a cura di Michela Becchi
È il modello del futuro? Chiede l’autore dell'articolo pubblicato su
Internazionale, la storia degli allevatori svizzeri che hanno scelto di
smettere di uccidere gli animali. La risposta esiste già da tempo.
Esistono gli animali da compagnia e poi quelli da reddito. Tra questi ultimi, quei pochi che riescono a essere salvati da morte certa nei macelli, finiscono nei santuari: rifugi per animali senza scopo di lucro, dove una squadra di volontari si prende cura degli ospiti, anche attraverso il sostegno economico di tanti animalisti.
Cosa vuol dire
fattorie vegane
In Italia esiste una Rete dei
Santuari con una Carta di Valori che ne regolamenta il funzionamento:
nessun animale deve essere sfruttato per alcuna prestazione (no cibo, no lana,
no latte e così via), e ogni santuario deve impegnarsi a promuovere un
approccio gentile nei confronti degli animali, aprendo le porte al pubblico.
Dietro, ci sono un’associazione o un ente no profit, che non
possono pagare per recuperare più ospiti (altrimenti, si alimenterebbe ancora
la concezione dell'animale-oggetto da acquistare; quelli dei santuari sono
animali fuggiti, salvati per caso o donati spontaneamente dagli allevamenti ai
volontari).
Le regole sono diverse, si trovano tutte
sul sito della Rete,
e il numero dei santuari presenti in Italia cresce sempre di più. In ogni paese,
però, le cose funzionano diversamente. A riportare l'attenzione sul tema in
questi giorni è l’ultima copertina di
Internazionale (12/18 aprile 2024), con l’articolo di Christof
Gertsch di Das Magazin, Svizzera, intitolato «Nella nuova
fattoria».
Tobias Burren,
l'allevatore pentito in Svizzera
Il pezzo racconta la storia di Tobias
Burren di Liebwil, nel cantone svizzero di Berna: la sua è una
famiglia di vecchi allevatori che negli anni ha fatto tanti sacrifici, ma un
giorno, mentre cullava il suo bambino, Tobias ha sentito una mucca piangere
incessantemente perché separata dal piccolo, e da allora tutto è cambiato. Con
sua moglie Christine, cuoca ed economista aziendale, ha scelto di
diventare vegano e trasformare la sua fattoria, convertendola in una «fattoria
vegana», ma non prima di aver finito di macellare tutto il bestiame «in
eccesso».
D’ora in avanti, le mucche mangeranno
l’erba dei pendii scoscesi e forniranno letame con cui Tobias produrrà il
concime per i campi. Sarà un allevamento meno costoso ma non a costo zero: i
Burren dovranno fare affidamento sui contributi di chi vorrà adottare a
distanza un animale (proprio come accade nei santuari italiani e nel resto del
mondo, Svizzera compresa).
Non si limiteranno ad accudire gli
animali, ma produrranno alimenti vegetali. Coltivazioni di lenticchie e lupini
dolci, mais da polenta e tante preparazioni fatte in casa
per deliziare i propri ospiti. Papà Ruedi non ha preso bene questo cambiamento:
«Sembra assurdo anche a me usare metà dei cereali mondiali per dar da mangiare
agli animali. Ma c’è davvero bisogno di scelte estreme come quella di Tobias?
Non basterebbe mangiare tutti un po’ meno carne?».
L'agricoltura
postletale che non uccide
Una domanda piuttosto comune in
Svizzera, dove solo il 5% della popolazione segue una dieta vegetariana,
meno dell’1% una vegana. Il format dei santuari è ancora tutto da
scoprire: Stefan Mann è un esperto di economia agraria che ha
coniato il termine agricoltura postletale, ovvero un’agricoltura
che non uccide. È anche, però, rappresentante del consiglio di amministrazione
di Agroscope, centro nazionale di ricerca del settore agricolo, e
alla richiesta di intervista da parte del giornalista svizzero è stato
piuttosto evasivo.
La lobby degli
agricoltori contro le fattorie vegane
Dopo aver accettato, Mann ha annullato
l'appuntamento «su consiglio dei miei superiori». L'intervista, alla fine, è
stata fatta ma alla presenza di un’addetta stampa, un rappresentante di
Agroscope e un Mann di pochissime parole. In sostanza, Agroscope non vuole
rovinare i rapporti con i contadini «e la loro lobby nell’assemblea federale»
spiega l’autore, considerando che l’istituto riceve circa 170 miliardi
di franchi l’anno dallo stato.
Smettere di uccidere gli animali per
Mann è sempre stato doveroso dal punto di vista etico, ma al giornalista ha
dichiarato che tra le linee di ricerca dell’istituto oggi non esiste il
concetto di agricoltura vegana. Eppure, si tratta di un tema scottante
considerando che a livello globale «la biomassa del bestiame supera la
biomassa di tutti gli esseri umani e di tutti gli animali selvatici
messi insieme» spiega Gertsch. A quanto pare, siamo in piena era della carne.
I terreni svizzeri non
adatti all'agricoltura a uso umano
Ma non sarebbe sufficiente, come ha
detto il papà di Tobias, che tutti ne consumassero un po’ meno? Urs
Niggli, a capo dell’istituto di ricerca per l’agricoltura biologica - e
consulente di Agroscope - ha detto che in Svizzera circa metà dei
terreni a uso agricolo sono inadatti alla coltivazione di prodotti vegetali a
uso umano, «perché troppo ripidi, troppo sassosi o troppo argillosi»: per
ricavarne grandi quantità, bisognerebbe destinarli al pascolo dei ruminanti
(questo, però, è il panorama svizzero, diverso rispetto a molti altri paesi).
Conclude dicendo che «dobbiamo ringraziare per ogni vegano e ogni agricoltura
che si converte perché la carne è troppa, ma lasciare inutilizzati
tutti i pascoli sarebbe assurdo» (ricordiamo, di nuovo, che è anche lui
consulente di Agroscope).
Nessuno vuole salvare
il mondo
Insomma, nessuno si prende la briga di
rispondere in maniera chiara e decisa a questa domanda, scomoda da tanti punti
di vista. C'è, però, chi nei santuari ci crede fino in fondo: sono persone che
non hanno la presunzione di salvare il mondo «ma loro stessi». Ex allevatori
pentiti (in Italia un caso simile è quello di Massimo Manni a Nerola, in
provincia di Roma, con il Santuario Capra Libera Tutti) che «fanno
quello che possono».
Le vecchie generazioni, come spesso
accade, faticano a stare al passo, temono per gli affari di famiglia. Ma Tobias
e Christine, così come tanti altri «fattori vegani» hanno preso la loro
decisione e non torneranno indietro, a costo di doversi reinventare da capo e
cominciare un nuovo lavoro. Perché sì, il futuro, è proprio questo.
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