dalle quali è iniziata la domesticazione delle piante” commenta Tipodi. “E
invece è già in corso da mesi la distribuzione dei semi siriani in decine di
paesi, altro compito cruciale delle banche del germoplasma”.
Studiare migliaia di campioni provenienti da tutto il
mondo, oltre alle possibili applicazioni commerciali in ambiti non alimentari
(per esempio farmaceutici), arricchisce la nostra conoscenza della storia.
Nel mondo ci sono diverse banche internazionali e
oltre 1.700 biobanche di questo tipo pubbliche, tra le quali il Centro asiatico per la ricerca e lo
sviluppo delle verdure di Taiwan,
noto per lo straordinario deposito di melanzane e simili, il Centro internazionale di
miglioramento del mais e del grano di Città del
Messico, l’Istituto internazionale di ricerca
sulle colture per i tropici semi-aridi in
India e l’Istituto
internazionale per la ricerca sul riso delle
Filippine, oltre a un numero imprecisato di banche private, dove le aziende
studiano le nuove varietà lontane da occhi indiscreti per scopi commerciali.
“Il ruolo di questi centri non è solo quello legato alla conservazione e alla
distribuzione dei campioni ma è anche, e per certi aspetti soprattutto, quello
legato allo studio”, continua Tripodi.
“Oggi, grazie alle possibilità offerte dalla genomica
e dalle capacità di elaborazione dei dati assicurate dai big data, è in corso
un lavoro immenso, finalizzato all’acquisizione del maggior numero possibile di
informazioni su milioni di accessioni. Parallelamente si sta cercando di
uniformare il linguaggio, tenendo conto delle evoluzioni contemporanee della
tassonomia, perché ci si è accorti che esistevano moltissime sovrapposizioni, a
seconda delle denominazioni date alla stessa pianta nei vari paesi, e che i
sistemi di archiviazione non erano uguali dappertutto, e questo dava origini a
molti errori di valutazione”. In prospettiva, racconta Tripodi, lo scopo di
questo lavoro è mettere a disposizione di tutti le nuove conoscenze, in
presa diretta, evitare di disperdere tempo ed energie duplicando studi già
fatti, velocizzare l’individuazione delle specie su cui concentrare gli sforzi,
per esempio perché resistenti a un certo parassita, o a condizioni ambientali
estreme. “È stato così anche per i peperoni: grazie alla collaborazione
internazionale, abbiamo descritto in modo omogeneo un numero di accessioni che
un tempo sarebbe stato impensabile studiare”.
Infine, studiare migliaia di campioni provenienti da
tutto il mondo, oltre alle possibili applicazioni commerciali in ambiti non
alimentari (per esempio farmaceutici), può avere conseguenze impreviste, come
racconta ancora il ricercatore del CREA. “Non lo avevamo programmato, ma i dati
di così tante accessioni ci hanno permesso di ricostruire geneticamente
l’evoluzione di una pianta consumata probabilmente da non meno di 5.000 anni,
le cui principali varietà, dolci e piccanti, hanno preso due vie completamente
diverse. Originarie entrambe dell’America del sud, sono tutte passate
dall’Africa, attraverso i primi commerci e poi le rotte degli schiavi”. Da lì,
racconta ancora Tripodi, i peperoni dolci si sono diffusi nel bacino del
Mediterraneo, in Europa, nei Balcani e nel vicino oriente, mentre quelli
piccanti, circumnavigando il continente africano soprattutto con i navigatori e
i commercianti portoghesi, sono giunti in Asia e, attraverso l’Oceano Pacifico,
di nuovo nel continente americano. “In entrambi i casi hanno profondamente
influenzato le abitudini alimentari e, con esse, la cultura e lo sviluppo
economico delle diverse popolazioni, analogamente a quanto accaduto con il
pomodoro, introdotto soprattutto dagli spagnoli su rotte analoghe. Tutto ciò
oggi riveste una nuova importanza, perché identificare le zone dove una pianta
è riuscita a diffondersi aiuta a concentrare gli sforzi in direzioni specifiche
e arricchisce la nostra conoscenza della storia”.
In Italia ci sono diverse biobanche del germoplasma
(una delle quali al CREA di Tripodi), che fanno riferimento a quella del CNR di
Roma. E si tratta di biobanche particolarmente preziose perché, come sottolinea
ancora Tripodi, l’Italia è tra i paesi con il più elevato tasso di
biodiversità, e ha molte potenzialità ancora da esplorare. Anche l’Ucraina ne aveva
diverse: Il Tascabile ha provato senza successo a mettersi in
contatto con i responsabili di alcune di esse.
Nel 1932, Vavilov, di ritorno dagli Stati Uniti, portò in patria dei semi di girasole americani. Li ibridò con quelli russi, ottenendo una nuova varietà, che fu riportata in America nel 1972, dove è tuttora molto diffusa. Nel 1996, per celebrare gli accordi sul disarmo, alla base di Pervomaysk, in Ucraina, Stati Uniti, Ucraina e Russia piantarono semi di girasole, pianta simbolo di pace nei paesi dell’ex blocco sovietico, e oggi tra le principali voci del commercio tra Russia e Ucraina. Lo scorso 25 febbraio, è diventato virale il video di una donna ucraina che a Henichesk esortava i soldati russi arrivati nel suo paese a mettersi in tasca i semi di girasole, con l’augurio amaro che alla loro morte i semi possano germogliare di nuovo sul suolo ucraino.
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