Sui loro
terreni non si può più coltivare, né allevare bestiame. Il suolo è contaminato.
Capita: sette fattorie ricevono di punto in bianco l’ordine di mandare al
macero il frutto di un anno di lavoro, a causa dell’inquinamento causato da ciò
che resta di bombe ed
esplosioni. La guerra,
oltre a distruggere e uccidere, inquina e avvelena i raccolti, gli animali, gli
esseri umani. Le fattorie sono nell’Ucraina attaccata
dalle truppe russe di Putin?
No. Semmai quel Paese dovrà fare i conti con questi problemi nei prossimi anni,
quando (si spera) le battaglie saranno finite e si dovranno bonificare i centri
abitati e l’immensa pianura, che occupa quasi interamente il Paese, grande il
doppio dell’Italia: da lì viene (anzi, veniva) buona parte di cereali, mais,
orzo e girasoli consumati nel mondo (Italia inclusa).
Vedremo più
avanti quali sono i problemi per gli ucraini. Però intanto viene da chiedersi:
se quelle fattorie non sono in Ucraina, dove si trovano? Ebbene, sono nella
Francia del Nord-Est. È successo ‒ incredibilmente (per chi non conosce le
potenzialità inquinanti di certi armamenti) ‒ a causa di un conflitto finito
più di un secolo fa, la Prima guerra
mondiale. Lo riporta un articolo
pubblicato sul sito di Groundsure (società britannica che offre
consulenze sui rischi ambientali nel settore immobiliare), dedicato all’inquinamento ambientale
«come danno collaterale della guerra». Il sindaco di una città vicina a una
delle aziende agricole ha affermato che la decisione di distruggere i prodotti
si era resa necessaria «dopo che una tonnellata di vecchia artiglieria era
stata scoperta nella zona». Gli ordigni erano rimasti sepolti nel terreno. Ce
ne sono ancora molti, che continuano, 104 anni dopo la fine della guerra, a
rilasciare il loro carico di sostanze velenose. Sebbene nella Francia
nord-orientale vengano distrutte in media 467 tonnellate di proiettili e bombe
non esplose all’anno, tanti residuati devono ancora essere scoperti.
Si legge
nell’analisi di Groundsure: «La Francia settentrionale era un’area in cui si
verificarono molte delle battaglie del fronte occidentale durante la Prima
guerra mondiale e dove furono sparati più di un miliardo di proiettili. È stato
stimato che il 30% di questi non è esploso». Significa 30 milioni di ordigni,
che in parte sarebbero ancora sepolti: hanno più di un secolo, ma sono sempre
carichi di sostanze mortali e tossiche; in vari casi possono pure esplodere.
Circostanze analoghe a quelle francesi si verificano in Belgio e Germania, nei
luoghi che hanno ospitato i campi di battaglia della Grande guerra, quasi tutte
aree pianeggianti destinate normalmente ad agricoltura e zootecnia. «Non si può
ancora coltivare perché ci sono ordigni inesplosi nel terreno o il suolo è
contaminato da metalli pesanti e residui di armi chimiche», ha
confermato, il 22 marzo scorso, Doug Weir, direttore di ricerca e politica del
Conflict and Environment Observatory (CEOBS, monitora le conseguenze ambientali dei
conflitti armati e delle attività militari), a Euronews.green.
Il caso dei
residuati bellici risalenti al conflitto globale svoltosi tra 1914 e 1918
ovviamente non è isolato; anche la Seconda guerra
mondiale (1939-45) si è lasciata alle spalle ordigni inesplosi.
Così come si verificano situazioni analoghe in relazione a tutte le centinaia
di conflitti grandi e piccoli scoppiati nel mondo dall’inizio del Novecento ad
oggi, a causa del tipo di armamenti usati col boom dell’industria bellica. Pesa
anche il loro impatto su infrastrutture industriali, assai inquinanti in caso
di distruzione (raffinerie, depositi di carburante e sostanze chimiche,
centrali elettriche e nucleari, per esempio). Per non parlare delle mine antiuomo,
disseminate volutamente e destinate a provocare danni a distanza di moltissimi
anni.
Considerando
solo le munizioni più comuni usate nelle due guerre mondiali, queste contengono
piombo, rame, zinco, arsenico, solventi clorurati, esplosivi nitroaromatici.
Tutte sostanze molto tossiche. Purtroppo, sono state pubblicate pochissime
prove su questo tipo di contaminazione; principalmente a causa delle
restrizioni stabilite dai governi nell’accesso al materiale relativo
all’impegno bellico. Le guerre odierne ovviamente sono ancora più
“segretate”. Negli ultimi
anni alle sostanze citate si è aggiunto, tra l’altro, l’uranio impoverito,
utilizzato nelle munizioni anticarro perché la sua alta densità consente di
sfondare le corazze: i residui radioattivi sono dannosissimi, spesso mortali,
per i soldati e per i civili.
L’Italia non
è estranea al problema: mentre il caso dei residuati bellici della Grande
guerra è stato quasi eliminato, sono tuttora frequenti, a 77 anni dalla fine
del secondo conflitto mondiale, i ritrovamenti di bombe d’aereo inesplose che
costringono all’evacuazione temporanea di migliaia di persone, per poter essere
disinnescate; si trovano anche tantissimi ordigni più piccoli, dalle mine alle
bombe a mano. Non solo: decine di migliaia di armi chimiche (bombe e munizioni)
nell’immediato dopoguerra sono state affondate, per sbarazzarsene frettolosamente,
nel basso Adriatico e nel Tirreno meridionale, si legge in un dossier
elaborato da Legambiente nel 2012 . E la maggior parte è ancora
lì, con grave rischio per l’ambiente marino e l’attività dei pescatori. Se ne è
occupato anche l’ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca
Ambientale, un ente pubblico): nel 2013 Luigi Alcaro, responsabile del servizio
emergenze ambientali in mare, sosteneva che
nel Barese «dal Dopoguerra più di duecento pescatori hanno subito una
ospedalizzazione dovuta al contatto con l’iprite, a seguito… di armi chimiche
impigliate nelle reti» . Inoltre, nel 2007 il
settimanale Avvenimenti riferiva che gli aerei
della NATO di ritorno dal Kosovo avrebbero
scaricato vari tipi di ordigni in eccedenza nell’Adriatico, dalla laguna di
Venezia fino alla Puglia; circostanza confermata nel dossier di Legambiente.
Torniamo
alla guerra in Ucraina: il ministro
degli Affari interni ucraino Denys Monastyrsky ha detto, in
un’intervista ad Ap News, che ci vorranno anni per disinnescare gli
ordigni inesplosi, una volta che l’invasione russa sarà terminata, e che avranno
bisogno di aiuto internazionale (assistenza che chiedono molti altri Paesi nel
mondo, dalla Libia alla Cambogia). Preoccupato dalla situazione contingente, il
ministro non ha accennato al problema successivo: l’inquinamento a lungo
termine da parte delle sostanze usate per fabbricare gli ordigni e quello
provocato dalla fuoriuscita di sostanze chimiche e idrocarburi da depositi
bombardati o da eventuali perdite nelle tante centrali nucleari ucraine
(inclusa quella di Chernobyl,
occupata per alcune settimane dai russi, dove, oltre al sarcofago del reattore
esploso nel 1986, ci sono ancora tonnellate di detriti radioattivi, stoccati o
nel terreno).
Il magazine
on-line Scienzainrete.it recentemente ha dedicato al tema un
articolo intitolato Ordigni
inesplosi: un’eredità pesante per l’Ucraina. C’è scritto che le
armi moderne hanno «un tasso di fallimento di circa il 5%, che è ancora più
alto nelle armi più vecchie, tuttora usate nei conflitti». Quindi almeno 5
ordigni su 100, tra quelli lanciati in Ucraina, rimangono sul terreno (come si legge
sul sito Humanitarian
Law & Policy), «danneggiando i civili, esacerbando lo
sfollamento e impedendo le attività di sostentamento… A causa di questa
situazione, intere comunità si trovano a vivere in una sorta di limbo».
Mentre
nell’articolo già citato, pubblicato su Euronews.green, si giunge a
queste conclusioni: «La possibilità di un disastro nucleare è solo la punta
dell’iceberg quando si tratta delle innumerevoli conseguenze che l’invasione
dell’Ucraina infliggerà all’ambiente. L’impatto è
sbalorditivo, includendo le crescenti emissioni dovute all’attività militare,
le fuoriuscite e le nubi tossiche causate dalla distruzione di impianti
industriali e di stoccaggio del carburante, la contaminazione dell’acqua e del
suolo da metalli pesanti e sostanze chimiche da bombe e armi e persino la
distruzione di colture e fauna selvatica. Potrebbero volerci decenni prima che
l’Ucraina e il mondo intero si riprendano dall’impatto del conflitto».
Insomma,
l’eredità delle guerre, quella in corso in Ucraina e le tante altre scoppiate
tra XX e XXI secolo, non è solo tremenda per l’umanità e per i segni che lascia
nella sua memoria; colpisce ferocemente anche l’ambiente, lasciando ferite che
spesso non si rimarginano per molti decenni. Chi sta nelle stanze dei bottoni
ha il dovere di riflettere anche su questa terribile responsabilità.
Questo
articolo è stato pubblicato su Atlante
Treccani il 28 aprile 2022
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