lunedì 9 dicembre 2024

Langhe. Barolo e caporalato - Alberto Gaino

 

L’ipocrisia di tanti imprenditori è il miglior alleato del caporalato. Il maggiore è invece l’inerzia con la quale una parte delle Procure della Repubblica applica la norma del codice penale che, dal 2016, definisce il perimetro per perseguire gli sfruttatori di chi è in stato di “necessità”.

L’ipocrisia riguarda l’atteggiamento diffuso fra i datori di lavoro che si rivolgono a imprese individuali e a finte cooperative – spesso costituite da ex lavoratori – per ottenere manodopera a bassissimo costo e con la quale non hanno rapporti formali. Il caso estivo delle Langhe è tuttora tra i più significativi: mostra che la norma introdotta otto anni fa è inefficace contro l’ipocrisia di certi imprenditori di Barolo e Barbaresco che vendono le loro bottiglie a 50 euro l’una, e realizzano «margini di guadagno scandalosi – come dichiara don Mario Melotta, direttore della Caritas di Alba – grazie a paghe in nero di soli 3 euro l’ora per 10-12 ore consecutive di lavoro». Anche i margini di guadagno dei caporali sono scandalosi, perché quegli uomini e donne (un’indagine astigiana ha individuato una “caporala” che girava in Bmw per le colline del Moscato) speculano pure sui bisogni primari (sete, fame) di quanti sfruttano, imponendo loro di pagare anche acqua e panini, oltre al trasporto nelle vigne. I 30-40 euro al giorno sulla carta “calano”, così, drasticamente a fine giornata. Dice ancora don Melotta: «La vita dei migranti sotto questa gente è da sopravvivenza, dopo grandi fatiche quotidiane. Prova ne sono i piedi piagati al termine di giornate di lavoro trascorse con le infradito adattate a calzari da lavoro. Parliamo davvero di persone disperate. Se no, chi si ridurrebbe ad accettare compensi così bassi?».

Come riuscire ad applicare la legge 199/2016 per il contrasto al caporalato? Controlli mirati sulle estensioni dei vigneti di ogni impresa, numero di dipendenti regolari, inclusi quelli a tempo determinato (i filari vanno curati per gran parte dell’anno, specialmente se si offre poi vino biologico) e ore ufficialmente lavorate per la vendemmia. Incrociando i dati si chiarisce chi impiega manodopera irregolare. Ma ciò avviene in maniera ampiamente insufficiente. Il bilancio post-vendemmia dell’Ispettorato del lavoro di Cuneo e dei carabinieri è stato riportato dalla Gazzetta d’Alba, il 24 ottobre scorso: 88 ditte controllate, 7 casi riscontrati di illiceità dell’appalto da parte di “contoterzisti”, irregolarità in materia di sicurezza sul lavoro contestate a 54, cioè il 62 per cento del totale. E infine a 20 è stata comminata la sospensione dell’attività. Il dato che colpisce di più è che siano stati individuati solo 48 braccianti (di cui 10 stranieri) a lavorare in nero quando, durante la vendemmia, vengono impiegati dai 4 ai 5 mila lavoratori. La stessa Gazzetta d’Alba riferisce, in altro servizio, che il caporalato controlla il 40 per cento della manodopera impiegata durante la vendemmia nelle Langhe. Qualcosa si è mosso, incluso l’annuncio del Consorzio di tutela, di costituirsi parte civile nei processi. Ma è ancora poco.

Il fronte variegato della magistratura nella lotta al caporalato è un secondo fattore di peso. Lo sottolinea Claudio Riccabone, responsabile della Caritas di Canelli: «Le indagini della Procura di Asti hanno portato a numerosi arresti e spinto parte delle coop sospette a trasferire la propria attività, a cominciare dalla sede legale, nel Saluzzese e nell’Albese». Chi si mette a posto e chi si sposta dove spera di rischiare meno. Non c’è solo la vendemmia in ballo. Il caporalato si è diffuso prima ancora che sulle colline in pianura dove si coltivano ortaggi e si curano le piante da frutta per buona parte dell’anno. Quest’anno, semmai, l’attenzione dell’opinione pubblica su questo fenomeno criminale si è accesa, prima, sul caso di Latina del migrante mandato a casa dal datore di lavoro con il braccio staccato e riposto in una cassetta, e poi sulla scoperta mediatica delle Langhe, simbolo dell’uva più pregiata in Italia, anche come terra in cui sguazza il caporalato grazie all’interesse di tanti imprenditori di ricavare ad ogni costo dal proprio vino margini di profitto altissimi.

Un dato importante è che alla chiesa albese questa ipocrisia (della serie «la cosa non mi riguarda perché io pago un certo signore che porta nelle mie vigne i suoi lavoratori»), spesa per giustificare la compromissione con il caporalato è andata di traverso. Lo documenta un recente coraggioso servizio di Famiglia Cristiana in cui compaiono le interviste al vescovo della diocesi albese, monsignor Marco Brunetti, e all’ex presidente del Consorzio di tutela Barolo Barbaresco Alba Langhe e Dogliani, Matteo Ascheri. Il vescovo ha pure indirizzato una lettera alle comunità parrocchiali: «Chi sfrutta i lavoratori più fragili come i migranti incorre in un gravissimo peccato che lo esclude dalla comunione eucaristica». Semmai c’è da chiedersi se vi sia stato qualche don Abbondio.

Anche Ascheri si è speso per la sua parte: da presidente del Consorzio di tutela, nel marzo scorso, ha firmato con istituzioni e parti sociali il protocollo di contrasto al caporalato a seguito del quale le 550 aziende socie del Consorzio avrebbero dovuto rinunciare a lavorare con certi soggetti che, a dirla tutta, sono ben conosciuti da gran parte degli imprenditori. Ascheri è un produttore vinicolo stimato: dirige l’azienda di famiglia, 12 dipendenti fissi, 20 ettari di vigneto, 240 mila bottiglie l’anno («metà di Barolo e l’altra metà di Barbera e Nebbiolo»). Per questo era stato scelto come presidente del Consorzio. Firmando il protocollo si è esposto: «Dal 2020 – ha raccontato a Famiglia Cristiana – mi sono pronunciato apertamente contro il caporalato. Ma sono stato lasciato solo». E a inizio estate non si è ricandidato: «Mi sono vergognato di rappresentare alcune aziende e con la mia ho deciso di uscire dal Consorzio». Scelta clamorosa e preveggente: in occasione di quest’ultima vendemmia il protocollo è stato largamente disatteso. Ascheri ne aveva fatto e continua a farne una questione di etica del lavoro, ma anche di immagine per lo stesso consorzio che presiedeva: le Langhe sono diventate un simbolo di terra che dà ricchezza, tanto da attirare investitori da tutto il mondo e turisti stranieri interessati all’enogastronomia. Diventare anche la terra di un vergognoso sfruttamento di lavoratori fra i più vulnerabili rischia di trasformarne l’immagine.

Su molti imprenditori – che non avrebbero alcun motivo di sottopagare i propri lavoratori e di lasciarli vivere in casolari diroccati lungo il Tanaro – agisce forse, paradossalmente, il Dna di immigrati ereditato dalle famiglie: le Langhe sono state in passato terre molto povere da cui partivano i bambini per andare a lavorare in Francia, i maschi nelle industrie del vetro, le femmine a raccogliere lavanda e altri fiori in Provenza o per essere impiegate come servette nelle famiglie. Succedeva nell’Ottocento, e questa particolare migrazione ha continuato a verificarsi sino agli anni ‘50 del Novecento. Tali radici, anziché agire da anticorpo contro lo sfruttamento dei migranti, potrebbero aver incoraggiato qualcuno a pensare storto: «Tocca a tutti, quindi ci sta che ce ne laviamo le mani».

Il sistema è apparentemente perfetto, avvolto nella carta argentata dell’ipocrita Grande Convenienza. Chi va ad Alba in questi giorni post-vendemmia può respirare un’atmosfera da liberi tutti: la vendemmia è finita, tanti migranti si sono spostati a lavorare altrove, ne restano, ma ancora più invisibili. E la “questione caporalato” pare assopirsi. Ma è veramente come sembra a chi arriva da fuori? Monsignor Pierpaolo Fellicolo, direttore della Fondazione Migrantes, sostiene la pratica della legalità come ricetta per sconfiggere il caporalato e racconta come sia decisivo per cambiare le cose riuscire a rendere visibili i lavoratori stranieri vittime di un fenomeno che impedisce loro di progettare un futuro dignitoso: casa, famiglia, scuola per i figli, integrazione sociale. Dice: «La denuncia è fondamentale. Ma lo è anche la politica del fare. Faccio un esempio. In Campania, come Fondazione Migrantes, abbiamo acquistato due pulmini e li abbiamo messi a disposizione di un primo gruppo di lavoratori migranti. Con i pulmini a disposizione è stato assai meno complicato riuscire, da parte loro, ad organizzarsi in cooperativa. Il passo successivo, con più denaro in tasca, è diventato cercare casa nei paesi, e noi li abbiamo aiutati a superare i pregiudizi. Cominciare a vivere nei paesi li ha resi improvvisamente visibili e ciò ha messo in moto un meccanismo di relazioni: ci si incontra per strada, nei negozi, nei bar. Le prime volte si sconta una certa diffidenza, poi si passa a un cenno di saluto e si finisce per prendere un caffè insieme, a volte. È una politica di relazione di piccoli passi, ma decisivi, uno dopo l’altro, per creare una rete di integrazione nelle comunità».

In Campania tanti paesi sono vivi, nelle Langhe molto meno. Carlin Petrini, fondatore di Slow Food, racconta dell’avvicendarsi di ristoranti stellati alle vecchie osterie, della scomparsa dei negozietti e pure dei preti, delle abitazioni private trasformate in B&B, dell’esaurirsi del tessuto sociale che rendeva solide le antiche comunità. Ci può stare che in quel vuoto trovi spazio, convenienza e persino vitalità un fenomeno orrendo come la tratta delle persone nei campi più ricchi di futuro per chi li sfrutta. Non certo per i migranti, il cui ultimo luogo di reclutamento quotidiano, ad Alba, per la stagione della vendemmia, era non a caso il cimitero locale.

https://volerelaluna.it/territori/2024/12/09/langhe-barolo-e-caporalato/

domenica 8 dicembre 2024

Morto Marco Magrin, lavoratore povero sfrattato: la sua storia ci parla di salari da fame e crisi abitativa - Giuliano Granato

 

L’ho cercato sui giornali nazionali. Niente. L’ho cercato sui giornali più vicini al territorio. Ma niente. Il nome di Marco Magrin non c’è.

Non c’è, quindi, la sua storia. Quella di un uomo di 53 anni trovato morto in un box auto che da qualche tempo era la sua “casa”. Occupata abusivamente. Marco Magrin è stato ritrovato col cappello calato sulla testa e un giubbotto stretto addosso per difendersi dal freddo. Nel garage, infatti, non c’era riscaldamento.

Marco Magrin è morto di infarto, probabilmente proprio per il gelo.

Marco Magrin non era un senzatetto e nemmeno un disoccupato. Originario di Padova, aveva un lavoro stabile: operaio di un’impresa di sfilettatura del pesce a Treviso. Solo che, pur con un lavoro regolare, lo stipendio non bastava a pagare l’affitto. Così, dopo qualche mensilità non pagata, era arrivato lo sfratto. Che, stando ai dati del Ministero dell’Interno, nel 2023 è stato il destino comune a ben 21.345 nuclei familiari (almeno 50mila persone). Più di 21mila nuclei familiari sfrattati. Significa 60 sfratti ogni giorno, tutti i giorni, 365 giorni all’anno, domeniche e festivi compresi.

La prima ragione per cui si viene sfrattati è la morosità (78% degli sfratti), cioè il mancato pagamento di qualche mensilità. Esisteva un fondo statale per morosità incolpevole per aiutare quegli inquilini che non riuscivano più a pagare perché si erano visti ridurre o azzerare lo stipendio (licenziamenti, cassa integrazione, riduzione ore lavorate, ecc.), ma il governo Meloni l’ha abolito da due anni.

La storia di Marco Magrin, al di là della fine tragica, è la storia di tantissimi. Perché ci parla di almeno due enormi questioni: i salari da fame e la crisi abitativa.

L’Italia, seconda potenza manifatturiera del continente europeo, è un Paese in cui ben 12 lavoratori su 100 sono “working poor”. Se un tempo la povertà era associata alla disoccupazione, oggi sempre più spesso sei povero pur lavorando: 12 lavoratori su 100 sono poveri anche se hanno un impiego. La percentuale balza al 17% tra gli operai. Operai come Marco Magrin. Con stipendi bassi e fermi, mentre i profitti delle imprese aumentano.

Nonostante ciò, quando si osa porre la necessità di un salario minimo orario di almeno 10 € l’ora, il governo Meloni si gira dall’altra parte, diventa sordo. Come se i salari da fame non fossero questione di vita o di morte per la maggioranza di chi lavora in questo Paese.

Se sei un lavoratore povero avrai enorme difficoltà a poterti permettere finanche un tetto. Gli affitti sono esplosi: +10,2% in media tra 2022 e 2023 (studio del Cresme). A Treviso tra novembre 2023 e novembre 2024 si è registrato un ulteriore boom: +7,08%.

Salari fermi e affitti alle stelle. E chi parla di tornare a porre un tetto agli affitti è considerato un pericoloso bolscevico. Chissà cosa deve pensare Giulio Andreotti, cui è associata la norma che dal 1978 aveva introdotto un calmiere denominato “equo canone”.

Accanto a case dai costi sempre più improponibili per lavoratori e lavoratrici, c’è un enorme patrimonio immobiliare vuoto. Nella sola provincia di Treviso si stima ci siano circa 68mila appartamenti sfitti; ben 6mila nella sola città di Treviso, un Comune abitato da 85mila persone. Le istituzioni anziché acquisire una parte di questi immobili, così da poterla mettere a disposizione della gente comune, vendono quel poco di patrimonio pubblico che è ancora nelle loro mani. Nel novembre 2023, la Regione Veneto, governata dal leghista Zaia, approvava un piano di cessione di 384 alloggi dell’Ater di Treviso, di cui 150 all’epoca sfitti. Meglio venderli per fare cassa che assegnarli alle famiglie bisognose di un tetto. “Un affitto, dieci famiglie in fila: caccia alla casa a costo calmierato a Treviso. Con le locazioni introvabili c’è la coda per i bandi Ater. E l’hinterland segue: 2 appartamenti, 17 candidati”, scriveva La Tribuna di Treviso il 24 novembre 2024, pochi giorni prima della morte di Marco Magrin.

O, anche, meglio tenerle vuote: a maggio di quest’anno, a Treviso il totale delle case popolari sfitte assommava a 364: 121 alloggi sfitti del Comune, 243 dell’Ater.

Affrontare il tema dei salari da fame e della crisi abitativa, però, sembra non interessare. Però di casa ultimamente si è tornati a parlare. Ma non degli affitti alle stelle, degli sfratti e della politica di dismissione del già scarso patrimonio immobiliare pubblico. Solo delle occupazioni abitative per dipingere gli occupanti come criminali, come feccia.

Per questo oggi non parlano di Marco Magrin. Perché la sua vita e, purtroppo, la sua morte, rompono la narrazione di potere politico e mediatico. Marco Magrin era infatti un occupante. Un abusivo. Era entrato in quel box auto illegalmente. Eppure Marco Magrin lavorava. Era italiano. Era bianco. Non è l’immagine del criminale che l’ultradestra brama per poter spargere la paura.

Per questo difficilmente leggerete titoloni sulla sua storia. Su Marco Magrin, lavoratore povero morto di gelo nell’Italia del 2024 perché è meglio tenere le case vuote per speculare sul mercato che assicurare un tetto sulla testa dei nostri fratelli e delle nostre sorelle.

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sabato 7 dicembre 2024

Caffè croce e delizia: fa dimagrire, riduce rischio di diabete, depressione e Alzheimer ma ecco la dose da non superare

 

Diversi studi dimostrano che chi consuma abitualmente il caffè ha un rischio più basso di contrarre il diabete di tipo 2, il morbo di Alzheimer, la cirrosi epatica e la depressione

Il caffè è la sostanza psicoattiva più consumata al mondo e sappiamo con certezza, perché lo abbiamo tutti provato, che dà dipendenza. Ma che effetto ha sul nostro sistema nervoso? Insomma fa bene o fa male? Gli effetti più controversi riguardano in particolare le eventuali ripercussioni del caffè sul benessere cardiovascolare, ma anche altri aspetti come il suo ruolo sul funzionamento della sfera nervosa appunto.

Il caffè sveglia!

Quando lo sorseggiamo, in una manciata di minuti arriva al cervello dove si lega ai recettori che di norma ricevono l’adenosina, una sostanza chimica prodotta dall’organismo che induce sonnolenza. Ecco perché il caffè fa passare transitoriamente la sensazione di stanchezza: agisce come un freno momentaneo all’impulso a dormire. Il picco di concentrazione di caffeina nel sangue avviene 45-60 minuti dopo l’assunzione. Questa sensazione dura circa tre ore.

Per cosa fa bene il caffè

E' ricco di potenti antiossidanti come i polifenoli. Inoltre tale bevanda contiene altri nutrienti fondamentali tra cui la riboflavina, l’acido pantotenico, il manganese, il potassio, il magnesio e la niacina. Alcune ricerche dimostrano che chi consuma abitualmente il caffè vive più a lungo e ha un rischio inferiore di morte prematura. Un’ampia ricerca sul rapporto tra caffè, caffeina e diabete ha dimostrato che assumere due-tre caffè al giorno riduce il rischio di sviluppare il diabete. Soprattutto per merito del suo contenuto di caffeina, il caffè è una bevanda che aumenta la termogenesi, ovvero facilita il processo attraverso il quale l’organismo brucia energia sotto forma di calore. Dunque attiva il metabolismo e aiuta il dimagrimento. Inoltre l’azione diuretica del caffè fa da supporto per chi soffre ritenzione idrica, mentre l’effetto anoressizzante (ovvero di riduzione dell’appetito) potrebbe essere utilizzato anche per contenere gli attacchi di fame nervosa.

Col caffè, meno depressione e suicidi

Secondo uno studio del National Institutes of Health, chi consuma all’incirca quattro tazzine di caffè espresso al giorno ha un’inclinazione del 10% in meno a entrare in uno stato di depressione, rispetto a chi non ne beve proprio. Quest’effetto è dovuto al suo contenuto elevato di antiossidanti. L’Harvard School of Public Health ha confermato quest’ipotesi e ha affermato che per chi assume caffeina il rischio di suicidio si riduce del 50% sia per gli uomini sia per le donne.

Qual è la dose massima di caffè

Per ottenere questi effetti come abbiamo accennato in precedenza non bisogna esagerare, secondo lo studio finlandese superare le quattro tazzine di caffè al giorno, può causare invece degli effetti contrari, portando invece alla depressione. Una ricerca condotta da Yassa e poi pubblicata sul Nature Neuroscience ha verificato che l’assunzione di una buona dose di caffè e caffeina migliora anche la longevità ed ha degli effetti protettivi sul cervello e sulla preservazione dei neuroni. Ad esempio, il caffè potrebbe incidere positivamente sulla prevenzione del Alzheimer. Lo studio ha concluso che l’assunzione di caffeina agisce sulla memoria e ne promuove la giusta conservazione nel tempo prevenendo così malattie come l’Alzheimer.

Caffeina e metabolismo

La scienza suggerisce di non assumerne più di quella contenuta in tre, quattro tazzine di caffè al massimo. Gli effetti di questa sostanza sono però altamente soggettivi: diversi studi genetici hanno identificato specifiche varianti genetiche che sembrano predisporre al metabolismo di caffeina (e quindi a un suo maggiore consumo).

Gli effetti sul nostro intestino

Negli ultimi anni numerosi studi si sono concentrati sul rapporto tra intestino e caffè e microbiota e caffè. Moltissime persone, infatti, lamentano mal di pancia dopo il caffè, suscitando l’interesse dei ricercatori. Altri, invece, lo assumono per una scossa di caffeina, altri ancora lo fanno con la consapevolezza che questa bevanda possa aiutare l’evacuazione.  Ma un’accentuata peristalsi dopo il caffè non sarebbe legata alla caffeina, ma ad altri composti bioattivi contenuti nei chicchi. Di recente si è visto che oltre alla caffeina, la bevanda contiene anche componenti specifici, tra cui minerali, alcaloidi, vitamine e lipidi.

Perché ad alcuni il caffè fa venire mal di pancia

Tra le cause dell’irritazione intestinale c’è l’aumento dei livelli di gastrina e colecistochinina, due ormoni coinvolti nell’evacuazione: la gastrina favorisce l’attività del colon, mentre la colecistochinina favorisce il transito intestinale. Ha degli effetti positivi importanti. Dagli studi in vitro sono emerse le proprietà antinfiammatorie ed antiossidanti sulle cellule dell’intestino e nei casi di adenocarcinoma colorettale. Sembra addirittura che il consumo moderato di caffè possa rallentare l’evoluzione del cancro del colon e del retto. Tuttavia, sono necessarie ulteriori ricerche per approfondire questi temi. Come in ogni situazione, il consumo di caffè deve essere adattato alle caratteristiche fisiche di ciascuno. In linea generale, le persone che soffrono di sindrome dell’intestino irritabile (IBS) potrebbero trovare che il caffè peggiora i sintomi

Quando è pericolosa?

In casi estremi la caffeina può essere letale: 10 grammi di caffeina sono quasi sempre sufficienti a provocare reazioni che portano a un arresto cardiaco. Una tazzina di caffè, però, ne contiene meno di 100 milligrammi (0,1 grammi). Occorrerebbero quindi 100 tazzine di caffè in rapida successione per assumere una dose mortale.

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venerdì 6 dicembre 2024

Maltrattamento maiali: noi di Essere Animali abbiamo denunciato un allevamento di un fornitore di Lidl - di Simone Montuschi, presidente di Essere Animali

 

A inizio ottobre vi abbiamo parlato di un allevamento appartenente a un’azienda fornitrice della catena di supermercati Lidl, situato in Emilia-Romagna, in cui i polli venivano maltrattati durante tutto il loro ciclo di vita: dallo scarico in allevamento fino al carico sul camion diretto al macello.

Questa volta siamo in grado di raccontarvi il caso di un altro allevamento della stessa azienda, che fornisce al colosso dei discount anche prodotti a base di maiale: anche in questo caso le immagini mostrano maltrattamenti e crudeltà. I video che abbiamo ricevuto rivelano gravi violenze e irregolarità sia da parte degli operatori che dal medico veterinario, una persona, quest’ultima, che dovrebbe invece garantire proprio il benessere degli animali.

Nei filmati si vedono atteggiamenti aggressivi e punitivi: gli animali vengono inseguiti, sollevati di peso dalle orecchie, picchiati con bastoni, presi a calci o pungolati con scariche elettriche. Ci sono poi animali malati o ormai in fin di vita che non vengono curati ma abbandonati a morire di stenti. Alcuni hanno gravi lesioni su fianchi e testa, ernie e ascessi.

In un caso il medico veterinario incide l’ascesso di un maiale mentre questo è ancora nel recinto con gli altri, invece di isolarlo in una zona adibita ad infermeria e immobilizzarlo. L’operazione avviene con un coltello con una lama di fatto troppo lunga e che apparentemente non viene sterilizzata, e dopo il taglio la ferita non viene disinfettata, con il rischio che l’ascesso si riformi nei giorni seguenti e provochi ancora dolore al maiale.

Sono ancora più gravi però le immagini che mostrano lo stesso veterinario operare un maiale con un grave prolasso rettale. Il professionista immobilizza l’animale legandolo per il muso (una parte del corpo particolarmente sensibile), e poi applica un tubo di plastica all’interno del retto e lega una corda intorno al prolasso, il tutto senza somministrargli né anestesia né analgesia. La sofferenza del maiale è evidente e quando il veterinario stringe la corda attorno al prolasso le urla dell’animale si fanno ancora più intense. A causa della gravità dei fatti documentati, abbiamo deciso di denunciare sia l’allevamento che il medico veterinario per maltrattamento e abbandono di animali.

Queste sono immagini che non avremmo mai voluto vedere e che abbiamo deciso di diffondere per mostrare quanto le politiche di benessere animale di Lidl siano estremamente scadenti in maniera trasversale, non solo per i polli ma anche per le altre specie. Dopo oltre due anni di campagna e richieste di adesione agli standard dello European Chicken Commitment, sollecitiamo ancora una volta Lidl a impegnarsi a fare di più iniziando proprio dai polli, gli animali terrestri numericamente più allevati. Recentemente, oltre che in Francia, anche Lidl Germania ha sottoscritto una politica allineata all’ECC, il che dimostra la fattibilità delle nostre richieste.

È ora che anche in Italia Lidl prenda una posizione e un impegno per i polli. Firma la nostra petizione.

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giovedì 5 dicembre 2024

Nasce un Coordinamento No NATO - Patrick Boylan


“No NATO, no guerre” è lo slogan che riunirà attivisti per la pace da tutta l’Italia domenica prossima a Bologna per l’assemblea costitutiva del Coordinamento Nazionale No NATO.

 

Nella Sala Consiliare del Quartiere Porto di Bologna (Via dello Scalo 21), a partire dalle ore 14, i rappresentanti delle diverse associazioni pacifiste, insieme ai singoli cittadini, discuteranno come combattere la graduale militarizzazione del paese e il continuo coinvolgimento dell’Italia nelle guerre NATO nel mondo.

“La gente pensa che la NATO ci difende mentre vediamo che, dal 1991, è proprio il contrario: la NATO ci mette costantemente nei guai,” dice Chiara Masini dei CARC, uno dei gruppi promotori del neo Coordinamento. “Basta vedere come la NATO ha ridotto la Libia con i suoi bombardieri, compresi quelli italiani; oggi a pagarne le conseguenze sono sia i libici, caduti nella miseria, sia noi europei per via del flusso incontrollato di migranti.”

 

Per svelare la vera faccia guerrafondaia della NATO, i promotori del neo Coordinamento hanno preparato una Dichiarazione Programmatica, che i partecipanti all’incontro potranno discutere, modificare e poi diffondere in tutto il paese. Ma lo scopo principale dell’incontro domenica prossima sarà quello di mettere in contatto, tra di loro, gli attivisti da tempo impegnati contro le guerre ma che lavorano isolati gli uni dagli altri: dai portuali di Genova che bloccano il trasporto di armi a Israele ai pacifisti sardi che contestano i poligoni militari che devastano la loro isola. Già il giornalista e politico Giulietto Chiesa ha tentato, negli anni ‘90 del secolo scorso, un coordinamento con questi propositi, ma le divisioni interne e la sua prematura scomparsa ne hanno impedito la realizzazione.

“Speriamo di avere successo questa volta,” dice Vincenzo Brandi della Rete NoWar-Roma, una delle associazioni promotrici del neo Coordinamento. “Come ha ricordato Chiara, è importante distruggere il mito di una NATO meramente difensiva. Dopo l’implosione dell’Unione Sovietica nel 1991, la NATO ci ha trascinato in guerra dopo guerra, tutte illegali. E lo ha fatto sia apertamente, come con il bombardamento della ex-Jugoslavia e dell’Afghanistan, sia velatamente, come con l’attuale assistenza che fornisce ai cosidetti ribelli in Siria e allo stato di Israele per la sua guerra a Gaza. Ma forse il più eclatante coinvolgimento militare velato della NATO è l’attuale conflitto in Ucraina. Infatti, senza farsi vedere, la NATO ha addestrato, equipaggiato e guidato le milizie ucraine che hanno rovesciato il governo di Kiev nel 2014 e che poi hanno assediato la popolazione russofona del Donbass per ben otto anni. Ora, dopo la controffensiva russa, la NATO ha gettato la maschera e invia palesemente i suoi militari in Ucraina – ad esempio, per guidare i missili Atacms che rischiano di innestare un conflitto nucleare. In pratica, dal 1991, ovunque c’è guerra, c’è la mano della NATO. Dobbiamo unirci tutti quanti per trovare il modo di uscirne.”

 

Chi vuole partecipare all’assemblea costituente del neo Coordinamento è pregato di scrivere una mail a coordinamentonazionalenonato@proton.me oppure di segnalare il proprio interesee tramite whatsapp o sms al 3791639218.

 

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mercoledì 4 dicembre 2024

Salva Milano, sfascia il Paese - Paolo Pileri(*)

  

Sulla leggina ad urbem che affossa ciò che resta dell’urbanistica.
Il partito del cemento è uscito allo scoperto. E non poteva scegliere data migliore per farlo: la Giornata nazionale degli alberi, lo scorso 21 novembre.

D’altronde, perché parlare di Piani del verde comunali (peraltro non obbligatori in Italia, vergognoso) o di alberi a Milano, quando c’è da salvare torri di cemento cresciute più veloci dei platani e aprire nuove possibilità di deregolamentazione urbanistica?


Il 21 novembre è andato in scena, nel nostro teatrino parlamentare, il dibattito per il cosiddetto provvedimento “Salva Milano”, la leggina ad urbem che affossa quel che rimane della pianificazione urbanistica lasciando pieno campo alla legge della rendita (vuoi immobiliare, vuoi fondiaria). Il tutto al cospetto pure di alunne e alunni invitati in Parlamento per un giorno. Future generazioni che al ritorno a scuola, scrivendo il loro tema sulla giornata in Parlamento, citeranno il “Salva Milano”. Rendiamoci conto.

Veniamo però ai fatti. Da anni il Comune di Milano rilascia ardite autorizzazioni edilizie per fare torri, condomini, grattacieli nei cortili o laddove prima c’erano due magazzini, una palazzina o un deposito. Il tutto interpretando a modo suo la legge urbanistica nazionale e dilatando il concetto di ristrutturazione così da sostituire un piccolo volume preesistente con un condominio, rinunciando pure a incassare un bel po’ di oneri di urbanizzazione che servono a fare opere per tutti.

D’altronde da circa vent’anni Milano e i suoi sindaci hanno imboccato la strada pericolosa del cemento impegnandosi con tutto loro stessi a innalzare il più possibile i valori immobiliari. Per loro il principio a cui conformare il governo del territorio è l’attrattività (per cittadini ben paganti, ovvio). Attrattività è la parola che piace a destra come a sinistra e, infatti, i parlamentari la citavano con gran profusione quel 21 novembre.

Nel caso di Milano molta dell’attrattività l’hanno pagata tutti gli italiani perché tutti hanno contribuito a Expo 2015, alle Olimpiadi 2026, alla privatizzazione degli scali ferroviari, alle nuove Metropolitane e a tanto altro fatto con soldi pubblici non solo milanesi e non solo lombardi.

Quell’attrattività è fondata su un modello di vita urbana molto esclusivo e disegnato tutto addosso a una idea di felicità privata dove quel che conta è quel che possiedi, dove abiti, chi frequenti, quanti apericena fai alla settimana, se hai la palestra e il giardino in condominio, se hai la colonnina per la ricarica dell’auto elettrica, se hai soldi per pagarti la piscina pubblica nel frattempo trasformata in una location glamour per spritz-man, etc..

Ma chi l’ha stabilito poi che quella attrattività è cosa buona e giusta e, tanto meno, l’immagine della sostenibilità? E così, a furia di cemento, torri, grattacieli e archistar l’ultima Giunta ha oltrepassato quel poco di buon senso urbanistico che rimaneva ancora, decidendo che la ristrutturazione e la rigenerazione urbana fossero quella roba secondo la quale al posto di un piccolo magazzino artigianale posto in un cortile, si poteva allegramente costruire un condominio a torre da decine e decine di appartamenti da vendere dai seimila euro al metro quadrato in su.

Ma questa non è la Milano che tutti vogliono, con buona pace del sindaco, della sua giunta e dei tanti parlamentari che li sostengono (da tempo). E così qualcuno ha iniziato a dubitare e denunciare. Sono partite le inchieste ed eccoci qua nel pieno di un casino imbarazzante fatto già di mezze torri vendute, davanti alle quali schiere di parlamentari di destra e sinistra si danno da fare come matti per mettere una pezza (che io chiamerei condono, ma loro chiamano interpretazione autentica della legge urbanistica nazionale).

E la pezza, come tradizione vuole, è peggio del buco perché si vara una norma per mettere fuori legge l’urbanistica ovunque. In buona sostanza d’ora in poi la volumetria di un box potrà diventare quella di una palazzina. Quella di una palazzina di un condominio, e così via. Il tutto versando solo pochi denari al Comune, del tutto insufficienti a garantire quel minimo di servizi pubblici necessari per compensare l’aumento del numero di cittadini.

La vicenda è già sufficiente per vergognarsi di quel che hanno fatto a Milano e stanno facendo in Parlamento, da destra e sinistra. Ma oggi siamo nel 2024. E ha fatto bene qualche parlamentare a ricordarlo, ma non certo per mettere mano all’urbanistica affossandola.

Si è appena conclusa una fallimentare Cop29 dove si è ricordato che il 2024 è stato un anno pessimo e la politica non è stata capace di fare nulla a beneficio del clima. Pertanto i parlamentari che invocano il 2024 dovrebbero invocare lo stop alla crescita compulsiva delle città, ancor più se quella crescita la sfigura, si fonda sulla deregulation urbanistica e sulla espulsione delle fasce sociali più deboli, quelle che non possono permettersi appartamenti da cinquemila euro al metro quadrato in su.

E non ci vengano a dire che quell’urbanistica allegra in altezza a Milano è stata fatta per non consumare suolo, come ho sentito dire in aula Parlamentare. Falso. Milano continua a consumare suolo e il brivido per l’altezza non ha frenato un bel niente.

Negli ultimi 17 anni Milano ha consumato una media di 18 ettari all’anno di suoli agricoli o liberi al bordo o interni alla città. Semmai Milano è la dimostrazione del contrario: scegliere l’altezza non equivale a non consumare suolo.
Non sono quindi i sindaci, assessori e parlamentari milanesi a poterci dare lezioni di non consumo di suolo. Men che meno oggi. Negli ultimi venticinque anni non ho sentito uno solo di loro fare un discorso a favor di suolo con una energia e vigoria tale e quale a quella che ho visto in Parlamento per il cosiddetto “Salva Milano”. E faccio notare che non stanno neppure cogliendo l’occasione di questo imbarazzante provvedimento urbanistico per approvare uno stop al consumo di suolo. Se ne guardano bene.

Quel che si sta compiendo è un doppio disastro nazionale. Per “salvare Milano”, il Parlamento sta decidendo che in tutte le città italiane si potranno costruire torri, condomini, grattacieli semplicemente chiedendo la più semplice delle autorizzazioni edilizie, senza un piano attuativo, senza adeguare i servizi, saltando a piè pari qualsiasi pianificazione urbanistica. E per di più la decisione parlamentare avrà pure valore retroattivo. Fatico a non mettere questa roba dentro il faldone dei “condoni”.

Il secondo disastro è culturale. Questo “Salva Milano” come volete che venga letto e capito dalle persone? Come un provvedimento per salvare il Pianeta? La miglior mossa per la transizione ecologica? Una legge per adeguare le città alla crisi climatica? Il primo di una serie di provvedimenti per avere città resilienti? Non credo proprio.
Verrà visto come l’ennesimo abuso di potere politico all’italiana, dove i provvedimenti urbanistici in odor di condono e cemento che si approvano sono la normalità. Dove il cemento vince sul verde. Altro che “Salva Milano”, qui siamo in pieno “Sfascia tutto”. Benvenuti nello Sfasciocene.

Concludo con un appello alle sindache e ai sindaci che sono dalla parte del suolo.
Vi chiedo di prendere le distanze da questo provvedimento facendo sentire la vostra voce.
Prendete posizione pubblicamente, scrivete alla redazione di Altreconomia, intervenite: redazione@altreconomia.it.

 

(*) Tratto da Altreconomia.

Paolo Pileri è ordinario di Pianificazione territoriale e ambientale al Politecnico di Milano. Il suo ultimo libro è “Dalla parte del suolo” (Laterza, 2024)


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martedì 3 dicembre 2024

Black Friday, qualche considerazione di rito - Salvatore Bianco e Fabrizio Venafro

 

Quando il Grande Giorno arriva con la sua ingiunzione consumistica può accadere che un tarlo si insinua nella mente, prima sottile poi sempre più pressante, e spinge a considerare l’incipit celebre del Capitale di Marx, «il mondo si presenta come una immane distesa di merci», nonostante il tempo trascorso, ancora come la cornice teorica più adeguata per inquadrare un fenomeno come il Black Friday.

 1. Con velocità fulminea, da fenomeno di costume circoscritto e un po’ bizzarro è divenuto in pochi anni, complice il villaggio globale, evento planetario, con un giro di affari vorticoso. Solo in Italia ha fatto registrare, anno su anno, un incremento di circa il 55% di vendite e ha coinvolto sedici milioni di persone, superando abbondantemente i due miliardi di giro d’affari. Il successo ne ha dilatato la durata tanto che si parla di settimanadel Black Friday. Lo spazio geografico di provenienza è certo, gli USA, ma la provenienza del nome, venerdì nero, come conviene ad un mito sia pure di oggi, al contrario della puntuale ricorrenza, è controversa e segnala che anche le origini siano spesso una costruzione ex post, che accompagnano i cambiamenti culturali di un’epoca. Ed allora che sia la riattualizzazione tetra del giorno in cui gli schiavi finivano in saldo oppure la giornata in cui gli operai disertavano le fabbriche dopo le intemperanze del Ringraziamento o, ancora, racchiuda l’imprecazione dei poliziotti della stradale di Filadelfia che in quel venerdì del ’61 furono letteralmente travolti da un traffico eccezionale dovuto alle orde di consumatori, come detto, queste ricostruzioni, sono un po’ tutte vere o, se si preferisce, tutte un po’ false. Vero è che una storia come quella dei poliziotti lamentosi non poteva reggere alla lunga come stimolo allo shopping ed, allora, sotto regime neoliberista, meglio la narrazione dei libri contabili dei negozi che da quel fatidico venerdì passano dall’inchiostro rosso delle perdite a quello nero dei guadagni.

Ma cosa spinge una fiumana di gente, arrischiando la loro stessa incolumità, come dimostrano taluni episodi americani finiti in tragedia, a prendere letteralmente d’assalto i centri commerciali o come sciame digitale inondare le piattaforme immateriali del web? La risposta è in una foto a colori che sbuca dalla copertina di una rivista patinata, dai dettagli nitidi e con punto di osservazione da sorvolo. Ritrae una delle tante scene che si sono ripetute in questi giorni ovunque nelle moderne cattedrali del commercio. E’ una calca di gente infervorata che assedia in circolo uno dei tanti altari allestiti per l’occasione, sotto gli occhi compiaciuti dell’officiante di turno, di una nota marca di prodotti elettronici, che mostra – così si intuisce – ai consumatori lì convenuti l’oggetto devozionale. I cartellini con lo sconto promesso saturano poi tutto l’ambiente circostante. E non si sottolineerà mai abbastanza la funzione decisiva dello sconto volto a piegare quella sorta di riluttanza all’eccesso, che frena e che in questo modo viene tacitata. Perché la meccanica dello sconto, è bene sempre rammentarlo, con la sua implacabile logica del risparmio, serve a seppellire quell’antica vocazione alla parsimonia e alla misura che ci abita da tempi remoti.

Sembrano delinearsi i contorni del fenomeno. Un rito senza teologia in cui tutti noi siamo immersi, devoti di un culto che non promette espiazione, salvezza, ma solo crescente debito e conseguente colpa, «questo culto – scrive Benjamin riferendosi al capitalismo – è colpevolizzante-indebitante», che è poi il più vistoso apparente paradosso di una civiltà che ha promesso benessere ma non poteva che realizzare debito, basandosi in ultima istanza sul credito del denaro.

D’altronde, la radice ultima di un meccanismo che postula una crescita infinita in un quadro di risorse finite e per giunta in rapido deperimento non può che risiedere in una credenza, una fede o qualche forma moderna di superstizione razionalistica.

2. Se il termine Black Friday è suscettibile di congetture, l’ethos che lo anima ha origine certa. Come successe con lo spirito del capitalismo, grazie all’intuizione protestante che l’accumulo di ricchezza fosse un segnale di appartenenza alla comunità di eletti (come ci insegna Weber), anche lo spirito del consumismo ha un suo punto di origine ben preciso. E non a caso lo troviamo nella terra dove si insediarono quegli stessi che erano portatori dell’originaria fede: gli Stati Uniti. Qui, negli anni Cinquanta, vengono gettate le basi dello spirito consumistico, necessario corollario di un apparato iperproduttivista che si regge sul primo spirito. Da allora, si lavora incessantemente per creare una nuova antropologia fondata sul soddisfacimento compulsivo di un godimento senza fine che si esaurisce dopo ogni acquisto e cerca una propria riesumazione nel prossimo oggetto del desiderio (Lacan parlava in proposito del discorso del capitalista).

Sono passati appena dieci anni dalla fine del conflitto mondiale e già si stava esaurendo la spinta alla crescita innescata dalla ricostruzione delle macerie lasciate in Europa e in Giappone. Negli Stati Uniti si temeva una crisi di sovrapproduzione perché il mercato era già saturo. Allora si cercarono altri modi per convincere le persone ad acquistare merci di cui, in fondo, non avevano bisogno. Una società che si crede ricca solamente perché consuma beni inutili. Ma per far questo deve cambiare il concetto stesso di bene. Come racconta Vance Packard ne I persuasori occulti, lavoro pioneristico perché osserva in tempo reale il mutamento di sistema, negli uffici marketing delle aziende cominciano ad essere assunti gli psicologi, affinché suggeriscano come convincere i consumatori ad acquistare ciò che non gli serve. Ancora più di prima, allora, il bene diventa l’incarnazione di un sogno, di uno status, di un carisma che sarebbe acquisito solo in virtù del possesso di un determinato oggetto. Da allora le auto, negli Stati Uniti, aumentano di dimensione, divenendo simbolo della personalità del guidatore. Nel 1955 viene pubblicato un articolo di Victor Lebow sul Journal of Retailing che è considerato il manifesto del capitalismo di consumo. Lebow auspicava che il consumo divenisse un vero e proprio stile di vita, esprimendo la necessità che gli oggetti avessero una vita breve, fossero sostituiti e gettati a un ritmo sempre più rapido. Attualmente il capitalismo intero si fonda su questa teorizzazione. L’usa e getta permette di abbassare il rischio delle crisi di sovrapproduzione ma non fa i conti con il fatto che tale stile non è sostenibile dal pianeta. Oggi ogni attività delle persone ruota intorno all’acquisto ritualizzato di merci, tanto da fare dei centri commerciali il non-luogo di ogni relazione umana, laddove prima erano le piazze della città ad essere il centro relazionale delle comunità urbane. Ciò significa che il capitalismo ha operato una vera mutazione antropologica facendo del lavoro e dell’acquisto di merci lo scopo esistenziale. Chiedere di lavorare meno e di consumare in modo consapevole diviene un discorso eversivo in questo contesto. Anche se tale atto eversivo si rende necessario alla luce della crisi ecologica cui stiamo assistendo. Il comportamento ecologico non è neutro rispetto al sistema di sviluppo.

 Il mercato è indubbiamente forte e pervasivo, ma la storia ha mostrato che alle idee serve più tempo ma che poi possono invertire la freccia della storia in determinate circostanze; l’immaginazione di una soggettività collettiva da costruire non catturata alla lunga può essere la svolta dirompente di questo scorcio di nuovo millennio.  E se un nocciolo di verità le parole contengono, allora Black Friday, o venerdì nero, ci ammonisce circa il treno impazzito su cui stiamo correndo verso il baratro, che le guerre atroci in svolgimento stanno inverando. E dovrebbe anche ammonirci circa il poco tempo a disposizione per tirare il freno.

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venerdì 29 novembre 2024

L’EUROPA HA MOLTE COLPE MA LA PRINCIPALE È DI ESSERSI AUTODISTRUTTA - Andrea Zhok

 

Ci sono molti intellettuali “embedded” nelle truppe dei detentori di capitale che accusano tutti i dissenzienti di essere “anti-occidentali”.
Se dubiti delle proprietà taumaturgiche di un prodotto terapeutico raffazzonato e somministrato forzosamente, allora sei un complottista antiscientifico e antioccidentale.
Se dubiti che l’Ucraina sia il baluardo della democrazia e che la Russia sia guidata da un pazzo che vuole arrivare con i carrarmati a Lisbona, allora sei un putiniano antioccidentale.
Se dubiti che Israele sia per definizione una povera vittima, ingiustamente tormentato da aguzzini palestinesi, gelosi e antisemiti, allora sei filo-terrorista e antioccidentale.

Ora, il termine “occidentale” è assai ambiguo, visto che oggi sostanzialmente include tutto ciò che ricade sotto l’influenza degli USA e dei suoi bungalow in giro per il mondo. Ciò che mi preme chiarire qui è che se per anti-occidentale quegli intellettuali a gettone intendono anti-europeo, si sbagliano di molto.
Tolti gli intellettuali a libro paga e quelli che pensano di sapere quel che succede nel mondo perché leggono Repubblica-Corriere, per i consapevolmente dissenzienti questa è una fase storica di grave sofferenza culturale.
Lo è perché chi non è un parvenu della cultura sa qual è la straordinaria ricchezza, molteplicità e profondità della cultura europea, e ne è giustamente orgoglioso.
Posto che naturalmente non c’è più spazio per l’arroganza di chi credeva un secolo fa che esistesse al mondo solo una cultura degna di questo nome, quella europea, e che tutto il resto fosse barbarie, rimane vero che la cultura che prende le mosse dalla Grecia del VI secolo a.C. e che si dirama per due millenni e mezzo nella rosa delle scienze, delle arti, dei saperi in Europa e oltre, è un patrimonio incredibile, che impone umiltà a qualunque intelletto.Chi ha anche solo avvertito i mondi spirituali che promanano da Platone, Aristotele, Tommaso, Dante, Cartesio, Spinoza, Leibniz, Monteverdi, Michelangelo, Cervantes, Purcell, Shakespeare, Bach, Mozart, Wagner, Mahler, Debussy, van Gogh, Dostoevsky, Thomas Mann, Niels Bohr, ecc. ecc. ecc., chi ha fatto anche solo in piccola parte questa esperienza, non può che soffrire terribilmente nel vedere tutto questo divorato, pervertito e distrutto dall’accidente storico dell’egemonia statunitense degli ultimi 70 anni.

L’Europa ha molte colpe ma la principale è di essersi autodistrutta un secolo fa, lasciando via libera a quel parvenu arricchito del nipote americano, che l’ha condotta, passo dopo passo, a diventare una brutta copia di sé, sacrificabile come controfigura.
E la nostra sofferenza è quella di sapere di essere oggi dalla parte sbagliata della storia, sbagliata quanto un secolo fa, ma oggi anche perdente; e di sentire che il collasso incombente porterà con sé sotto le macerie anche quel patrimonio unico.

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giovedì 21 novembre 2024

Da avventurieri a migranti: grazie al lessico occidentale, chi si muove è diventato criminale - Mauro Armanino

 

Sbarcando a Niamey il mese di aprile del 2011 la parola ‘migrante’ non faceva parte del lessico locale. Si parlava piuttosto di ‘avventurieri’ oppure più semplicemente di ‘esodanti’. Questo due parole nominavano altrettante visioni del migrante, come gli occidentali lo chiamavano. L’avventuriero è una delle figure tipiche dell’immaginario culturale dell’Africa Occidentale perchè andare lontano e di preferenza al mare era come un cammino iniziatico. Il giovane diventava ‘uomo’, avventurandosi verso il totalmente sconosciuto per i Paesi del Sahel, il mare! L’immenso, l’ignoto e cioè la grande sfida.

La seconda parola che definiva il migrante era, appunto, ‘esodante’. Una parola evocativa che suona come un esilio scelto, un andare senza conoscere come e se il partente sarebbe tornato.
In effetti nel Niger, da tempo, si praticava una migrazione stagionale che a volte si trasformava in definitiva. I Paesi della costa atlantica o il nord Africa, Algeria, Marocco e soprattutto Libia erano privilegiati. Un esodo provvisorio, per affrontare la stagione di passaggio tra il raccolto e la nuova stagione. Quanto gli avventurieri o esodanti mandavano o portavano a casa permetteva alla famiglia di creare nuove opportunità di emancipazione.

Arrivò poi, dall’Occidente, con una certa violenza, un nuovo lessico che trasformò radicalmente e in modo radicale, la percezione delle migrazioni. L’esodante divenne un ‘migrante’, si trasformò presto in ‘clandestino’, poi in ‘illegale’, ‘irregolare’, in ‘criminale’ o in un ‘illuso’ dall’Eldorado occidentale. L’esternalizzazione delle frontiere europee, peraltro iniziate prima del vertice nel 2015 a La Valette, col Marocco e il Sudan in particolare, hanno completato il processo di ‘criminalizzazione’ della migrazione come fenomeno.

Si trattava di bloccare o almeno ridurre il numero di ‘potenziali migranti’ che avrebbero potuto attraversare il Mediterraneo. L’organizzazione Internazionale delle Migrazioni, OIM, l’Unione Europea e gli accordi bilaterali, hanno contribuito a rendere le rotte migratorie più inaccessibili, pericolose e onerose. Nel solo il mare ma anche il deserto si sono trasformati in cimiteri senza nome e volto. L’agenzia Frontex ha collaborato al respingimento di 27.288 naufraghi tra il 2019 e il 2023. I morti nel Mediterraneo dal 2014, secondo Statista sono stati più di 30mila. Una guerra!

La mobilità è una componente inseparabile della storia dell’umanità. Non casualmete essa è riconosciuta dalla Dichiarazione fondamentale dei diritti umani al numero 13. Ed è proprio dal continente africano, secondo gli specialisti, che si è iniziato il popolamento del mondo. L’Europa, tanto per rimanere in tema di memoria, è stata per oltre un secolo il continente dell’emigrazione verso le Americhe e l’Australia….

Si calcola che tra ‘800 e ‘900 quasi 50 milioni di persone intrapresero un viaggio senza ritorno verso nuove patrie. Le cause di questo fenomeno furono sia demografiche, con l’aumento della popolazione indotto dalla transizione demografica, che economiche, con l’aumento della produttività del lavoro in agricoltura. L’Italia, con quasi 9 milioni di emigranti, fu uno dei paesi che contribuirono maggiormente a questi flussi migratori. Le correnti migratorie, innescatesi nella seconda metà del XIX secolo si mantennero sostenute fino al secondo dopoguerra (www.units.it).

Le ragioni delle migrazioni sono molteplici e, in fondo, ogni migrante è la sua migrazione… Tuttavia, nell’analisi delle cause, non si dovrebbe sottostimare la realtà delle disuguaglianze economiche, le possibilità di formazione, crescita umana e, naturalmente, l’immaginario simbolico. Rimane un fatto inconfutabile che molti economisti di valore sottolineano. Si sostiene che la migrazione è stata finora il mezzo forse più importante per sfidare la povertà. Naturalmente la complessità del fatto migratorio dovrebbe renderci più attenti alle semplificazioni che spesso polarizzano il tema e le posizioni. Ad esempio l’idea che i popoli africani ‘invadano’ l’Europa appare come fuorviante perchè, com’è noto, la maggior parte delle migrazioni africane si effettuano all’interno dell’Africa, in particolare nell’Africa Occidentale.

I miti da smantellare o perlomeno da ridimensionare sono molti ed è innegabile che un’oculata politica di riflessione e accompagnamento del movimento migratorio, nel dialogo coi Paesi da dove provengono i migranti, gioverebbe a tutti, compresa l’economia dei paesi del Nord. L’inverno demografico dell’Occidente non è irrilevante e compito della politica dovrebbe essere anche quello di prevedere il futuro. Proprio di questo si tratta in fondo. Quale tipo di mondo vogliamo abitare assieme. Se un mondo di muri, reticolati, pattuglie e centri di detenzione esternalizzati o, preferibilmente, un mondo dove l’architettura principale siano i ponti.

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