sabato 31 ottobre 2020

Speculare fino all’ultima goccia - Marco Bersani

Ci sono due modi di leggere gli insegnamenti della pandemia da Covid 19. Il primo è quello di comprendere finalmente la fragilità dell’esistenza e l’interdipendenza tra vita umana e natura, assumendo il limite come elemento fondativo dei beni comuni e come antagonismo all’appropriazione privata degli stessi. Da qui la stringente necessità di rivoluzionare l’economia del profitto per costruire la società della cura, che è cura di sé, dell’altr*, del pianeta e delle generazioni future.

Ma se ci poniamo dal punto di vista delle imprese multinazionali e delle grandi lobby finanziarie otteniamo una lettura opposta: la limitatezza dei beni a disposizione dell’umanità diviene in questo caso una nuova enorme possibilità di mercificazione, soprattutto se riguarda l’acqua, un bene essenziale e, come tale, a domanda rigida (tutt* abbiamo bisogno dell’acqua, tutti i giorni e per sempre) e business garantito.

È esattamente dentro questo conflitto – che vede l’1% di ricchi contrapporsi al 99% del resto delle persone – che si possono infrangere tutte le regole democratiche che governano una società: così, se nel 2011 la maggioranza assoluta del popolo italiano aveva votato per considerare l’acqua come bene comune e per escludere dal mercato la gestione del servizio idrico, quasi dieci anni dopo non solo quella decisione sovrana non è stata attuata e la finanziarizzazione dell’acqua prosegue imperterrita, ma addirittura il nostro Paese si candida ad ospitare l’edizione 2024 del World Water Forum, l’incontro triennale in cui le multinazionali dell’acqua danno gli ordini ai governi su come favorire la privatizzazione.

E c’è una nuova frontiera della mercificazione dell’acqua, che ci arriva da una recentissima notizia: Cme Group, gruppo finanziario leader mondiale dei contratti derivati, ha annunciato che, nel quarto trimestre di quest’anno, quoterà un contratto finanziario derivato – future, in termine tecnico – sul prezzo dell’acqua.

Pensato per gli enti pubblici e le imprese bisognose di gestire i rischi relativi alla scarsità di acqua in California, il nuovo contratto dipenderà dal Nasdaq Veles California Water Index, un indicatore dei prezzi idrici lanciato nel 2018 nello stato federato americano, con un mercato che già oggi vale almeno 1,1 miliardi di dollari.

Ogni future regolerà le transazioni di 10 piedi acri (oltre 12.334 metri cubi) di acqua e sarà regolato in base all’indice di riferimento.

Ogni settimana, il Nasdaq Veles California Water Index (NQH20) stabilirà un prezzo per i diritti di sfruttamento dell’acqua, calcolato sulla media ponderata dei prezzi e in base al volume degli scambi nei cinque maggiori mercati idrici dello stato federato americano.

Il nuovo future non si fermerà ovviamente al solo mercato californiano. Come ha chiaramente detto Tim McCourt, dirigente di Gme Group: “Con quasi due terzi della popolazione mondiale che dovrebbe affrontare la scarsità d’acqua entro il 2025, questa rappresenta un rischio crescente per le imprese e le comunità di tutto il mondo”. ‘

E un grandissimo business per noi’ ha lasciato sottindere.

D’altronde, se vale il dogma liberista che “tutto ciò che è scarso ha un prezzo”, quale miglior occasione dei drammatici cambiamenti climatici in corso – già oggi 2 miliardi di persone vivono in Paesi sottoposti a “forte stress idrico”- per mettere in piedi un mercato con business garantito e duraturo?

Senza contare come la quotazione di future basati sul prezzo dell’acqua, metterebbe quest’ultima immediatamente nelle mani degli speculatori finanziari, come già oggi avviene per mercati degli alimenti di base, tipo il grano.

 

Quanti sanno che le primavere arabe, alimentate certamente dal bisogno collettivo di democrazia, hanno avuto la loro scintilla da un improvvisa escalation del prezzo del grano provocata da un’ondata di speculazioni sui mercati finanziari?

La battaglia per l’acqua assume dunque un valore ancora più fondamentale: a un capitalismo in pluri-crisi sistemica, che, per sopravvivere, ha deciso di approfondire la finanziarizzazione e la mercificazione della società, della vita e della natura, occorre contrapporre da subito un altro modello sociale, che abbia la cura collettiva come elemento fondativo.

Ci sono future a beneficio dei pochi, soliti noti e c’è un futuro collettivo da conquistare.

A ciascun* decidere da che parte stare.

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venerdì 30 ottobre 2020

Un passaporto dell’Unione europea vale oro - The Economist

 Un passaporto dell’Unione europea è uno dei documenti più desiderabili al mondo. Chi lo detiene può vivere e lavorare in 27 diversi paesi, tutti prosperi e in pace. Molti hanno anche una cucina eccellente. Nella grande lotteria del diritto per nascita a una cittadinanza, coloro che possiedono un biglietto colore bordeaux con su scritto Unione europea sono tra i fortunati vincitori.

Attribuire un prezzo a questo documento è difficile, ma Cipro c’è riuscita. Chi investe 2,2 milioni di euro nell’isola può ottenere un passaporto cipriota con tutti i benefici che derivano dall’essere cittadino dell’Ue. Malta ha un programma simile (al costo di poco più di un milione di euro, è anche sensibilmente meno caro) per chiunque sia stanco di viaggiare con documenti che aprono meno porte.

Non tutti pensano che sia una buona idea. In un suo recente discorso, Ursula von der Leyen, la presidente della Commissione europea, ha citato questi “passaporti d’oro” come una delle minacce allo stato di diritto in Europa, insieme all’intimidazione dei giudici. Il suo fastidio è comprensibile. Dal momento che chiunque possieda un passaporto dell’Ue può muoversi liberamente al suo interno, quello che rappresenta un guadagno facile per il governo di Cipro può generare problemi per il resto dell’Unione. Cipro ha incassato sette miliardi di dollari grazie al programma lanciato nel 2013, pari a un quarto del pil annuale dell’isola. Ha venduto passaporti a molte persone ricche ma sgradevoli, che adesso sono libere di trasferirsi in Germania o Francia.

Vietare simili vendite sarebbe una decisione popolare. Ma la questione non è semplice. Decidere chi abbia diritto a essere un cittadino è un diritto gelosamente custodito da ogni stato dell’Ue. Tutti i paesi dell’unione concedono passaporti per ragioni che vanno oltre i classici motivi, come la naturalizzazione di chi sposa un loro cittadino o di chi vive nel paese abbastanza a lungo. Alcuni paesi li concedono per ottenere il favore delle comunità della diaspora, fare ammenda per azioni commesse in passato, o creare nuovi elettori. Può darsi che essere un cittadino dell’Ue comporti diritti comuni. Ma c’è forte disaccordo, tra gli stati membri, su chi dovrebbe avere il diritto di esserlo.

Alcuni paesi dell’Ue, in particolare quelli con grandi diaspore, distribuiscono passaporti bordeaux come un venditore di vini all’ingrosso a Natale. L’Irlanda permette a chiunque abbia un nonno irlandese di rivendicare la cittadinanza del paese. Visto il gran numero d’irlandesi emigranti in passato, esiste oggi un numero incalcolabile di potenziali irlandesi all’estero. Nella sola Gran Bretagna circa sei milioni di persone potrebbero avere il diritto a un passaporto irlandese. Ovvero una popolazione del 20 per cento circa superiore a quella che vive effettivamente in Irlanda oggi. E grazie alla Brexit in molti potrebbero avere un buon motivo per richiederlo. Chiunque abbia un antenato maschio italiano ha la possibilità di richiedere un passaporto italiano. In via patrilineare non esiste un limite temporale, e questo diritto arriva indietro nel tempo fino al 1861, anno di nascita dell’Italia (i diritti dei discendenti di donne partono solo dal 1948). Tra il 1998 e il 2010 un milione di persone ha ottenuto un passaporto italiano in questo modo. Secondo una stima, in tutto il globo ci sono sessanta milioni di potenziali cittadini italiani (tuttavia molti di loro si sono trasferiti in paesi ancora più ricchi, come gli Stati Uniti, ed è improbabile che facciano ritorno nel paese degli avi).

Origini da recuperare
I passaporti possono essere distribuiti anche per motivi politici. Il più smaliziato di tutti, in questo senso, è stato il primo ministro ungherese Viktor Orbán. Dopo che la prima guerra mondiale ha portato alla ridefinizione dei confini dell’Europa orientale, cittadini d’origine ungherese si sono ritrovati sparsi nei paesi vicini, come Serbia e Romania. Il governo di Orbán ha facilitato le regole per ottenere la cittadinanza, nel tentativo di naturalizzare e concedere il diritto di voto a un milione di queste persone. Tra il 2011 e il 2016, sono stati creati ogni anno 180mila nuovi cittadini ungheresi: più delle naturalizzazioni in Francia e Germania messe insieme, secondo Yossi Harpaz, autore di Citizenship 2.0. Dual nationality as a global asset (Cittadinanza 2.0. La doppia nazionalità come bene globale), un libro sulla doppia nazionalità. Chiunque possa dimostrare di avere origini familiari nelle aree rilevanti dell’impero austroungarico, ed è disposto a imparare l’ungherese – una lingua notoriamente difficile – può richiedere un passaporto (come prevedibile, scuole di ungherese sono apparse in tutta la Serbia). La strategia ha funzionato: quando questi nuovi cittadini ungheresi votano, sostengono in grandissima maggioranza proprio Orbán.

Anche offrire la cittadinanza come atto di espiazione storica è una pratica comune. L’Austria, che altrimenti pone limitazioni alla doppia nazionalità, permette oggi ai discendenti di ebrei espulsi, o fuggiti, durante gli anni trenta e quaranta di richiedere un passaporto. Un simile diritto esiste in Germania, ed è iscritto nella costituzione del paese. La Spagna si spinge ancora più indietro nel tempo, permettendo ai discendenti degli ebrei sefarditi cacciati nel quindicesimo secolo di reclamare la cittadinanza spagnola (i discendenti dei musulmani cacciati nello stesso periodo non hanno una simile fortuna).

Alcuni paesi hanno un approccio opposto e concedono difficilmente un passaporto. Al pari dell’Austria, Paesi Bassi e Germania hanno regole severe nell’attribuire la doppia nazionalità a chi viene da paesi extra Ue. In un’era in cui i cittadini venivano regolarmente arruolati nell’esercito per sterminare i loro vicini, simili limitazioni alla doppia nazionalità avevano senso. Oggi appaiono obsolete e hanno l’unica funzione di rendere gli immigrati – che potrebbero non voler rinunciare alla loro altra nazionalità – in una posizione di costante marginalità.

Poiché i passaporti sono visti, da un lato, come un bene o uno strumento politico e, dall’altro, come un’adesione civile valida per tutta la vita, stabilire delle regole comuni per la loro attribuzione è quasi impossibile. Anche se gli stati sono ben felici di puntare il dito contro Malta e Cipro, non amano essere criticati per il modo in cui essi stessi assegnano la cittadinanza. Alcuni probabilmente sono contrari all’idea di limitare la doppia nazionalità. Altri probabilmente sono preoccupati dalle ignote dimensioni delle diaspore italiane e irlandesi, che potrebbero trasformarsi in cittadini dell’Ue. Ed è decisamente fuori luogo che l’Ue si pronunci sul modo in cui i paesi debbano fare ammenda per le proprie responsabilità nell’Olocausto. È chiaro che prima di qualsiasi decisione sul divieto di vendere passaporti dell’Ue, sarebbe necessaria una chiara definizione di chi abbia diritto a tali passaporti. Ma la cosa rischia di rivelarsi molto complicata.

Un approccio alla Al Capone potrebbe essere sufficiente all’Ue per mettere fine ai programmi portati oggi avanti da Malta e Cipro. Invece d’impedire loro di vendere passaporti tout court, Bruxelles potrebbe perseguire questi paesi ai sensi delle leggi sul riciclaggio di denaro, rendendo la vita difficile ai nuovi arrivati meno raccomandabili. Ma uno stato agguerrito – insieme ad alcuni astuti avvocati – potrebbe comunque essere in grado di tenere in vita questo commercio di passaporti. Attribuire una cittadinanza è un enorme potere ed è improbabile che gli stati membri vi rinuncino. Questo significa, probabilmente, che dovranno accettare che i loro vicini vendano passaporti a dei plutocrati.

(Traduzione di Federico Ferrone)

Questo articolo è uscito sul settimanale britannico The Economist.

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mercoledì 28 ottobre 2020

La memoria di Thomas Sankara - Mauro Armanino

Sankara non è morto’. Questo il titolo del film-documentario/fiction, realizzato da Lucie Vivier e presentato in modo molto virtuale e clandestino durante il confinamento che ha colpito anche il Burkina Faso. Il passato giovedì 15 ottobre, in un centro culturale informale costruito sulla strada e dedicato a Thomas Sankara, l’ingresso era libero. Qualche bambino addormentato prima della fine, giovani e pochi adulti, hanno celebrato così l’anniversario numero 33 dell’assassinio del capitano Sankara. Il suo volto stampato sulla locandina, un paio di magliette con le citazioni più note dei suoi discorsi e soprattutto la follia della memoria, cancellata e riscritta ogni giorno, del suo tragico transito nel ‘Paese degli Uomini Integri’. Questo è il senso, infatti, del Paese che i coloni avevano, per convenienza geografica, chiamato ‘Alto Volta’. Il fiume Volta, probabilmente battezzato così da commercianti d’oro portoghesi che significa ‘svoltare, girare’, costituito da numerosi meandri, nasce nel Burkina. Il fiume è formato dal Volta Bianco e dal Volta Nero che si congiungono nel vicino Ghana. La vera ‘svolta’ è venuta però da Sankara che ha trasformato la geografia in politica: il Burkina Faso ha sostituito l’Alto Volta. Il paese degli uomini ‘integri’ è un’affermazione politica più che etica e che, con Sankara, sarebbe da subito diventata rivoluzionaria, insurrezionale.

…‘Lo schiavo che non è capace di assumere la sua rivolta non merita che si abbia pietà della sua sorte. Questo schiavo è il solo responsabile del suo destino se si fa delle illusioni sulla condiscendenza sospetta di un padrone che vorrebbe affrancarlo. Solo la lotta libera’

Lo diceva Sankara in un memorabile discorso all’assemblea delle Nazioni Unite il 4 ottobre del 1984. Tre anni dopo, lo stesso mese, sarebbe stato assassinato, con la probabile complicità di un amico intimo, come sempre accade nella storia umana. I tradimenti di qualcuno sono possibili solo perché a tradire sono i più vicini, persino un popolo intero,  quando dimentica ciò che lo ha generato. Sankara sapeva che non sarebbe vissuto a lungo e, come i profeti autentici, aveva dichiarato che i suoi giorni erano contati e che si sentiva come un ciclista, sulla montagna, con un precipizio dai due lati, costretto ad andare avanti per per non sfracellarsi. Muoiono le persone ma non le idee, diceva, e non muoiono coloro che, nell’ambiguità della storia umana, mettono la vita in gioco per qualcosa più grande della loro vita. Le ragioni per vivere valgono di più della vita stessa, quando quest’ultima è obbligata a ‘strisciare’ per esistere, a rinnegarsi per sopravvivere e a tradire per perpetuarsi. Solo la lotta libera, a condizione di mettere il proprio popolo, i poveri, come propri capi.

…’Ex Africa semper aliquid novi’, sosteneva Plinio il Vecchio. Dall’Africa arriva sempre qualcosa di nuovo. Plinio riconosce che l’Africa, continente allora quasi del tutto inesplorato, a parte le sue coste mediterranee, riservava allo studioso sempre nuove scoperte e sorprese. La stessa frase, oggi, è usata a volte anche un po’ ironicamente, per significare che da qualcuno non si sa mai bene che cosa aspettarsi, ovvero ci si può aspettare di tutto. C’è del nuovo che ci arriva dal Continente africano, dal Sahel con la sua sabbia, gli ostaggi liberati e quelli ancora in cattività. L’Africa del tutto minoritaria ma significativa dei naufragi del Mediterraneo. L’Africa, col parziale declino dell’America Latina e il crepuscolo dell’Europa, è attualmente il continente più rivoluzionario di tutti, a condizioni di assumerne il grido e il cammino. Senza peraltro sottacere che non sono gli altri, i coloni e i neo-coloni, gli imperialisti o i mercanti che fanno problema. Loro fanno il loro mestiere, si capisce bene. Esattamente come i gruppi armati terroristi o insorti o banditi comuni o tutto quanto insieme con minime differenze qui nel Sahel. Non sono loro il problema. Il principale nemico dell’Africa, può sorprendere… ma sono gli africani stessi. Assurdamente sono i loro primi nemici. Lo sanno bene e per questo non si fidano di nessuno e si tradiscono, con le interessate complicità esteriori. Fanno di tutto per vanificare o soffocare ogni tentativo di trasformazione rivoluzionaria.

Altri l’hanno detto prima di me fino a che punto si è scavato il fossato tra i popoli benestanti e quelli che non aspirano che a mangiare, bere e difendere la propria dignità. Nessuno immagina fino a che punto sia il grano del povero a nutrire la vacca del ricco… (Thomas Sankara)

                                                                 Niamey, 15 ottobre 020

https://comune-info.net/la-memoria-di-thomas-sankara/

martedì 27 ottobre 2020

Ecco le mie 5 idee per salvare i ristoranti italiani - Massimo Bottura

Io mi domando: ma noi chi siamo? Io credo che oggi un ristorante, in Italia, valga una bottega rinascimentale: facciamo cultura, siamo ambasciatori dell’agricoltura, siamo il motore del turismo gastronomico, facciamo formazione, ed ora abbiamo dato inizio ad una rivoluzione culinaria “umanistica” che coinvolge il sociale. L’ospitalità e la ristorazione, l’arte e l’architettura, il design e la luce sono gli assi portanti della nostra identità. Negli ultimi cinque anni a Modena, grazie ad un micro ristorante come l’Osteria Francescana, sono nati oltre 80 b&b. È nato il turismo gastronomico dove migliaia di famiglie, coppie, amici, passano due o tre giorni, in giro per l’Emilia, a scoprire e celebrare i territori e i loro eroi: contadini, casari, artigiani, e pescatori.

Una categoria abbandonata

Focalizzandoci sulla ristorazione in pochi oggi hanno liquidità, anzi, oggi più che mai ci sentiamo soli. Abbiamo chiuso a marzo e ci avete chiesto di riaprire dopo tre mesi rispettando le regole. L’abbiamo fatto. In tantissimi si sono indebitati per mettersi in regola: mascherine, gel, scanner di temperatura, saturimetri, sanificazione dell’aria, test per tutto lo staff, ingressi alternati, tavoli distanziati. Per uscire da questa crisi senza precedenti, abbiamo bisogno di speranza e fiducia. La speranza è quella che ci mantiene in una condizione attiva e propositiva. La fiducia è credere nelle potenzialità personali e degli altri.

La forza principale che ci ha sempre sostenuto è il sogno, non il guadagno. Oggi, senza liquidità, perché in tanti continuano a sognare con l’incasso giornaliero, molti non ce la faranno e il paese perderà una delle colonne portanti della sua identità.

Le misure concrete

La mancanza di contante porta prima di tutto al mancato pagamento degli stipendi, poi dei fornitori, le rate dei mutui e infine gli affitti. Serve un segnale che ci riporti fiducia. Ora si rischia la depressione. Ora abbiamo bisogno di coraggio e di stimoli. Per trovare la voglia di continuare e non sentirci soli.

In concreto abbiamo bisogno:

1) Della chiusura serale almeno alle 23.

2) Di liquidità in parametro ai fatturati.

3) Della cassa integrazione almeno fino alla stabilizzazione del turismo europeo.

4) Della decontribuzione 2021 visto che per il 2020 abbiamo già adempiuto in pieno.

5) Dell’abbassamento dell’aliquota Iva al 4% per il prossimo anno.

La politica è fatta di coraggio e di sogni. È simile alla poesia. È fatta di immaginazione e di futuro. La politica deve rendere visibile l’invisibile.

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lunedì 26 ottobre 2020

Navigare in un oceano di incertezza - Annamaria Testa

In quest’ultimo periodo sono usciti, e la cosa non è per nulla sorprendente, diversi articoli che parlano di incertezza. E dicono, mi sembra, cose interessanti.

È un ottimo motivo per tornare sul tema.

Dico “tornare” perché ne avevo già scritto nel bel mezzo del picco della pandemia, ricordando (in estrema sintesi) che a partire dal secondo dopoguerra abbiamo cercato di spingere l’incertezza ai margini più remoti della nostra esperienza quotidiana. E che siamo arrivati a pretendere sempre risposte e soluzioni tempestive, rassicuranti e certe, anche quando ottenerle è oggettivamente impossibile.

Eppure, al crescere della complessità si accompagna fatalmente il crescere dell’incertezza, e dovremmo imparare a gestirla. Senza negarla, senza farcene travolgere, senza pretendere di governarla, ma mantenendoci flessibili e aperti. E facendo leva sull’adattabilità, che è il principale fattore di successo della nostra specie.

Aprire la porta dell’ignoto
Il novantanovenne filosofo Edgar Morin, in una bella intervista su Repubblica, parla del cambiamento che una condizione di incertezza può favorire: “Oggi”, dice Morin, “la globalizzazione ‘tecno-economica’ è più egemonica che mai. Con la sua sete insaziabile di profitto, è stato il motore del degrado della biosfera e dell’antroposfera, ha provocato chiusure nazionaliste, etniche e religiose. Cambiare strada può sembrare impossibile. Ma tutte le nuove vie che la storia umana ha conosciuto erano impreviste, figlie di deviazioni che hanno potuto mettere radici, divenire forze storiche”.

E, poeticamente, aggiunge che “la vita è una navigazione in un oceano di incertezze attraverso isole di certezze”.

L’obiettivo, dunque, sarebbe imparare a navigare, traendo il massimo vantaggio dalle isole, anche se diventano via via più rare, affrontando l’incerto oceano senza lasciarsene travolgere.

Qualche indicazione in questo senso si può ricavare da Aeon, che pubblica un lunghissimo articolo intitolato The value of uncertainty.

L’esordio è una folgorante citazione del premio Nobel Richard Feynman, tratta dal testo di una conferenza del 1963 intitolata (ci risiamo) L’incertezza della scienza. “Penso”, dice Feynman, “che sia molto più interessante vivere non sapendo, che avere risposte che possono essere sbagliate. Per progredire bisogna lasciare socchiusa la porta dell’ignoto”.

L’intero articolo di Aeon ruota attorno alla storia di Max Hawkins, ingegnere di Google che, sentendosi intrappolato nella sua vita, troppo prevedibile proprio perché perfettamente rispondente alle sue attese, si trasforma in artista. E comincia a vivere secondo le indicazioni di algoritmi che lui stesso ha progettato.

Questi algoritmi, in modo del tutto casuale, gli dicono che cosa mangiare, dove andare a stabilirsi per i due mesi seguenti (lo spediscono, per esempio, a Mumbai e in Slovenia), quale musica ascoltare, a quali eventi assistere, e perfino quale disegno scegliere per un tatuaggio.

Qui, se volete replicare l’esperienza – che lui sostiene essere assai appagante – c’è il suo sito.

La scelta di Hawkins appare paradossale, ma ha un suo perché. Il nostro cervello si dà continuamente da fare, tra aspettative e proiezioni, per anticipare il futuro, e mettersi in grado di affrontarlo al meglio. Ma i tempi che viviamo sono sommamente imprevedibili, e il cervello non ha abbastanza elementi utili per costruirsi un quadro plausibile di quello che verrà.

Dunque, tanto vale allenarlo ad accogliere l’entropia.

Tre tipi d’interessi
La parte secondo me più interessante dell’articolo di Aeon, che compie anche un’ampia digressione nell’universo delle sostanze psicotrope, è quella che distingue fra tre tipi di incertezza.

C’è un’incertezza attesa, che possiamo mitigare recuperando informazioni dall’ambiente, o facendo simulazioni. È quella che sperimentiamo quando, per esempio, sbagliamo strada e non sappiamo più in che direzione andare. Allora chiediamo informazioni, o ricorriamo al navigatore satellitare, o torniamo sui nostri passi fino a ritrovare un luogo conosciuto. E tutto torna a posto.

C’è l’incertezza inattesa, che non riusciamo a contenere ricorrendo alle strategie consuete, e che possiamo affrontare solo alzando il nostro tasso di apprendimento, esplorando nuove opportunità, e imparando a fare delle stime di probabilità. È, per così dire, un’incertezza di secondo livello. Può essere produttiva e creativa perché forza le nostre abitudini di pensiero e di comportamento. Ed è quella con cui si confronta Hawkins.

E poi c’è la volatilità: un susseguirsi di cambiamenti così repentini e disordinati che fare stime è impossibile e non c’è nemmeno il tempo per imparare qualcosa di nuovo. È un’incertezza di terzo livello. Una situazione in cui simulazioni e stime sono impossibili, e in cui gli esiti di qualsiasi azione sono aleatori. Risultato: frustrazione, senso di impotenza, apatia, fino alla paralisi.

Isole di certezza
Hawkins trae il massimo profitto creativo dalla sua situazione perché è sì molto incerta, ma non volatile. Lui stesso ha progettato gli algoritmi, quindi lui stesso ha determinato la situazione in cui si trova. E comunque gli algoritmi presentano delle regolarità: per esempio, lo spediranno ad abitare in un luogo casuale, ma lo faranno regolarmente ogni due mesi. La prevedibilità temporale è dunque, per così dire, un’isola di certezza.

Costruire isole di certezza per ricondurre l’insopportabile condizione di volatilità a una più sopportabile (e potenzialmente fertile) situazione di incertezza inattesa è quanto facciamo noi quando, nel bel mezzo del caos, ci ricostruiamo frammenti di nuova normalità, per esempio cuocendoci a casa il pane. O imponendoci di fare regolarmente esercizio. Ma è anche quanto, a pensarci bene, facciamo appena arrivati nella stanza sconosciuta di un albergo, in un posto sconosciuto: disponiamo subito in ordine, attorno a noi, le nostre cose. Minuscole isole di certezza.


Di odierna paralisi da incertezza selvaggia parla anche un brillante articolo di Axios. Il quale segnala che una strategia utile è pianificare sulla base non di un possibile futuro, ma di molti possibili futuri alternativi: un esercizio che ci rende, oltre che più preparati, più adattabili.

In sostanza, si tratta di tracciare molte rotte possibili, per potersi di volta in volta accordare al vento, ma senza perdete di vista la meta.

Per riuscirci bene, però, dobbiamo abbandonare ogni illusione che tutto possa tornare come prima, e accettare il fatto che disponiamo di poche risposte alle infinite domande che ci stiamo ponendo.

Dobbiamo anche considerare che una dose d’ansia, in una situazione come questa, non è patologica, ma legittima e umana.

In sostanza: dobbiamo sperare per il meglio, pianificare per il peggio (per tutti i possibili peggio), e restare focalizzati sulle priorità reali (questa à la cosa più difficile), senza perderci nei dettagli o farci travolgere dalle chiacchiere. Conservando la capacità di guardare attraverso e oltre l’emergenza.

E sì: ricordiamoci di indossare la mascherina.

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domenica 25 ottobre 2020

La decrescita felice contro la decrescita infelice - Gianni Lombardi

Se uno che ha due auto e uno scooter vende un’auto e lo scooter per avere meno spese e più tempo libero, poi smette di bere la Coca-Cola perché si è accorto che ci sono sei cucchiaini di zucchero per lattina, quindi cammina di più a piedi, va in bici invece che in auto, va in vacanza in treno invece che fare le code in autostrada, quella è decrescita felice. Vantaggi: salute migliore, meno stress, meno spese, meno consumi.

Se invece gli pignorano un’auto perché è indebitato, deve smettere di bere la Coca-Cola perché ha il diabete, deve fare fisioterapia perché ha problemi alle articolazioni a causa del sovrappeso, usa la seconda auto perché la prima gliel’hanno pignorata ma non paga l’assicurazione perché non ha soldi, va in vacanza in auto perché facendo le code si sente ‘più libero’ invece di osservare gli orari del treno, quella è decrescita infelice. vantaggi: piacere temporaneo. Svantaggi: stress, debiti, problemi di salute.

Il riscaldamento globale e la globalizzazione, che non sono mali in sé ma questioni di misura, porteranno grandi difficoltà e addirittura catastrofi per molti territori e ampie fasce di popolazione umana, per non contare gli effetti sulle altre specie animali e vegetali.

Siccome non è possibile pensare a un futuro in cui 10 miliardi di persone vivono nella villetta unifamiliare dei telefilm, consumano senza limiti cibo ipercalorico, e si muovono con un suv, un’auto sportiva e uno scooter per famiglia (ancorché elettrici) per andare a scuola e al lavoro nella città vicina, andando tutti gli anni in vacanza dall’altra parte del pianeta con voli low cost, occorre prendere dei provvedimenti globali per:

§  Limitare il consumo di suolo e invertire la tendenza

§  Ridurre i consumi energetici e molti consumi falsamente voluttuari (troppa carne, troppo zucchero, troppi viaggi, troppo turismo, troppe auto, troppo riscaldamento, troppo condizionamento, eccetera)

Possedere tre auto per avere l’auto grande per i viaggi, la decapottabile per i weekend e l’utilitaria elettrica per muoversi in città è dispendioso, poco razionale e, dal punto di vista ambientale, anche un comportamento sbagliato e pericoloso. Generalizzare questo genere di comportamenti e consumi è ancora più sbagliato e pericoloso.

Queste tesi sono indirettamente confermate anche dal gruppo assicurativo Zurich sulle pagine del Financial Time (quindi una grande compagna assocurativa svizzera sulle pagine del più importante quotidiano finanziario, non gli ‘ambientalisti estremi con la testa fra le nuvole’) Lo stesso Covid-19 che ci colpisce in questo momento è stato causato o almeno molto facilitato dalla fame di risorse naturali indotta dallo sviluppo economico incontrollato:

«La deforestazione – sottolinea la società svizzera – spinge gli animali selvatici fuori dai loro habitat naturali e più vicini alle popolazioni umane, creando una maggiore opportunità per la diffusione delle malattie zoonotiche nell’uomo».

La compagnia assicurativa svizzera concorda con ambientalisti e scienziati: clima e perdita di biodiversità favoriscono la diffusione dei virus di origine animale. Dall’ebola al Covid-19


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venerdì 23 ottobre 2020

Non c’è più tempo - Extinction Rebellion Italia

Pur tenendo conto delle limitazioni legate alla necessità di non estendere il contagio del Covid-19, Extinction Rebellion (XR) è tornata nelle strade dell’Europa e del mondo, con un’ondata di ribellione e di disobbedienza civile nonviolenta che è stata inaugurata a Londra il primo settembre e che è giunta in Italia nella settimana dal 5 al 12 ottobre 2020, a Roma.

La settimana italiana aveva come target quelli che per Extinction Rebellion (XR) sono i “pilastri del potere”: il governo, i media, e le grandi aziende colpevoli di ecocidio con il loro potere di lobbying.

La prima giornata aveva come principale bersaglio il governo, e si è inaugurata con una manifestazione inclusiva che comprendeva canti, danze e cori per veicolare un messaggio di amore per la vita. Piazza San Silvestro ha ospitato numerosi interventi sia di natura scientifica, che di carattere personale.

Alla fine la manifestazione ha visto un grande die-in che voleva rappresentare il rischio di morte di massa a cui andremo incontro se non si cambia rotta in modo urgente e sistemico.

Durante il die-in è comparsa una  lenta processione di 18 componenti della Red Rebel Brigade, figure con i volti bianchi e con le vesti rosse, a richiamare la passione per la vita, ma anche il sangue che accomuna tutti gli umani e tutti i viventi.

 

Mentre le figure, con passi e movenze lente e coordinate, si aggiravano per la piazza ricoperta di corpi inermi, veniva letta la Dichiarazione di Ribellione al governo italiano: si dichiarava come esso avesse abdicato al proprio ruolo di protettore della vita e del futuro delle generazioni presenti e future, a causa della prolungata inazione nei confronti della crisi ecologica e climatica.

A conclusione della mattinata, un gruppo si è diretto verso Piazza del Parlamento per chiedere di poter consegnare la Dichiarazione di Ribellione a* parlamentar*.

Le forze dell’ordine lo hanno impedito, anche con un dispiegamento sproporzionato rispetto al carattere nonviolento della manifestazione.

La piazza del Parlamento è stata blindata e sono state identificate le persone nei paraggi, chi sedut* al bar, chi incuriosit* dalla situazione. Un dispiegamento di forze che sarebbe stato giustificato se rivolto ad un gruppo di terroristi: al contrario, nel corso della settimana, le Forze dell’Ordine hanno dovuto accorgersi di avere a che fare con un movimento radicalmente e programmaticamente nonviolento.

Perché tale è il carattere del movimento, composto da cittadin* preoccupat* provenient* da tutta Italia: studenti, dottoresse, disoccupati, insegnanti, impiegati, uomini e donne dispost* alla disobbedienza civile per sensibilizzare su una crisi che atterrisce. 

Al governo, Extinction Rebellion chiede in primo luogo di dire la verità sulla portata della crisi e di dichiarare emergenza climatica ed ecologica; di agire ora e mettere subito in atto provvedimenti volti a fermare la distruzione degli ecosistemi marittimi e terrestri, e provvedimenti finalizzati a raggiungere lo zero netto di emissioni entro il 2025.

Perché questo è ciò che è necessario, la scienza è chiara e sempre più persone stanno perdendo la vita a causa di eventi climatici estremi e pandemie globali. In ultimo, per governare la necessaria transizione ecologica XR chiede che il governo istituisca Assemblee dei cittadini, con potere deliberativo, affinché ogni fascia della popolazione e ogni istanza possa avere voce sul cambiamento che determinerà gli anni futuri.

Extinction Rebellion Italia si è rivolta successivamente ai media, perché assolvano al proprio ruolo informativo, dando l’importanza e la rilevanza che meritano alle molteplici crisi che si presentano davanti ai nostri occhi e si intersecano nelle nostre vite.

Ai media, XR chiede che l’emergenza ecologica e climatica non sia più relegata in rubriche specifiche, marginali.

Che essa non venga narrata come un problema che tecnologia, progresso e innovazione risolveranno, permettendoci di perpetuare il nostro modello di estrazione e consumo senza che nulla accada. 

 

La prima azione rivolta ai media è stata mercoledì 7 ottobre, si è trattato di un presidio con azione-performance a tema Greenwashing davanti alla sede del gruppo Gedi.

Tre attivisti sono stati ricevuti dalla redazione della nuova sezione di approfondimento di La Repubblica, “Green & Blue”, sponsorizzato da ENI e FCA, ma le risposte sono state inconsistenti: la redazione persegue nel ritenere giusto il proprio approccio, mentre al contempo afferma di ascoltare le istanze degli attivisti che chiedono una presa di posizione più radicale.

Il movimento infatti non si riconosce nelle forme più ottimistiche di ambientalismo che credono che le energie rinnovabili siano l’unica e sufficiente soluzione alla crisi ecologica e climatica.

Il movimento ha una visione più complessa della situazione, che mette al centro, fra le cause della crisi, la distruzione degli ecosistemi naturali, terrestri e marini. Su questa stessa distruzione, strettamente collegata, fra l’altro, alla crescita esponenziale degli allevamenti intensivi, spesso concausa di pandemie globali, verteva l’azione non autorizzata diretta alla sede di Assocarni, una delle più importanti sigle del settore zootecnico nazionale.

L’azione è stata portata avanti da Animal Save Italia, Climate Save Movement Italia ed Extinction Rebellion, i cui attivisti mercoledì pomeriggio hanno invaso piazza di Spagna con un flash mob nonviolento.

Durante la manifestazione, fra le altre, è stata letta questa dichiarazione:

“Da anni Assocarni […] porta avanti una strategia comunicativa basata sulla minimizzazione dell’impatto del settore zootecnico sull’inquinamento ambientale e la crisi climatica globale […] Un’attitudine culminata nel corso di questo 2020 con una lettera indirizzata al direttore di Rai3, al presidente Rai Marcello Foa e al Ministro delle Politiche agricole Teresa Bellanova per segnalare e condannare il lavoro di informazione ed approfondimento portato avanti sulle reti televisive italiane da alcun* important* giornalist* come Sabrina Giannini, Sigfrido Ranucci e Mario Tozzi, colpevol*, a loro dire, di aver evidenziato il legame tra allevamenti intensivi, devastazione ambientale, riscaldamento globale e le ormai tristemente note pandemie di origine zoonotica”.

 

Secondo Extinction Rebellion, le grandi aziende inquinanti si sono macchiate in questi anni del crimine di ecocidio: secondo la definizione dell’avvocata visionaria Polly Higgins, l’ecocidio è un crimine contro la Terra e, di conseguenza, contro gli esseri umani e contro la pace.

L’ecocidio è la decimazione degli ecosistemi, dell’umanità e della vita. Il termine copre i danni diretti causati alla terra, al mare, alla flora e alla fauna all’interno degli ecosistemi colpiti nonché l’impatto che ne deriva sul clima.

L’ecocidio ha impatti negativi su più livelli: l’impatto non è solo ambientale, ma può essere culturale, psicologico ed emotivo ed interessare le comunità stesse, specialmente quando lo stile di vita di una comunità è profondamente connesso all’ecosistema colpito.

Molti attivisti di XR sostengono la campagna “Make Ecocide Law”, che mira a rendere l’ecocidio un crimine internazionale, perseguibile presso la Corte Penale Internazionale, alla stessa stregua dei crimini di guerra.

In Italia XR ravvisa fra le aziende che si sono maggiormente macchiate di ecocidio l’Ente Nazionale Idrocarburi: si tratta dell’ENI, davanti alla cui sede gli attivisti di XR si sono incatenati giovedì mattina, proseguendo il presidio in modo ininterrotto per ben 53 ore.

Gli attivisti incatenati ai cancelli dell’ENI all’EUR, e poi hanno mandato una lettera al Ministro dello Sviluppo Economico Stefano Patuanelli, al Ministro dell’Economia e delle Finanze Gualtieri e a Cassa Depositi e Prestiti, in quanto emanazioni del Governo che hanno una quota di partecipazione complessiva del 30,33% in ENI.

Gli attivisti, fra le altre cose, hanno dichiarato: “Non possiamo tacere di fronte all’inazione politica nei confronti della “svolta green” di Eni.

I nostri interlocutori non sono le aziende, che perseguono inevitabilmente un interesse privato a breve termine, ma coloro che si propongono di guidare la nostra società verso decisioni lungimiranti atte a garantire il benessere della cittadinanza. […].

 

Quando la magistratura assolve ENI dalle accuse di corruzione internazionale, assolve lo Stato italiano e lo legittima a proseguire sulla strada della violazione dei Diritti Umani con il braccio violento della legge di ENI e dei dittatori con cui ENI intrattiene rapporti torbidi.”

La mattina del giovedì due ragazzi sono stati portati via dalle Forze dell’Ordine per accertamenti, uno di loro era incatenato.

Altre 60 persone sono rimaste al presidio, pronte ad essere a loro volta portate via. Stese per terra, hanno cantato, suonato, comunicando fino alla fine il loro amore per la Terra e per la Vita che si sentono chiamati a proteggere. Da parte del Ministro dello Sviluppo Economico Stefano Patuanelli, che stavano aspettando, nessuna risposta.

Mentre il presidio continuava, anche un gruppo di medici e operatori sanitari, riuniti sotto la sigla “Doctors for XR” ha manifestato in modo forte e commovente di fronte alla sede del Ministero della Salute all’EUR.

Un die-in ha simboleggiato lo scenario di morte causato dall’aggravarsi della crisi ecologica e climatica. I medici hanno quindi letto la pubblica Dichiarazione di ribellione, di cui trascriviamo alcune accorate parole: “La scienza medica lo dice chiaramente: l’emergenza ecosistemica è un’emergenza sanitaria.

Le inondazioni e la siccità stanno colpendo sempre più esseri umani: stanno aumentando così la malnutrizione, la diffusione di malattie infettive in regioni in cui prima non esistevano, le malattie mentali causate dalla perdita di ciò che è più caro: la propria casa, il cibo da mettere sulla tavola, o la vita dei propri affetti.

La siccità presto non ci permetterà più di applicare le più basilari norme di igiene, di lavarci le mani frequentemente, non ci sarà più certezza di poter innaffiare il nostro cibo, lavare i nostri corpi e le nostre ferite con acqua pura. I nostri figli più piccoli, che hanno bisogno di più cure e attenzioni sono esposti a maggiori rischi per la sopravvivenza. […]”

 

Il presidio dell’ENI ha superato la notte, con il supporto del Team Benessere di XR, dedito a permettere ai ribelli incatenati di resistere all’addiaccio senza subire conseguenze sulla salute fisica e psicologica.

Nel pomeriggio di venerdi 9 il presidio è stato raggiunto da un corteo funebre organizzato da Animalsave Italia e Climatesave Italia, arrivati direttamente dallo Sciopero per il clima di Fridays For Future.

Sabato 11 ottobre, dopo 53 ore di presidio, gli attivisti hanno deciso di lasciare la sede dell’Eni.

“Avevamo chiesto al ministro Patuanelli, e poi anche al ministro Gualtieri di venire a incontrarci, almeno per ascoltare le nostre richiesta”, racconta un’attivista, “ma nessuno si è palesato.

Prendiamo atto che non si accetta un dialogo con cittadin*preoccupat* dalla più grande sfida che l’umanità si sia mai trovata ad affrontare, quella del collasso climatico ed ecologico. Gli interessi economici nei confronti di business ecocidi e avvelenati, come quelli che finanziano e incentivano Eni, superano la volontà di protezione dei cittadini che il Governo ha il mandato di tutelare e rappresentare.

Continuiamo a chiederci perché solo poche realtà mediatiche si siano interessate a un gruppo di più di 60 attivisti, di tutte le età e di tutte le regioni d’Italia, disposti a rinunciare a lavorare, a stare lontano da casa, a dormire su un marciapiede, e a subire denunce per questo.

Ce ne siamo andat* anche per una ragione strategica”, continua l’attivista. “Stare al presidio è stato forte e significativo, ci ha insegnato tantissimo, ma rimanere nell’indifferenza delle istituzioni chiamate in causa e dei principali media italiani significherebbe estenuarci, senza rispettare la nostra missione.”

Il sabato era prevista appunto una grande manifestazione diretta ai media, stampa e televisione, basata sulla prima richiesta di XR: Dire la Verità sulle crisi.

I circa 400 attivisti di XR presenti a Roma, compresi i 60 che hanno smobilitato il presidio, si sono dunque spostati nella piazza dell’Esquilino, per prendere parte alla performance de “La nuda verità”, dove attivist* e performer si sono rivolti direttamente ai media, usando i propri corpi come strumento di protesta: quasi interamente nudi, silenziosi e vulnerabili, come vulnerabili siamo tutti noi umani a questa svolta storica.

 

La ribellione si era ufficialmente conclusa domenica 11, tuttavia gli attivisti non hanno voluto lasciare intentata la via di rivolgersi direttamente ai Parlamentari, attuando l’azione che era prevista in apertura della ribellione: lunedì 12, in Piazza del Parlamento a Roma, attivist* di XR hanno espresso il loro dissenso attraverso un sit-in nonviolento di fronte al Parlamento, nel quale si è tenuto dalle 12 alle 21 il voto definitivo per il decreto “Sostegno e rilancio economia e salute”.

Gli 8 attivist* sedut* sui gradini del palazzo con striscioni e cartelli, sono stati spostati di peso dalle forze dell’ordine e hanno scandito le ore dedicate alla votazione intervenendo per spiegare per quali ragioni un tale decreto non solo non sia sufficiente ma addirittura vada contro ciò che da anni la scienza suggerisce di fare (o di non fare), reiterando l’impostazione “Business As Usual”.

Dopo la conclusione delle votazioni, mentre i vari deputati e deputate uscivano dal palazzo del Parlamento, i/le ribell* in piedi si sono rivolti verso di loro urlando a gran voce, ancora una volta, di non essere contro l’economia in assoluto, ma contro un’economia che uccide, che sfrutta, devasta e non tiene conto delle leggi dell’ecologia.

Le parole scandite  attraverso ”un megafono umano” risultano una conclusione coerente della settimana di Ribellione 2020:

 “Siamo disperati, ma non rassegnati! Continuiamo a lottare, perché lottare è l’unica cosa che ci può salvare. Non solo è necessario vivere diversamente ma è anche possibile: ciò non vuol dire rinunciare ai diritti fondamentali alla vita, al cibo, all’acqua, ad un tetto sotto cui ripararsi.

 

La comprensibile paura di perdere questi diritti inalienabili spinge a difendere un sistema che inevitabilmente e inesorabilmente ci sta conducendo verso l’estinzione.

Ma lo sgomento di fronte alla distruzione della biodiversità, la frustrazione nel vedere il nostro grido ignorato, l’incapacità della politica di dare il via ad un cambiamento sistemico devono spingerci a lottare per la vita con ancora più fermezza, perché senza un cambiamento che parta dalle basi della società e dall’ascolto della scienza, finiremo con il distruggere del tutto il fondamento della vita stessa.”

https://comune-info.net/non-ce-piu-tempo/

giovedì 22 ottobre 2020

Crisi climatica e disboscamenti, l’Amazzonia vicina a un punto di svolta: da foresta pluviale a savana - Angelo Romano

Se non ridurremo le emissioni, continueremo con interventi di disboscamento e non rallenteremo il riscaldamento globale, le foreste pluviali del pianeta potrebbero trasformarsi in savana aperta con ripercussioni a cascata sull’innalzamento delle temperature e altri fenomeni legati al cambiamento climatico. 

È quanto emerge da uno studio dello Stockholm Resilience Center pubblicato il 5 ottobre su Nature Communications. Secondo la ricerca, entro il 2100 fino al 40% dell’Amazzonia e parte delle foreste pluviali del Congo e dell’Australia potrebbero essere sul punto di perdere alberi e lasciare spazio a un mix di boschi e praterie. Le foreste pluviali sono molto sensibili ai cambiamenti delle precipitazioni e dei livelli di umidità e gli incendi e le siccità prolungate di questi ultimi anni potrebbero accelerare questa transizione che, una volta superato il suo punto di svolta, è difficile da fermare. Per quanto riguarda l’Amazzonia, si parlava da tempo di questa eventualità, ma si pensava che ci sarebbero voluti diversi decenni prima che diventasse uno scenario concreto.

a) Distribuzione delle aree stabili per le foreste pluviali (verde) e vulnerabili soggette alla trasformazione in savana (beige) tra il 2003 e il 2014 in Amazzonia, Africa e Australia e Asia; b) Distribuzione delle aree stabili per le foreste pluviali (verde) e vulnerabili soggette alla trasformazione in savana (beige) alla fine del XXI secolo (2071-2100) in Amazzonia, Africa e Australia e Asia.

«Le foreste pluviali hanno una grande influenza sulle precipitazioni. Le foglie emettono vapore acqueo che cade sotto forma di pioggia. La pioggia garantisce un minor numero di incendi e la crescita di ancora più foreste», ha spiegato al Guardian Arie Staal, autore principale della ricerca. «Le attuali condizioni più secche rendono più difficile la rigenerazione delle foreste e aumentano l'infiammabilità dell'ecosistema. Una volta che la foresta pluviale si è convertita in una savana, è improbabile che ritorni naturalmente al suo stato precedente». 

I ricercatori hanno simulato al computer l’intero processo di riduzione del “riciclo dell’umidità atmosferica” in quelle aree dove ci si può aspettare che ci siano delle foreste nelle regioni tropicali del pianeta, e hanno esaminato anche cosa potrebbe accadere nel caso in cui le emissioni di gas serra continuino ad aumentare, giungendo alla conclusione che buona parte dell’Amazzonia potrebbe diventare irrimediabilmente una savana.

«Con i nostri studi siamo riusciti a capire che le foreste pluviali di tutti i continenti sono molto sensibili ai cambiamenti globali e possono perdere rapidamente la loro capacità di adattamento. E dato che le foreste pluviali ospitano la maggior parte di tutte le specie globali, tutto questo potrebbe andare perduto per sempre», ha commentato Ingo Fetzer, coautore dello studio.

L’Amazzonia: la scena di un crimine ecologico

Già, lo scorso anno, quando l’Amazzonia era stata colpita da quelli che erano stati definiti gli incendi più intensi dell’ultimo decennio, scienziati del climaeconomisti e ambientalisti avevano ipotizzato che entro un paio di decenni la foresta pluviale si sarebbe depauperata e si sarebbe trasformata in savana. Gli incendi si sono ripetuti anche quest’anno, con un incremento del 60% rispetto al 2019.

Sotto accusa gli interessi di agricoltori, piccoli proprietari terrieri e disboscatori illegali che avevano appiccato il fuoco per ottenere terre da coltivare o dedicare al pascolo, sottraendole alle foreste, per far aumentare il valore dei terreni sequestrati o allontanare le popolazioni indigene che vivono nella foresta, e il Presidente del Brasile, Jair Bolsonaro, il cui governo ha ridotto gli sforzi per combattere il disboscamento illegale, l’estrazione mineraria e l’allevamento su terre sottratte alla foresta. 

Un’inchiesta di The Intercept aveva permesso di svelare un piano segreto del governo brasiliano di disboscamento della foresta per colonizzare l’Amazzonia attraverso la realizzazione di una centrale idroelettrica, la costruzione di un ponte sul Rio delle Amazzoni, l’estensione dell’autostrada BR-163 (che attraversa il Brasile dal Rio Grande do Sul fino allo Stato del Parà, a nord) fino al Suriname, lo spostamento di popolazioni non indigene di altre regioni del Brasile nell’entroterra settentrionale dell’Amazzonia, scarsamente popolato. 

Il piano di Bolsonaro arrivava dopo 8 anni (tra il 2004 e il 2012) in cui la deforestazione era diminuita del 70% grazie alla creazione di nuove aree protette, al monitoraggio dei disboscamenti illegali, alla sottrazione di crediti governativi a quei produttori rurali colti in flagrante mentre davano fuoco a terreni dove non era permesso farlo, salvo risalire dopo la recessione del 2014 sotto i governi guidati da Dilma Rousseff e Michel Temer, quando il paese è diventato maggiormente dipendente dalle materie prime agricole che produce (carne bovina e soia, motori della deforestazione: l'80% della soia prodotta in Brasile è destinata al mangime per gli animali, il resto per combustibile e alimentazione umana).

L’Amazzonia si sta configurando come la scena di un crimine ecologico, scrivono l’urbanista Bruno Carvalho e il climatologo Carlos Nobre.

Secondo uno studio pubblicato un paio di anni fa sulla rivista Science Advances, se i tassi di deforestazione sull’intero bacino supereranno il 20-25% dell’area forestale, il processo di savanizzazione sarà irreversibile. Attualmente, spiegano Carvalho e Nobre, circa il 17% delle foreste è stato già disboscato. Solo nell’Amazzonia brasiliana oltre 8mila chilometri quadrati di foresta saranno probabilmente distrutti entro la fine del 2020. Di questo passo, il punto di svolta potrebbe essere raggiunto entro 20-30 anni. Una stima in linea con la proiezione prefigurata dalla ricerca dello Stockholm Resilience Center. 

Gli effetti non ricadrebbero solo sul bacino della foresta: la grande regione agricola a sud dell’Amazzonia vedrebbe le sue temperature alzarsi; l’aria umida che soffia verso sud verrebbe ridotta, influenzando le precipitazione nel bacino del fiume La Plata nel sud-est del Sud America; la savanizzazione indurrebbe una massiccia perdita di diverse specie di piante e animali con danni devastanti per le comunità indigene e comporterebbe le emissioni di oltre 200 miliardi di tonnellate di carbonio e, contemporaneamente, una drastica riduzione dell’assorbimento dell’anidride carbonica da parte della foresta.

Infine, l’alterazione dell’attuale equilibrio ecologico potrebbe generare lo spillover (salto di specie) di virus, batteri e parassiti, con rischi ancora maggiori di future pandemie.

Una casa per l’uomo e la biodiversità

La strada per invertire la rotta è pensare un’economia centrata sulla foresta, che preservi la biodiversità e dia agli abitanti dell’Amazzonia i mezzi per potersi mantenere, coniugando strategie di sviluppo e di conservazione, spiegano Carvalho e Nobre. 

Si tratta di una visione in netta controtendenza con l’approccio che tratta la foresta esclusivamente come produttrice di materie prime per industrie con sede altrove e l’utilizzo delle sue risorse naturali per l’agricoltura, l’energia e l’estrazione mineraria che provoca rapidi cicli di degrado, proseguono i due studiosi. L’intera regione amazzonica, invece, va pensata come una casa per l’uomo e la biodiversità.

Ciò significa investire in colture sostenibili, come le noci del Brasile, il cacao e le bacche di açai, invece della soia e dell’allevamento, e assicurarsi che i profitti restino nelle comunità locali, veri guardiani della foresta. 

Alcuni processi di questo tipo sono già attivi. Le bacche di açai, ad esempio, generano oltre 1 miliardo di dollari all’anno (ndr, circa 850 milioni di euro) per l’economia amazzonica e hanno migliorato le condizioni di vita di oltre 300mila produttori della regione. A Belterra, nello Stato del Parà, in Brasile, è stato avviato un progetto che riunisce organizzazioni non governative, investitori, università pubbliche e Amabela, la locale Associazione femminile dei lavoratori rurali. L'idea è che questo gruppo produca cioccolatini artigianali utilizzando il cupuaçu, un frutto amazzonico. Il gruppo sta costruendo una "bio fabbrica" che prepari, lavori e confezioni i cioccolati, utilizzando anche stampanti tridimensionali per alimenti e cucine solari.

La tecnologia, inoltre, potrebbe correre in aiuto in altri modi. La Amazon Bank of Codes punta a utilizzare la tecnologia blockchain per mappare i genomi delle foreste da utilizzare nel settore farmaceutico e in altri settori assicurando così il pagamento delle royalty. Sebbene sia considerato l'ecosistema con maggiore biodiversità del pianeta, meno dell'1% del DNA della complessa vita nella giungla è stato completamente sequenziato dagli scienziati. 

«Se potessimo mappare e sequenziare il 100% della vita complessa sul pianeta, sbloccheremo una quantità gigantesca di nuove innovazioni e industrie che neanche immaginiamo», spiegava lo scorso anno al Financial Times Juan Carlos Castilla-Rubio, presidente di “Space Time Ventures”, una società tecnologica, con sede in Brasile, che lavora su biomassa, energia e rischio idrico. «Finora abbiamo sequenziato solo lo 0,28% della vita complessa sul pianeta. Ma la conoscenza di quello 0,28% è stata la base per molteplici settori (prodotti farmaceutici, chimici, carburanti) - e ha portato a un giro di soldi di almeno 4 miliardi di dollari l’anno».

In questo modo, concludono Carvalho e Nobre, creando una bioeconomia basata su una foresta permanente, preservando la biodiversità e migliorando i mezzi di sussistenza per le generazioni a venire, si potrebbe impedire di trasformare la foresta amazzonica in una savana, evitando conseguenze disastrose per l'ecosistema globale: distruggere l’Amazzonia significherebbe con molta probabilità rendere la Terra inabitabile.

da qui

mercoledì 21 ottobre 2020

Luciana Castellina e gli ambientalisti di Taranto "poco consapevoli" sull'ILVA - Alessandro Marescotti

Sull'ultima email che mi ha spedito Sbilanciamoci trovo un appello di Luciana Castellina a "connettere una rete di ong, associazioni, scienziati, professionisti di alto livello" per realizzare un "serio progetto ambientalista" per la riconversione ecologica dell'economia "indicando i tantissimi settori di nuova occupazione che dovranno svilupparsi come risultato del nuovo auspicabile modello di società per il quale ci battiamo".

L'obiettivo di questo appello è quello di, scrive Luciana Castellina, "aiutare il sindacato a sottrarsi dal terribile ricatto cui è sottoposto e sempre più lo sarà: quello imposto dalla inevitabile riduzione di occupazione che ogni serio progetto ambientalista è destinato a produrre". E sottolinea giustamente che "è compito di tutti noi sostenere le vittime del mutamento pur necessario a sottrarsi al ricatto e a passare da una perdente posizione difensiva all’offensiva".

Tutto giusto, tutto condivisibile.

Tranne, a mio parere, quando Luciana Castellina parla di "giustificata resistenza dei lavoratori (il “meglio morti per cancro che di fame” degli operai Italsider di Taranto) a chi – ambientalisti poco consapevoli – insistono per drastiche chiusure di stabilimenti senza preoccuparsi per le conseguenze sociali che possono derivarne”.

Giusto per precisare: la chiusura è stata chiesta non da "ambientalisti poco consapevoli" ma dalla magistratura sulla base di un'ordinanza di sequestro penale senza facoltà d'uso del luglio 2012, basata su due corpose perizie, una chimica e una epidemiologica, e in obbedienza alla legge e alla tutela della salute pubblica. I reati più gravi contestati sono "disastro ambientale", "avvelentamento delle sostanze alimentari" oltre alla "omissione dolosa di cautele per la sicurezza sul lavoro". Il processo ILVA è ancora in corso perché è un maxi-processo. Ha generato un terremoto anche nella sinistra e per questo se ne parla poco e di malavoglia.

Ho letto più volte quella frase, incredulo: “Meglio morti per cancro che di fame”. E' attribuita a "operai Italsider di Taranto" che non esistono più. Mi permetto di osservare che nessuno di loro è morto di fame. Tanti si sono invece ammalati di cancro.

Nelle 282 pagine della perizia epidemiologica depositata nel 2012 da Annibale Biggeri, Maria Triassi e Francesco Forastiere presso il Tribunale di Taranto, i numeri sono terribili. La perizia dedica una parte dell'analisi agli ex operai dello stabilimento siderurgico. L’analisi “dei lavoratori che hanno prestato servizio presso l’impianto siderurgico negli anni ’70-’90 – allora Italsider acquisita Gruppo Riva nel 1995 e denominata Ilva, ndr – con la qualifica di operaio ha mostrato un eccesso di mortalità per patologia tumorale (+11%), in particolare per tumore dello stomaco (+107), della pleura (+71%), della prostata (+50) e della vescica (+69%). Tra le malattie non tumorali sono risultate in eccesso le malattie neurologiche (+64%) e le malattie cardiache (+14%). I lavoratori con la qualifica di impiegato hanno presentato eccessi di mortalità per tumore della pleura (+135%) e dell’encefalo (+111%). Il quadro di compromissione dello stato di salute degli operai della industria siderurgica è confermato dall’analisi dei ricoveri ospedalieri con eccessi di ricoveri per cause tumorali, cardiovascolari e respiratorie”. Tutte parole scritte dai periti.

Questo stralcio della perizia che ho riportato dovrebbe far riflettere su quanta leggerezza, irresponsabilità e ignoranza c'è in chi pronuncia e rilancia la rozza e insensata frase: “Meglio morti per cancro che di fame”. Che mi fa pensare a “meglio schiavi che morti di fame”. Con questa logica Spartaco non sarebbe esistito. E neanche Marx. Perché se manca il valore supremo della difesa della propria dignità, cade qualunque senso della lotta per un futuro migliore. Si vende la propria vita. Anzi, la si svende. E così dicendo la classe operaia, invece di diventare il soggetto che, liberando se stessa, libera la società intera, diventa una corporazione che non libera né se stessa né la società intera. La fabbrica diventa la fabbrica lager di Luigi Nono, in cui si barattano salari in cambio di una riduzione della speranza di vita. Denaro in cambio di morte. La plastica raffigurazione dell'alienazione operaia, descritta da Marx nei suoi Manoscritti economico-filosofici.

Qualcuno doveva dirle queste cose, e me ne assumo la responsabilità: la classe operaia a Taranto non ha fatto in passato un solo sciopero per l'ambiente e la salute. Questo è il dramma. E i bambini di Taranto ne hanno pagato in qualche modo le conseguenze: +54% di tumori rispetto al dato regionale. Ne hanno pagato le conseguenze anche con una riduzione del quoziente di intelligenza: 10-15 punti di QI in meno per i bambini sotto i camini rispetto ai meno esposti. E anche le loro mamme ne hanno pagato le conseguenze ritrovandosi con la diossina nel latte materno e il naftalene nelle urine. Ne hanno pagato le conseguenze economiche gli allevatori, con pecore e capre che bioaccumulavano diossina, e i mitilicoltori, che hanno visto distrutte le loro cozze, zeppe di diossina. Certo la colpa è sempre dei padroni, come si diceva una volta, e non degli operai. Ma gli scioperi per tutelare la salute e l'ambiente li dovevano fare gli operai, e non i padroni. E non sono stati fatti. Questa è la scomoda verità.

l'altra scomoda verità è la scoperta della diossina a Taranto e in Italia, finché non lo abbiamo fatto noi, i "poco consapevoli". Eppure Taranto era la principale fonte di diossina in Italia (90,3%) e nella civile Europa (8,8%). La cosa incredibile è che questo dato l'abbiamo scoperto - mentre i pensatoi della sinistra e del mondo ambientalista mainstream erano accupati a fare altro - sul database europeo Eper degli inquinanti, che era pubblico. Che ci fosse una abnorne sorgente di diossina a Taranto è un dato che fu pubblicato su PeaceLink nel 2005, mentre tutta la sinistra e tutto il movimento ambientalista - da Legambiente a Greenpeace - lo ignorava completamente. Mi sembra una cosa così assurda che è imbarazzante perfino da raccontare.

E allora parlare di "ambientalisti poco consapevoli", in un appello lanciato per di più da una compagna intelligente e stimata come Luciana Castellina, mi sembra veramente stonato. Anche perché quegli ambientalisti "poco consapevoli" hanno prodotto sulla riconversione dell'ILVA più ricerche e più proposte di quante non ne abbiano prodotte quelli "consapevoli". Ma probabilmente chi lancia appelli non ha il tempo di leggere tutto.

In fabbrica a Taranto la consapevolezza è stata talmente limitata che non ricordo - sarà un mio limite - nessuna lotta seria di applicazione nell'ILVA dei diritti alla salute dei lavoratori sanciti dalla 626 del 1994, che riservava una parte importante agli agenti cancerogeni. Si sono fatte invece le lotte per i "benefici amianto" (un ossimoro sindacale che ho visto campeggiare in comunicati, volantini e manifesti).

A Taranto i lavoratori che morivano di cancro rendevano ricchi mogli e figli che incassavano i risarcimenti, e rimanevano in silenzio pur di non ingaggiare controversie legali con l'azienda. 

E si è andati avanti così senza esercitare i diritti, senza neppure conoscerli e studiarli. Perché se quei diritti fossero stati esercitati appieno, con reale conoscenza e consapevolezza, il disastro sanitario fra i lavoratori e i cittadini non sarebbe arrivato al punto in cui è arrivato.

Un'altra scomoda verità è che è stata la magistratura e non il sindacato o la sinistra a decretare la fine di Emilio Riva, che ha concluso i suoi giorni agli arresti domiciliari.

Un giorno portai i giornalisti di Report a intervistare un operaio ILVA, malato di cancro. Era stato iscritto alla FIOM. Gli chiesi se nel consiglio di fabbrica avessero letto la 626 nella parte sugli agenti cancerogeni. E lui mi rispose: "Era troppo lunga e non arrivanno a quel punto".

Mi stupisco che a leggerla fino a quel punto non siano stati coloro che - nel sindacato, nella sinistra - aveva il dovere, anche morale, di farlo. Sono stati lasciati soli questi operai.

Quell'operaio ci disse alla fine dell'intervista: "Se avessi saputo tutto questo, avrei preferito vendere le melanzane".

Il cokeria, in otto ore di lavoro, gli operai negli anni Novanta hanno respirato una quantità di benzo(a)pirene cancerogeno equivalente anche a 7.000 sigarette per turno. E ad oggi nessuno - tranne gli ambientalisti "poco consapevoli" - ha chiesto di fare un'indagine epidemiologica mirata sugli operai della cokeria. Se siano a casa con i loro nipotini o nel cimitero San Brunone non sembra interessare nessuno fra i "consapevoli". C'è un buco terribile di conoscenza, eppure su dispone di tutte le cartelle sanitarie dei lavoratori dagli anni Sessanta a oggi. Un patrimonio di dati incredibile. Ma sono in uno scantinato a marcire.

E' un passato che si preferisce tenere nell'ombra, fa paura, ci sono le responsabilità di tutti, è una stanza buia degli orrori, che dever rimanere chiusa.

I "consapevoli" hanno dimenticato. Ma io ricordo Luigi Nono e il suo grido di dolore nella sua opera "La fabbrica illuminata". Riferita all'Italsider.

La fabbrica a Taranto, come a Genova, è stata esattamente quella descritta nell'opera di Luigi Nono, luogo della perdita dell'umanità.

Si è consentito che la fabbrica fosse un luogo corporativo di scambio fra stipendi e danno sanitario, un luogo della manipolazione psicologica in cui veniva esercitato un ricatto esistenziale tale da far rinunciare ai valori più alti che dovrebbero portare alla liberazione di tutti.

Dalla fabbrica a Taranto non è mai partito alcun progetto di riscatto e di trasformazione, men che meno di liberazione sociale. Chi scrive ha fatto parte del movimento che doveva cambiare la società, con tanto di tessera alla sezione Togliatti del PCI. In sezione c'erano operai e non ho mai sentito parlare di salute in fabbrica e di tutela dell'ambiente. E noi, che dovevamo essere gli intellettuali di una società nuova, eravamo infarciti di una cultura ideologica che non sapeva riconoscere le sostanze cancerogene che invece stavano studiando Giulio Maccacaro e Lorenzo Tomatis. 

Queste cose dobbiamo dircele perché pensano come un macigno sulla nostra coscienza.

Purtroppo gli operai, che dovevano essere le sentinelle avanzate per proteggere la salute dei bambini, sono stati i carnefici di se stessi. E li abbiamo lasciati soli, senza la cosa più preziosa: la conoscenza. Loro - mentre noi discutevamo appassionatamente se fra "marxismo" e "leninismo" ci dovesse essere il trattino o no - hanno camminato sulle polveri rosa, pregne di diossina, senza neppure saperlo. E adesso quelle polveri hanno contaminato tutto il territorio. Ma la scoperta della diossina a Taranto l'hanno fatta proprio i "poco consapevoli" mentre i "consapevoli" hanno vissuto senza neppure saperlo. E senza mai parlarne nei giornali nazionali.

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