Si chiama NAC (Natural Asset Company). Con essa la Borsa di New York ha svelato il piano più radicale e potenzialmente più distruttivo per finanziarizzare tutta la natura e la vita nella stessa.
Che la relazione fra il capitalismo e la natura sia basata sulla
mercificazione di quest’ultima per estrarre profitti non è sicuramente una
novità, ma questa volta siamo ad un ulteriore drammatico salto di qualità. La creazione di
questa nuova classe di attivi finanziari metterà infatti in vendita non solo le
risorse naturali, ma gli stessi processi alla base della vita.
Funzionerà infatti così: una NAC individua un bene naturale (ad
esempio, una foresta pluviale o un lago), ne stima il valore e decide chi ne
detiene i diritti di sfruttamento, gestione, conservazione. Tramite
un’offerta pubblica iniziale, la NAC viene quotata in Borsa. A quel
punto investitori privati e istituzionali, fondi sovrani o
speculativi diventano proprietari sia delle risorse sia dei relativi processi
naturali.
La quotazione in Borsa della NAC ne determinerà il valore. Gli azionisti
della NAC diventeranno dunque proprietari non solo del bene naturale ma anche
dei servizi che questi ecosistemi producono a beneficio della vita e delle
persone: dalla produzione alimentare all’acqua pulita, dalla
biodiversità al sequestro del carbonio legato alla crescita delle piante e via
discorrendo.
Nella narrazione proposta dai promotori, tutto questo dovrebbe servire a
far diventare economicamente conveniente la conservazione della natura; nella
realtà concreta, si tratta della definitiva privatizzazione dei beni comuni
che, da beni accessibili a tutti, diventeranno asset finanziari
per i profitti di pochi, mentre sarà il mercato a decidere cosa nella natura ha
valore e cosa non ne ha.
D’altronde, basta dare un’occhiata a chi sono i promotori di questo assalto
finanziario alla vita. Il primo è il fondo privato di investimento BlackRock,
che, con la gestione di 9,5 miliardi di dollari, è oggi la terza potenza
finanziaria mondiale, dopo Usa e Cina, e che ha proposto di trasformare, entro
il 2030, il 30% del pianeta in “zone naturali protette” (dai capitali
finanziari, of course).
Un altro dei promotori è il gruppo IEG (Intrinsic Exchange Group),
che vede al suo interno la Fondazione Rockefeller e l’affiliata per l’America
Latina della Banca Mondiale, e che così annuncia sul proprio sito: “Abbiamo
creato una nuova classe di attività basata sulla natura e sui benefici che la
natura fornisce (..) questo consentirà la conversione delle risorse naturali in
capitale finanziario (..) permettendo una soluzione di trasformazione in base
alla quale, gli ecosistemi naturali non sono semplicemente un costo da gestire,
ma piuttosto, una fonte di ricchezza per i governi e i suoi
cittadini”.
Siamo all’atto finale. Il modello capitalistico nella sua fase
della finanziarizzazione spinta ha la necessità di sottoporre a valorizzazione
finanziaria ogni aspetto della vita con una pervasività direttamente
proporzionale al castello di carta su cui si regge.
Valorizzare i processi della vita apre un campo sterminato di possibilità
di profitto, valutate dallo studio McKinsey in 4000 trilioni di dollari (per
avere un’idea, si tenga conto che il Pil annuo del pianeta vale oggi 125
trilioni di dollari).
Tutto questo avviene nel totale silenzio di governi e parlamenti che hanno
da tempo interiorizzato la primazia della finanza sulla società. L’antagonismo
fra la Borsa e la vita questa volta non è una metafora.
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