L’università italiana è sempre più
indebolita (non debole): che sia nel modo in cui la si racconta – secondo parte
del governo covo di aspiranti brigatisti o comunque colpevole di pensare,
decidere, protestare e schierarsi – o nelle sue dinamiche, emerge evidente il
tentativo di tenerla sotto controllo, mentre poco viene fatto per contrastare
la sua inarrestabile trasformazione in favore della formazione privata, degli
atenei telematici che stanno per sorpassare quelli statali e, neanche a dirlo,
delle regioni Nord. Energia sprecata a spiegare come gestire il dissenso invece
di correre ai ripari di atenei che risentono di un inedito calo demografico
che, in prospettiva, porterà nel 2041 a 415 mila studenti in meno (-21,2%) e a
un minore introito da rette di frequenza per la riduzione degli iscritti pari a
circa 500 milioni di euro. Il depauperamento della popolazione universitaria
sarà maggiormente acuto al Sud, con flessioni degli iscritti superiori al 30%
in Molise, Basilicata, Puglia e Sardegna.
È questo il contesto in cui si inserisce il fermento di questi giorni, ben spiegato
da un recentissimo rapporto elaborato da Mediobanca sul Sistema Universitario
Italiano. L’aumento degli iscritti alle telematiche è il dato più evidente.
Diminuiscono gli studenti, ma quelli iscritti agli atenei online aumentano del
400 per cento nell’ultimo decennio. Un bene per il governo: quanti di questi
studenti scenderanno in piazza a protestare?
Dal 2006, da quando cioè è stato messo un freno al loro moltiplicarsi, gli
atenei oggi operanti in Italia agiscono quindi in un settore chiuso a ulteriore
competizione.
I numeri della loro crescita dal 2012 sono così riassunti: +112,9% i corsi,
+444% gli immatricolati, +410,9% gli iscritti, +102,1% il corpo docente,
+131,3% il personale tecnico amministrativo. Scorrendo l’elenco di tutti gli
atenei notiamo, per dire, che già nell’anno accademico 2021/2022, gli iscritti
alla Pegaso erano 90 mila, quelli alla Sapienza di Roma circa 108 mila. Il
sorpasso, insomma, è vicino. Quello dei laureati è già avvenuto (23 mila contro
18 mila). E se fino a un certo punto si poteva pensare che a iscriversi fossero
per lo più lavoratori, dal 2011 si è ridotta anche l’età media, passata da 35
anni circa a 27. E anche la percentuale di laureati triennali in corso è
salita: erano il 21,1% nel 2010/11 (contro il 26,3% delle tradizionali), sono
poi cresciuti al 44,8% per la coorte 2017/18 (contro il 37,8%).
A questo punto bisogna collegare diversi fili, cause-effetto almeno in
parte concatenati. Un secondo elemento importantissimo riguarda infatti la
competizione territoriale che in Italia nell’ultimo decennio “ha sfavorito
proprio le università del Sud”. L’aumento di iscritti agli atenei del nord, ad
esempio, sono speculari alle defezioni al Sud e nelle Isole (+17,2% il Nord
Ovest, +13,4% il Nord Est, -16,7% al Sud e -17,1% nelle Isole). “Solo sette
regioni hanno un rapporto tra studenti entranti e uscenti superiore all’unità –
spiega il rapporto –, capeggiate dall’Emilia-Romagna con 4,3 matricole in
ingresso per una che si iscrive fuori regione”. Per le altre il saldo è
negativo: “Basilicata, Calabria, Puglia e Sardegna registrano una matricola in
ingresso ogni 10 che lasciano la Regione”.
Gli alloggi universitari sono pochi, chi non ha possibilità economiche fa più fatica:
teoricamente ci sarebbero 9 studenti per ogni posto disponibile negli
studentati. La stima rivista, però, parla di un rapporto 1 a 21. Gli affitti
privati, come è ormai noto, sono inaffrontabili. E se non ci si volesse
spostare? Al Sud è difficile: il tempo medio necessario per raggiungere la sede
degli studi nel Mezzogiorno supera i 150 minuti, mentre la media italiana è di
88. Insomma: gli studenti italiani non possono neanche dirsi totalmente liberi
di studiare e quando lo fanno, gli si chiede di non pretendere posizione.
Eppure lo Stato contribuisce alla spesa per la formazione universitaria solo
per il 61% del totale, rispetto al 76% della UE e al 67% dell’Ocse.
La quota residua è per lo più sostenuta dalle famiglie: 33% in Italia
contro il 14% della Ue. Che devono avere diritto di parola.
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