sabato 30 novembre 2019

Ecco come e perché Google raccoglie tutti i nostri dati sanitari - Sidney Fussell



L’estate dopo l’università, sono ritornato a casa per occuparmi di mio nonno vedovo. Parte del mio lavoro consisteva nel gestire i suoi medicinali. A ottant’anni , stava cominciando a essere a rischio caduta e spesso si lamentava di essere intontito dai farmaci che gli erano stati prescritti. Ma riuscire a parlare con qualcuno al telefono era faticosissimo, e le leggi sulla privacy impedivano ai dipendenti dei numeri verdi farmaceutici di rispondere ad alcune delle mie domande sugli effetti collaterali.
E così ho chiesto a Google. Seduto davanti al mio computer portatile digitavo nella barra di ricerca parole incomprensibili, come metocarbamolo o meloxicam, insieme ai miei interrogativi. Provoca giramenti di testa? Si può assumere a stomaco vuoto? Si può mescolare con altre medicine? Che ne è di caffeina o alcol? Avevo 24 anni, ero sopraffatto e usavo un motore di ricerca come comitato medico per avere consigli d’emergenza.
Nei sei anni trascorsi da allora, Google è passata dall’essere un semplice libro di consultazione digitale a un attore multimiliardario del settore sanitario, con il potenziale di mettere insieme dati medici e di ricerca in una miriade di nuovi e inquietanti modi. Il 1 novembre ha annunciato l’acquisizione, per 2,1 miliardi di dollari, dell’azienda produttrice di rilevatori indossabili Fitbit. E così, all’improvviso, la società che aveva registrato tutte le nostre ricerche notturne su farmaci e sintomi poteva potenzialmente accedere ai nostri battiti cardiaci e contapassi. Gli utenti hanno immediatamente espresso la loro preoccupazione sul fatto che Google combini dati sulla salute con la notevole massa d’informazioni che conserva a proposito dei suoi utenti.
Vuoto normativo
Google ha assicurato ai suoi critici che seguirà tutte le relative leggi sulla privacy, ma la discussione sul rispetto della normativa non ha fatto altro che distrarre l’attenzione pubblica dallo strano futuro che va delineandosi. Nel suo avventurarsi sempre di più nel campo della sanità, Google sta ammassando una grande quantità di dati sulle nostre abitudini d’acquisto, sui farmaci che usiamo e su dove viviamo, e ci sono poche norme a regolamentare il modo in cui usa questi dati.
L’acquisizione di Fitbit appare poca cosa rispetto alla notizia dell’ultima impresa dell’azienda. The Wall Street Journal ha riferito che Google avrebbe segretamente raccolto “decine di milioni” di cartelle cliniche – con tanto di nomi di pazienti, risultati di laboratorio, diagnosi, ricoveri e prescrizioni di farmaci – provenienti da oltre 2.600 ospedali, nel quadro di un progetto di apprendimento automatico dal nome in codice di Nightingale. Citando alcuni documenti interni, il quotidiano ha affermato che Google, in collaborazione con Ascension, un fornitore di servizi sanitari attivo in venti stati, stava progettando di costruire uno strumento di ricerca per i professionisti medici che utilizzerebbe algoritmi elaborati grazie all’apprendimento automatico per processare dati e fornire suggerimenti su prescrizioni, diagnosi e perfino i nomi dei medici a cui un paziente dovrebbe, o non dovrebbe più, rivolgersi.
Né i pazienti coinvolti né i dottori di Ascension erano stati informati del progetto, riferisce il Wall Street Journal. Ma anche in questo caso tutte le parti coinvolte hanno affermato che il progetto non viola le disposizione contenute nell’Hipaa (Health insurance portability and accountability act), il pacchetto di normative sulla privacy che protegge i dati dei pazienti. A una mia richiesta di chiarimenti, sia Google sia Ascension hanno fatto riferimento ai recenti post sull’argomento pubblicati sui loro blog. “Tutto il lavoro di Google con Ascension rispetta tutte le normative del settore (Hipaa compreso) a proposito dei dati dei pazienti, ed è sottoposto a una stretta sorveglianza per quanto riguarda la privacy, la sicurezza e l’uso dei dati”, è scritto nel post di Google.
Il ministero per la salute (Hhs) degli Stati Uniti sta valutando la legalità dell’accordo. Secondo l’interpretazione di Google, l’azienda è semplicemente un “partner d’impresa” che aiuta Ascension a fornire i propri servizi, e deve quindi essere sottoposta a un controllo diverso rispetto a un vero e proprio fornitore di servizi sanitari. Ma se l’Hhs valuterà che Google e la sua gestione d’informazioni private sono effettivamente qualcosa di più vicino alle attività di un fornitore di assistenza sanitaria (visto il suo accesso a informazioni sensibili provenienti da più fonti, per le quali è richiesto il consenso dei pazienti), potrebbe rilevare che Google e Ascension stanno violando la legge e rinviare la questione al ministero della giustizia per un’eventuale azione penale.
Inquietante ma legale
Ma al di là del fatto che l’accordo sia convalidato o meno dalla legge, la sua semplice esistenza suggerisce più in generale l’insufficienza delle leggi sulla privacy sanitaria, scritte molto prima che i giganti tecnologici cominciassero a investire miliardi per rivoluzionare l’assistenza sanitaria.
“Esiste un ampio consenso sul fatto che l’Hipaa sia superato, e ci sono attualmente tentativi di aggiornarlo al ventunesimo secolo”, spiega Kirste Ostherr, cofondatrice e direttrice dei laboratori Medical futures presso la Rice university. L’Hipaa è diventato legge nel 1996, molti anni prima che Google sapesse che eri incinta o potesse calcolare con un algoritmo le tue possibilità di suicidio. “L’uso delle informazione personali è cambiato rispetto agli anni novanta, quando buona parte del mondo tecnologico non esisteva neppure”. Al giorno d’oggi il comportamento digitale è già utilizzato per determinare conseguenze nel mondo reale di ogni tipo. Google e Facebook possono desumere il tuo stato emotivo e prevedere le tue possibilità di depressione in base al tuo comportamento.
I filmati caricati su YouTube sui bambini sono stati usati per la ricerca scientifica sul potenziale dell’intelligenza artificiale nella diagnosi dell’autismo. Le compagnie di assicurazioni usano i post sui social media per determinare il prezzo dell’assicurazione. Per anni le istituzioni che concedono prestiti hanno fatto lo stesso per valutare l’affidabilità creditizia. È inquietante. Ma è anche legale.
Google sostiene di non combinare i dati dei suoi utenti con i dati dei pazienti di Ascension. Ma resta il fatto che i dati già oggi in suo possesso su tutti i suoi utenti sono terribilmente rivelatori. Il tuo indirizzo ip contiene informazioni su dove vivi, che a loro volta sono legate a determinanti sociali della salute, quali reddito, impiego e origine etnica. Espressioni di ricerca come “centro distribuzione cibo più vicino” o “test hiv più vicino” possono fornire ulteriori indizi su livelli di reddito, orientamento sessuale, e così via.“L’Hipaa ha degli standard di riservatezza estremamente bassi”, spiega Travis Good, specialista della privacy e medico. “Nessuno di questi dati, che tu stia cercando delle cliniche per le malattie trasmesse sessualmente, la pillola del giorno dopo o un dermatologo, è in alcun modo contemplato dall’Hipaa”.
Leggi europee violate
Da una recente inchiesta del Financial Times, effettuata in collaborazione con l’università Carnegie Mellon, emerge che Google, Amazon e Microsoft raccolgono dati inseriti in popolari siti sanitari e di diagnosi. Il servizio pubblicitario di Google, DoubleClick, riceve nomi di prescrizioni da Drugs.com, per esempio, mentre il verificatore di sintomi di WebMd condivide informazioni con Facebook. I dati non sono resi anonimi e gli esperti legali intervistati sostengono che la loro raccolta potrebbe violare il diritto sulla privacy dell’Unione europea.
La semplice esistenza in rete – i siti a cui si accede, i luoghi dai quali si accede, le pubblicità su cui si clicca – fornisce a Google quel genere di conoscenza olistica, approfondita e aggiornata sullo stato di salute degli utenti perlopiù inimmaginabile un decennio fa.
 “L’obiettivo, o la speranza, è che man mano che saranno raccolte sempre più informazioni, e quando saremo in grado di combinare diversi set di dati, saremo in grado d’immaginare dei percorsi di assistenza e in seguito di cura assolutamente su misura”, dice Good. “Quindi non si tratta solo di dire, hai 35 anni e un cancro al pancreas. Semmai la questione è: hai 35 anni, hai il cancro al pancreas, ecco la tua storia clinica, quella della tua famiglia e i tratti genetici per l’oncologia, ed ecco il percorso di assistenza pensato apposta per te”.
Creare cure mediche su misura per un numero infinito di pazienti, su larga scala, richiede un’immensa quantità di dati la cui precisione e imparzialità va sperimentata, e che devono essere standardizzati, rapidamente trattati e resi sufficientemente comprensibili da far sì che i medici possano capirli e consultarsi a vicenda per determinare la migliore assistenza da fornire a un paziente. È questa la specialità di Google. Non ha bisogno del tuo consenso. Ha già i tuoi dati.

(Traduzione di Federico Ferrone)
Questo articolo è uscito su The Atlantic. Leggi la versione originale. © 2019. Tutti i diritti riservati. Distribuito da Tribune Content Agency.


venerdì 29 novembre 2019

Il buon pastore – Roberto Saviano


Trovo questa notizia sui giornali data come una delle notizie dell'Italia minore: dopo la politica, dopo gli esteri, dopo gli editoriali e i dibattiti. In realtà mi rendo conto che è la notizia più importante del giorno. Eppure non è stata data come tale. È la storia di Walter Bevilacqua, un pastore. So poco di lui se non quel che raccontano le sue sorelle e che qualche cronista ha riportato. C'è la sua foto: un po' apostolico, barba lunga, stempiato, sguardo malinconico. Sembra un soggetto di de Ribera, lo Spagnoletto.

Walter Bevilacqua era un pastore in Val d'Ossola che ha vissuto tutta la sua vita allevando animali con i suoi cicli: l'alba, la notte, la primavera, l'inverno a decretare le logiche con cui vivere. Si ammala ai reni e inizia un calvario di dialisi, ma continua a lavorare. La sua unica salvezza è un trapianto perché le cose vanno sempre peggio. E un giorno arriva questa possibilità: arrivano i reni per lui. Ma quello che fa quest'uomo è rinunciarvi. Rinuncia ai reni perché non ha famiglia. Ha 68 anni e non ha figli. Vuole lasciarli a persone che hanno bambini, che hanno una famiglia, che sono più giovani.

BEVILACQUA SCEGLIE LA VITA e la morte per sé. E lo fa con la scelta di chi conosce le regole della natura, di chi ha visto queste regole: gli agnelli che nascono, il vecchio montone che si fa da parte quando non può dare più vita. Regole spietate e chiare della natura, che però lui affronta con coraggio poetico: quello della rinuncia, che forse la natura non conosce come scelta ma solo come istinto, dovere. Lui invece quella rinuncia la sceglie. In queste ore di dibattito elettorale sulla famiglia, Walter Bevilacqua è un uomo che con il suo gesto ha dato la definizione che più mi piace di famiglia. In realtà non ha pronunciato nessuna parola in tal senso. Ha solo agito e la sua azione non avrebbe fatto notizia se non l'avesse data il parroco del suo paese.

Walter ha dato la migliore definizione di famiglia perché si è fatto da parte perché la vita continuasse: per la vita, per far vivere meglio chi costruisce vita. Questa è la definizione di famiglia che forse più mi piace. Uomo-donna, donna-donna, uomo-uomo, single con figli, risposati, famiglie allargate: gruppo di persone che allevano la vita. Senza una codificazione precisa.

IL SUO GESTO l'ho voluto leggere così: mentre tutti cercano di codificare il bene per il bambino, il bene per la famiglia, c'è stato un pastore che si è fatto da parte senza neanche sapere a chi andassero i reni che erano per lui. Si è fatto da parte e basta in nome della vita. Non la sua quella di bambini che non conosce e non vedrà e che non sapranno mai chi ha permesso al loro padre o alla loro madre di vivere.

Quando la scelta individuale diventa coraggio per chi osserva questo coraggio; diventa motivo di comprensione. Io ho compreso attraverso la morte di quest'uomo, che rinuncia al trapianto pur sapendo di morire, quanto si possa amare l'esistenza del vivere al punto tale di riconoscere la propria vita già abbastanza, già con un cammino importante fatto. Un ragionamento coraggioso e profondo come solo un pastore poteva fare. Walter Bevilacqua mi ha insegnato qualcosa che ancora non avevo conosciuto e che forse ancora non ho compreso sino in fondo.
28 gennaio 2013

da qui

giovedì 28 novembre 2019

Quale futuro vogliamo per il cibo – Navdanya International




 “Qual è il futuro del cibo?” Gli autori del rapporto “Il Futuro del cibo – Biodiversità e agroecologia per un’alimentazione sana e sostenibile”, curato da Navdanya International e scaricabile on line gratuitamente, analizzano l’andamento del sistema produttivo globale, illustrando i disastrosi effetti che gli investimenti delle grandi società agroindustriali hanno sulla terra, i suoli, la biodiversità, la salute umana e sui piccoli e medi produttori agricoli. Il cambiamento necessario è, però, già iniziato. Il rapporto analizza, attraverso casestudies globali, le alternative che nascono sul territorio, dal “basso all’alto”, e che attendono solo di essere valorizzate e promosse a livello sistemico.
Fra gli autori del rapporto Vandana Shiva, presidente di Navdanya International, che esamina i due percorsi che i sistemi agricoli si trovano di fronte: da un lato il percorso della vita che include il principio della diversità, la legge del ritorno alla terra e la condivisione dei frutti; dall’altro il percorso della morte, intrapreso dal Cartello dei Veleni e basato sull’uso estensivo di fertilizzanti e pesticidi chimici di sintesi, ogm, monocolture e grandi banche dati, che conduce alla creazione di cibo artificiale (Fake Food) e conoscenza artificiale non in grado di autosostenersi. L’autrice invoca la decolonizzazione delle culture alimentari e la fine dell’era dell’imperialismo alimentare: “Vogliamo lavorare – ha sottolineato l’ambientalista indiana –  in armonia con le leggi della natura o continuare ancora con la violenza contro la terra per mangiare cibo prodotto in laboratorio e da un’agricoltura sempre più artificiale? Noi vogliamo un cibo proveniente da un’agricoltura che si prende cura della terra, che porta con sé la soluzione alla crisi ecologica, climatica e sanitaria”.
Un’analisi suffragata dalla ricerca di Nadia El-Hage Scialabba, esperta di ecologia alimentare con 30 anni di esperienza alla Fao e membro della Commissione sul futuro del cibo e dell’agricoltura, che delinea le delusioni, le false promesse e gli attacchi dell’agricoltura industriale, dalla prima rivoluzione verde fino ai rinnovati tentativi di imporre il modello industriale in diverse forme. L’autrice fa riferimento al reale stato dell’agricoltura biologica, di come essa si collochi nel panorama socio-politico attuale, del sostegno di cui gode da parte di importanti istituzioni internazionali. Sull’altro versante, quello dell’agribusiness, troviamo invece le tattiche di cui si serve l’industria per togliere credibilità alla scienza indipendente e disincentivare il cambiamento verso un modello agro-alimentare ecologico e sostenibile. Un vero attacco nei confronti della piccola e media produzione sostenibile che vede la lobby industriale al lavoro anche in Italia come dimostrano i recenti attacchi alle iniziative del ministro Fioramonti, che intende disincentivare la presenza di cibo spazzatura nelle scuole e promuovere l’educazione ambientale.

L’educazione e la promozione di un’alimentazione sana è, d’altra parte, essenziale sia per la nostra salute sia per ridurre le emissioni climalteranti di cui l’agricoltura industriale è fra i principali responsabili, come rileva il genetista Salvatore Ceccarelli che enfatizza il valore delle sementi tradizionali, le quali, attraverso l’incrocio naturale e una selezione oculata e partecipata da parte di agronomi e contadini, sono capaci di adattarsi ai cambiamenti climatici e geografici nel corso del tempo e di evolvere adattabilità e resilienza.
Il rapporto presenta vari case studies da cui si evincono le difficoltà dei piccoli produttori biologici nei territori dominati dalle monocolture intensive. E’ il caso delle aziende biologiche del Trentino Alto Adige, dove i coltivatori biologici sono quotidianamente minacciati dai fenomeni di deriva provocati dai trattamenti chimici a cui sono regolarmente sottoposte le adiacenti monocolture intensive di mele. Un focus particolare riguarda il caso di Malles, il primo comune ad avere indetto un referendum contro i pesticidi.  La situazione è drammatica, ma non si può perdere la speranza per una trasformazione radicale, verso un futuro del cibo e dell’agricoltura sostenibili. Sono numerosi gli esempi virtuosi. Primo fra tutti lo Stato indiano del Sikkim, che è riuscito a convertire al biologico il 100% della propria produzione agricola, incontrando diverse resistenze da parte dell’opposizione e dagli stessi agricoltori, ma proseguendo con determinazione un progetto politico durato 25 anni.
Poi ci sono le numerose piccole realtà e amministrazioni locali che, attraverso scelte sostenibili e azioni di resistenza, promuovono e attuano un sistema produttivo resiliente e salutare. In Italia 70 comuni hanno già implementato misure per limitare o bandire l’uso di pesticidi; in Francia 56 comuni hanno ispirato anche le aree metropolitane a bandire l’uso dei pesticidi contenenti glifosato; nelle Filippine 200 comuni hanno firmato accordi per preservare i suoli e vietare l’uso di prodotti agrochimici tossici e, dal 2017, la Lega dei comuni e delle città Biologiche nelle Filippine ha una decisiva influenza nei processi decisionali istituzionali. In Argentina i movimenti della società civile hanno messo in atto numerose proteste per osteggiare i brevetti della Monsanto sulle sementi, mentre, in Brasile, i produttori biologici che praticano l’agroecologia resistono quotidianamente alle minacce e violenze del settore agricolo industriale che fa uso estensivo di sementi transgeniche e pesticidi (solo nel 2017 sono stati usati più di 539,9 mila tonnellate di principi attivi di pesticidi). In Costa Rica, gli agricoltori biologici lavorano in armonia con la biodiversità tropicale che però è continuamente sottoposta a rischio di scomparsa a causa dell’estensione dei deserti verdi delle monocolture. In Nigeria, i movimenti della società civile denunciano le carenze delle istituzioni locali e nazionali nel contrastare l’espansione del modello agricolo industriale e l’approvazione degli Ogm.

Nel rapporto vengono descritti altri esempi di piccole realtà virtuose che lavorano con Navdanya International, come “Bread of Freedom” nelle Filippine volto a fornire educazione sulle pratiche ecologiche e sostenibili che hanno un impatto positivo sulla salute delle persone; “Yayasan Emas Hitam Indonesia”, un’organizzazione che pratica permacultura in Indonesia e che mira a promuovere, sostenere e sviluppare soluzioni rigenerative alla povertà e allo sviluppo in tutto il territorio; “GMO & Poison Free Zones” l’iniziativa avviata da attivisti e agricoltori preoccupati per l’alto livello di contaminazione da Ogm e agrochimici in Sudafrica per creare “zone libere da ogm e veleni” e fare pressioni perché le norme che regolano il Limite Massimo di Residuo (LMR) in Sudafrica diventino più rigorose; “Círculos de Sementes” in Portogallo che ha risposto nel 2012 al primo appello globale per la libertà dei semi lanciato da Navdanya e da lì ha creato una rete nazionale di “Circoli dei Semi”, oltre a un programma educativo di agroecologia; “Peliti”, un’organizzazione non governativa greca che si occupa della protezione e diffusione dei semi tradizionali che vanta una grande rete nazionale di banche dei semi e, dal 2011, ogni anno, insieme a Navdanya, organizza uno tra i più grandi e conosciuti Festival Internazionali dei semi.
Dal locale al globale, ci sono numerosissime declinazioni di soluzioni creative possibili, che però hanno anche bisogno di sostenersi a vicenda, di fare rete, oltre che di un supporto concreto da parte delle istituzioni, delle amministrazioni locali, dei cittadini/consumatori e delle aziende produttrici. Ne sono un esempio: la rete dei movimenti e agricoltori del nord est degli Stati Uniti radunata dallo Sterling College (USA) in occasione del tour di Navdanya International del maggio 2019, e gli studenti delle Università della California che hanno raggiunto l’obiettivo di far bandire l’uso degli erbicidi chimici in tutte le aree verdi dei campus dello Stato.

mercoledì 27 novembre 2019

Ribellarsi al cibo spazzatura - Antonio Lupo




L’articolo 82 della Legge di Bilancio 2020 prevede l’ormai nota imposta sul consumo delle bevande edulcorate, cioè quelle zuccherate. È bene che l’iniziativa sia stata fortemente voluta dal ministro dell’Istruzione Lorenzo Fioramonti, male che non sia partita dal ministro della Salute, dato che le bevande zuccherate, insieme a merendine, snack e patatine fritte sono classificate come “cibo spazzatura”.
Quella definizione (e anche il corrispondente inglese junk food) è ancora scarsamente usata in Italia ma non riguarda l’igiene, “la pulizia” del prodotto. La definizione fu coniata nel 1972 da Michael Jacobson, direttore del Center for Science in the Public Interest di Washington e si riferisce a qualsiasi alimento o bevanda ad alto contenuto calorico, ma di scarso valore nutrizionale. Non a caso la definizione è nata negli Stati uniti, dove il 65 per cento della popolazione è soprappeso e la percentuale di obesi raggiunge il 32 per cento, il cibo spazzatura è infatti la prima causa di sovrappeso e obesità, soprattutto infantile, cioè di una grave “malattia di classe”, dato che colpisce prima di tutto i più poveri, che consumano questo cibo a basso costo. Intanto anche in Italia i dati sono più che allarmanti: un bambino su tre è obeso o sovrappeso, in maggioranza nel Centro e nel Sud.
È stata invece derisa e poi tolta dalla Legge di Bilancio 2020 la tassa sulle merendine e snack, anch’essa proposta da Fioramonti, una tassa che secondo l’autorevolissima rivista medica inglese British Medical Journal, porterebbe a risultati doppi, nel ridurre l’obesità, rispetto alla sugar tax.
In Italia si usano ormai comunemente termini inglesi per falso desiderio di modernità e subalternità culturale, ma soprattutto da parte dei media mainstream, per non far capire la realtà delle cose.
Distributori di cibo spazzatura (merendine, snack e bibite gassate) sono presenti in Italia nelle scuole e negli ospedali.
In tutti i supermercati, davanti alle casse e ad altezza bambino, sono collocate merendine e snack
, in modo da essere acchiappate dai piccoli, con strilli se i genitori non le comprano. Per queste ragioni è fondamentale organizzare una campagna di boicottaggio, pretendendo che si eliminino i distributori negli ospedali e nelle scuole e dagli scaffali dei supermercati, in primis quelli alle casse.
Mi auguro che anche i giovani di FridayforFuture comprendano l’importanza del problema e denuncino il cibo spazzatura, poiché i giovani obesi sono degli invalidi, che di certo non riusciranno a lottare per il loro Futuro.


lunedì 25 novembre 2019

Il viaggio prima del viaggio - Annamaria Testa (1)



Sono stata lontana dalle pagine di Internazionale per qualche mese, ma rieccomi.
Di solito non scrivo di questioni personali, ma stavolta, e per dirvi dove sono stata e che cosa sto andando a raccontarvi, devo fare un’eccezione.
Dunque. Dopo aver trascorso negli Stati Uniti gli ultimi due anni del liceo e i quattro d’università, a maggio di quest’anno mio figlio si è laureato (una double major in economia e psicologia), magna cum laude.
Allora mi sono detta che dovevo fargli un regalo che fosse importante sia per quello che è, sia per quello che significa. E che fosse dotato di un forte valore affettivo, al di là del valore materiale. Un regalo per sempre, impossibile da rovinare, da perdere o da rubare.
Così, gli ho proposto di fare il giro del mondo, insieme.
Per me, un viaggio così è un’occasione per rivedere alcuni luoghi che ho visitato tanto o tantissimo tempo fa e per capire le differenze: non solo i luoghi cambiano, ma anche il mio modo di viaggiare e il mio sguardo.
Forse proprio perché è stato lontano così a lungo, e ormai non ha più alcun bisogno di attestare la propria indipendenza da mammà, mio figlio ha accettato. Del resto, abbiamo già fatto diversi viaggi e siamo una buona squadra.
Di solito io mi faccio carico dell’organizzazione preliminare e degli itinerari, lui dell’orientamento sul territorio, della guida e, poiché parla inglese e spagnolo meglio di me, delle negoziazioni: un’equa divisione dei compiti, con il patto implicito che tutte le scelte devono essere collegiali e che, in viaggio, “uno vale uno”. Ma sul serio.
Forse avete già sentito parlare dei biglietti aerei Rtw (Round the world): hanno un costo complessivo assai inferiore al costo delle singole tratte, a fronte di alcuni vincoli. Per esempio: di norma durano fino a un anno e permettono di fare anche molte soste, a patto però di andare sempre nella stessa direzione e di prenotare in anticipo tutte le tratte. Ci sono tre diverse grandi alleanze di compagnie aree che offrono biglietti Rtw. Ci sono anche altre soluzioni (per trovarle basta una rapida ricerca in rete) ma queste sono le più note.
Dunque, per organizzare un giro del mondo, e specie se si ha a disposizione un tempo ragionevole ma comunque limitato, bisogna avere le idee chiare e prendere una serie di decisioni, ciascuna delle quali ne esclude altre e orienta le decisioni successive. È un “viaggio prima del viaggio”. Ve ne parlo ora, sperando che vi sembrerà interessante e – chissà – utile.
La prima decisione riguarda, ovviamente, il periodo del viaggio: il nostro comincia ai primi di agosto e termina a fine settembre. Questo ci obbliga a escludere l’India e i paesi del sudest asiatico (siamo in piena stagione delle piogge), le Filippine e il Giappone, le Hawaii, il golfo del Messico e i Caraibi (è il periodo degli uragani).
Seconda decisione: visitare pochi paesi, privilegiando i posti più lontani e cercando di non avere più di cinque-sei ore di differenza di fuso orario tra un paese e l’altro. Proviamo a elencare: Russia (entrambi non ci siamo mai stati), Cina (ci sono stata nel 2005), Hong Kong (ci sono stata nel 1976), Australia (mai stati entrambi), Nuova Zelanda (ci sono stata negli anni ottanta), Cile (mai stati entrambi). Ne viene fuori un viaggio essenzialmente urbano nella prima parte, nella seconda parte molto a contatto con la natura. Questo ci piace molto.
L’idea di base è questa: fermarsi in ciascun paese abbastanza a lungo da poter cogliere qualche frammento dello spirito del luogo, ma non così a lungo da perdere lo stupore. Questo permette, credo, di intercettare fenomeni che uno sguardo più diretto e prolungato forse non individuerebbe. Proprio come succede quando si guarda qualcosa con la coda dell’occhio, e si percepiscono più distintamente movimenti e bagliori.
Terza decisione: la direzione. Decidiamo di volare verso est. Questo fatto ci garantirà voli un po’ più brevi, ci costerà jet lag più difficili da smaltire (ma cinque ore di fuso non sono così tragiche) e soprattutto ci permetterà di acchiappare un ultimo scampolo d’estate in Russia, di arrivare a Shanghai quando non fa più spaventosamente caldo e di intercettare (ormai saremo a settembre) una primavera incipiente in Australia, Nuova Zelanda e Cile.
Devo dire che questa specifica strategia si è rivelata vincente: in cinquanta e rotti giorni di viaggio, abbiamo avuto soltanto una mezza giornata di pioggia (Cina, Pingyao) e un paio di acquazzoni, tanto violenti quanto brevi, a Hong Kong (un tifone di livello due: robetta, insomma).
Quarta decisione: usare mezzi alternativi all’aereo (treno, auto, nave…) per tutti i tragitti inferiori agli 800 chilometri (un bell’articolo di Internazionale spiega bene perché questo criterio riduce l’impatto ambientale). Senza contare che, percorrendo un paese, se ne capisce molto di più che volandoci sopra. E poi: spostarsi a piedi o in metropolitana nelle città.
Quinta decisione: viaggiare con un bagaglio contenuto, altrimenti prendere treni e metro, o semplicemente caricare e scaricare l’auto a ogni tappa, diventa un incubo. Dunque: un bagaglio a mano (borsa, zaino) e una valigia per ciascuno, non troppo grande.
Ecco cosa ho messo in valigia, per un itinerario che, comunque, dura quasi due mesi e prevede oltre 30 gradi di escursioni termiche.
·         Biancheria per una settimana;
·         quattro paia di pantaloni;
·         cinque maglie di cotone a manica lunga, tre senza maniche;
·         stivali bassi, sneakers, scarpe da trekking, sandali.
·         un impermeabile di nylon;
·         un gilet, una giacca a vento e un soprabito di piumino, leggeri ma sovrapponibili uno all’altro:
·         un pullover e un cardigan con cappuccio;
·         due sciarpe di lana di diverso peso, una di cotone;
·         un costume da bagno;
·         due abiti estivi e una gonna;
·         cappello da sole;
·         ombrello:
·         adattatori (indispensabili in Australia e Nuova Zelanda).
E poi:
·         una busta con spazzolino, dentifricio, creme solari eccetera, un’altra con farmaci d’emergenza (Tachipirina, antibiotici, antidolorifici, fermenti lattici…). Quest’ultima, per fortuna, rimasta intatta, a parte i fermenti lattici: indispensabili quando si affrontano oltre 150 tra colazioni, pranzi e cene costituite per buona parte da cibi non abituali.
Infine:
·         guide turistiche, una per paese;
·         supporto per fissare il cellulare al cruscotto, buste di nylon di varie misure per metterci abiti, maglie e biancheria. Si comprano facilmente in rete (digitare: organizer viaggio). Dimezzano il tempo necessario per rifare ogni volta la valigia e impediscono che diventi in breve un caos di panni stazzonati e frullati insieme;
·         nella borsa a mano: computer, tablet, libri, caricabatterie.
Oltre a facilitare gli spostamenti, la scelta del bagaglio ridotto aggiunge un ulteriore elemento di vita vera al viaggio: vuol dire, per esempio, dover comprare detersivi in cirillico annusando le confezioni in un supermercato di Mosca, e poi avventurarsi in uno spericolato bucato nella vasca da bagno dell’albergo.
Oppure: vuol dire scovare una lavanderia a gettone nella più remota periferia di Shanghai (in rete bisogna cercare self service laundromat), giusto accanto a un tosatore di gatti. O scoprire che, a Sidney, se porti gli abiti in lavanderia te li restituiscono in albergo, piegati ma non stirati, a un prezzo più che accettabile (in rete bisogna cercareWash & fold laundry – un servizio che si potrebbe importare anche da noi). E che il tizio della lavanderia è svizzero-ticinese, mi dà subito del tu e parla italiano con l’accento di mia nonna.
Sesta decisione. Alternare sistemazioni economiche (specie in Australia e Nuova Zelanda) a qualche albergo di fascino storico: dopotutto questo viaggio è un regalo e, per esempio, aprire le tende la mattina e trovarsi davanti al naso il Cremlino fa parte della cose-che-non-si-dimenticano. Lo stesso criterio vale per il cibo: ci si può anche comprare il pranzo al supermarket, per poi cenare in un buon posto.
Insomma: in poco meno di due mesi ho scattato più di milletrecento foto. Abbiamo percorso circa 650 chilometri a piedi (una media di 13 chilometri al giorno), qualche migliaio di chilometri in auto e qualche altro migliaio in treno. Abbiamo visto i ragazzi di Hong Kong uscire a frotte dalla metropolitana gridando “Fight for freedom”. E abbiamo visto un’interminabile fila di fedeli in attesa di baciare l’icona miracolosa della madonna del Kasan a San Pietroburgo. Abbiamo visto i canguri saltare liberi nel rosso del tramonto ai bordi estremi della penisola Fleurieu. E la cima del vulcano Tongariro bianca di neve e di nuvole.
Nel confronto tra i diversi paesi, questo viaggio mi ha fatto scoprire cose che non conoscevo, intercettare alcune tendenze che sono ancora sotto traccia e alcune curiose analogie, e capire che né le differenze né le somiglianze vere sono quelle che per prime ci vengono in mente.
Sì, proverò a raccontarvene.

domenica 24 novembre 2019

Belli e impossibili - Claudio Rossi Marcelli


“Credo che Will & Grace sia riuscito a educare il pubblico americano più di chiunque altro finora”, ha dichiarato John Biden nel 2012, parlando della più famosa serie tv con protagonisti omosessuali. Io ricordo una scena molto divertente in cui i due protagonisti maschi scherzano su un loro amico che è “un etero magro” e “un gay grasso”. Dietro quella battuta, però, si nasconde una realtà preoccupante: gli omosessuali maschi subiscono una fortissima pressione per quanto riguarda il loro aspetto fisico.
Nel documentario Dream boat, che segue cinque ragazzi in vacanza su una nave da crociera per soli uomini, l’indiano Dipanar, 32 anni, scopre in modo traumatico quanto sia spietato lo standard estetico a cui deve aderire.
Il ragazzo aveva accettato la sua omosessualità meno di due anni prima e la crociera era la sua grande occasione per trovare un’anima gemella. Si è preparato molto, tanto che sui fianchi morbidi si notano i segni di un dimagrimento fin troppo veloce. Ma le migliaia di ragazzi che affollano la nave – fisico scolpito, e per lo più bianchi – non sembrano neanche accorgersi di lui.
“È veramente dura”, si sfoga Dipanar dopo l’ennesima serata in cui nessuno gli ha rivolto parola. “La realtà è che se non sei attraente diventa difficile farti notare dall’uomo che hai di fronte”. Dipanar finirà per restare chiuso nella sua cabina e non partecipare più alle feste organizzate la sera.
Gli uomini gay, dunque, si sentono costretti a incarnare modelli estetici irraggiungibili, come succede alle donne. “Perfino le campagne della sanità pubblica, quando sono indirizzate agli omosessuali, mostrano uomini con la vita stretta e i muscoli scolpiti”, racconta a Psychiatric Advisor Michael Everett, che si occupa di prevenzione dell’hiv. “Gli stereotipi”, prosegue l’articolo, “sono particolarmente dannosi all’interno della comunità gay, cioè in una subcultura altamente sessualizzata che premia la massa muscolare e la mascolinità. Si può notare già dai profili delle app per incontri più popolari tra i gay, in cui molti specificano ‘no asiatici né effeminati’, creando una precisa gerarchia della desiderabilità fisica: i tratti ricercati sono etnia bianca, magrezza, alta statura, muscoli e mascolinità”.
“Questa gerarchia”, conclude l’articolo, “fa eco ai problemi di omofobia, razzismo e misoginia tipici della nostra società, e spinge molti omosessuali a non sentirsi bene con il loro corpo”.
Un recente studio pubblicato da Psychology of Men & Masculinity ha rivelato che il 45 per cento degli uomini gay è scontento della propria massa muscolare, contro il 30 per cento dei maschi etero. E il 58 per cento dei gay si è detto d’accordo con l’affermazione “Sento una forte pressione ad avere un corpo più attraente, esercitata da riviste e tv”, contro il 29 per cento degli etero.
Che i maschi omosessuali siano vittima di modelli estetici pesanti è confermato anche da statistiche sul loro uso di steroidi, cosmetici e prodotti dietetici. Mentre uno studio sui disturbi alimentari ha rivelato che gli uomini gay possono soffrirne dieci volte più degli eterosessuali, di fatto attestandosi su una cifra molto vicina a quella rilevata per le donne. Ma, diversamente da quanto accade per le donne, ancora non esiste un dibattito pubblico sulla pressione subita dagli uomini gay riguardo al loro aspetto.
Le cause di questo fenomeno sono molteplici, ma le radici del problema vanno ricercate innanzi tutto nella discriminazione e nel senso di inadeguatezza che questa genera: “Gli omosessuali spesso non si sentono accettati”, spiega il blogger David Levesque alla Bbc. “E così tendono a pensare che se hai un aspetto migliore, le persone ti apprezzeranno di più”. In effetti è altamente probabile che alla base dell’ossessione per la forma fisica ci sia una ricerca di legittimazione sociale.
Vanno tenuti presenti anche altri aspetti della sfera maschile in generale e, più in particolare, di quella gay. “Per gli uomini, etero o gay che siano, la bellezza conta molto di più di quanto conti per le donne”, spiega ad Abc News il dottor Scott Griffiths, del National health and medical research council australiano. In una coppia formata da due maschi, perciò, il fattore estetico avrà un peso enorme, con l’ulteriore aggravante di un confronto immediato tra due corpi dello stesso genere, che in tanti casi può generare un senso di inadeguatezza.
Una vita su internet
I social network ancora una volta amplificano il problema. I mezzi d’informazione statunitensi si sono occupati dei cosiddetti instagay, cioè la schiera di uomini gay dai fisici scultorei che spopolano su Instagram. The Cut li definisce “stalloni gay in esposizione permanente”, mentre il giornalista Khalid el Khatib scrive su Vice: “Con le loro centinaia di migliaia di follower, lo stile di vita lussuoso e gli infiniti selfie in palestra, gli instagay fanno invidia a tutti. Ma la loro ascesa segna un cambiamento nella cultura gay e fa sorgere parecchie domande su quale sia il vero effetto di quegli scatti apparentemente innocenti”.
Nel suo approfondito reportage El Khatib incontra un certo numero di queste nuove star dei social, i cui follower arrivano anche a quota 500mila, e scopre che dietro le foto posate e apparentemente tutte uguali si nascondono anche storie drammatiche, che però i follower non vogliono sentire: quando qualcuno di loro ha provato a raccontare la propria storia personale – per esempio la difficoltà di crescere in una famiglia molto religiosa – i like al post sono stati inferiori alla media, mentre continuano a premiare le foto in cui appaiono seminudi e in luoghi patinati.
Per rendersi conto di quanto i muscoli siano importanti nell’approccio tra uomini basta aprire una delle app per incontri per omosessuali come Grindr o Scruff, dove almeno il 40 per cento degli utenti sceglie come foto profilo una propria immagine a torso nudo. In un contesto sociale sessualizzato come quello gay questo ha un’influenza potentissima.
 “Agli albori della lotta per i diritti gay”, scrive Zach Rawlings su Tonic, “le persone della nostra comunità stringevano legami profondi attraverso l’attivismo. Dopo esserci battuti contro l’oppressione, l’aids, l’ineguaglianza e l’odio, il nostro senso di alleanza sembra aver perso colpi e lo spirito di collaborazione ha lasciato il posto a quello della competizione”. Secondo Rawlings, che si occupa di problemi mentali e disturbi alimentari, molti omosessuali hanno cominciato a trattare il loro corpo come una moneta di scambio per ottenere sesso: più sei palestrato e più rimorchi. E questo senso di competizione genera una discriminazione verso chi non corrisponde al modello imperante. Come ha imparato a sue spese Dipanar a bordo della crociera di Dream boat.
Insomma, siamo usciti allo scoperto per poi andarci a rinchiudere in palestra. E l’effetto più preoccupante riguarda i giovani: oggi un ragazzino che si scopre omosessuale comincia quasi automaticamente a vivere male il suo aspetto fisico e a sentire il bisogno di cambiarlo.
“Abbiamo visto gli effetti devastanti che ha avuto sulle donne l’imposizione di modelli estetici irraggiungibili”, scrive lo scrittore Zach Verwey sull’Huffington Post, “ed è ora di ammettere che anche noi uomini gay siamo ostaggio dello stesso meccanismo malsano. Anche noi possiamo cominciare ad approfondire la nostra definizione di cos’è un corpo sano e anche noi possiamo cominciare a rifiutare le immagini che ci spingono verso diete più ferree e pesi da palestra più pesanti”. E il primo passo per riuscirci è cominciare a parlarne.

venerdì 22 novembre 2019

La nostra salute e quella del pianeta - Rosanna Novara Topino



L’UOMO E IL CIBO / PRIMA PARTE   

Le abitudini alimentari di ciascuno di noi producono sempre due tipi di conseguenze: sulla salute del nostro corpo e su quella della terra. Quali sono i cibi più dannosi per la salute? Quali sono quelli a maggiore impatto ambientale? Esiste una dieta sostenibile? A queste domande cercheremo di dare una risposta con una serie di articoli.

Quando mangiamo, di solito ci preoccupiamo (tuttalpiù) di cosa ci indicherà la bilancia il giorno dopo o del rimprovero che potrebbe farci il nostro medico alla lettura dei risultati nel nostro prossimo esame del sangue, ma difficilmente pensiamo a quanto la produzione di ciò che mangiamo sia costata in termini ambientali (energia consumata, occupazione del suolo, sofferenza umana e animale) e di inquinamento del pianeta, ovvero di quanto la nostra dieta sia sostenibile.
La Fao – Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura – dice che una dieta può essere considerata «sostenibile» se risponde a tre requisiti: convenienza, alto potere nutrizionale, basso impatto ambientale.
Ormai da decenni (dagli anni Sessanta del secolo scorso) lo sviluppo economico, l’urbanizzazione e l’aumento del reddito procapite si accompagnano ad una trasformazione delle abitudini alimentari via via che i paesi si sviluppano. Si assiste cioè a uno spostamento verso un maggiore consumo di cibi ricchi di zuccheri raffinati e di grassi (anche se forniscono calorie «vuote», cioè alimenti privi di altro nutrimento oltre all’apporto calorico) e di prodotti a base di carne, latte e uova. Questa tendenza ha ripercussioni sia in termini di salute con un incremento a livello globale di patologie come il diabete di tipo 2 (che viene già considerato dall’Oms un’epidemia globale), le malattie cardiovascolari e alcune forme tumorali, che per quanto riguarda l’impatto sull’ambiente dell’allevamento e dello sfruttamento intensivo dei terreni agricoli.

Il peso (insostenibile) dell’allevamento
Secondo la Fao, la produzione globale di carne (riquadro a pag. 62) è destinata a più che raddoppiare, passando da 229 milioni di tonnellate nel periodo 1999-2001 a 465 milioni di tonnellate nel 2050, in linea con l’aumento della popolazione mondiale, che si prevede sarà di 9 miliardi di persone. Inoltre, si stima che la produzione di latte passerà da 580 a 1.043 milioni di tonnellate.
Già attualmente l’impronta ecologica della produzione zootecnica è altamente impattante e le analisi dei diversi sistemi produttivi alimentari dimostrano che, se permane l’attuale trend, nel 2050 le emissioni di gas serra relative a questo comparto produttivo saranno più elevate dell’80% rispetto ai livelli attuali, mentre aumenterà ancora la distruzione degli habitat naturali per fare spazio ai terreni agricoli. Sempre secondo la Fao, l’allevamento produce attualmente circa l’80% delle emissioni di gas serra dell’intero comparto agricolo e il 18%  del totale complessivo a livello mondiale. In pratica, questo settore risulta più impattante di quello dei trasporti. L’allevamento provoca il 9% delle emissioni totali di anidride carbonica (CO2, soprattutto a causa degli incendi di foreste per fare posto a pascoli), il 37% di quelle di metano (si forma nel rumine dei bovini ed è 23 volte più impattante della CO2) e, per via delle deiezioni, il 65% di quelle dell’ossido di azoto (296 volte più impattante della CO2). Anidride carbonica, metano e ossido di azoto sono i tre gas serra responsabili del riscaldamento globale. A tutto ciò si aggiunge il rilascio del 64% delle emissioni totali di ammoniaca, che causa le piogge acide e l’acidificazione degli ecosistemi.
L’allevamento è – inoltre – responsabile dell’uso del 70% dell’acqua consumata sulla terra (acqua impiegata nelle coltivazioni di prodotti usati nella zootecnia, per lo più su terreni irrigati, in aggiunta a quella necessaria ad abbeverare gli animali e a quella usata per pulire le stalle) e di buona parte del suo inquinamento. Sebbene non ci siano stime a livello mondiale, negli Stati Uniti si stima che l’allevamento comporti il 55% dell’erosione dei suoli, il 37% dell’uso totale dei pesticidi, il 50% dell’uso di antibiotici e un terzo del carico di azoto e di fosforo nell’acqua potabile. Inoltre il 10% delle specie minacciate perde il proprio habitat a causa dell’allevamento, che è quindi corresponsabile della perdita di biodiversità.

I costi del cibo per gli animali allevati
Gli animali d’allevamento sono «macchine» (così – purtroppo – sono considerati negli allevamenti) poco efficienti in termini di conversione di proteine vegetali in proteine animali, perché consumano molte più calorie vegetali, di quante ne producono sotto forma di carne, latte e uova. Per produrre una caloria di origine animale, ne vengono consumate circa 15 di origine vegetale, sotto forma di mangimi.
Per l’utilizzo zootecnico, negli Stati Uniti vengono impiegati il 70% degli alimenti vegetali (cereali e semi oleosi), in Europa il 55%, mentre in India solo il 2%. Gli allevamenti intensivi competono per il cibo con gli umani, considerando che il 50% dei cereali e il 75% della soia prodotti nel mondo vengono destinati agli animali allevati. Una persona con una dieta ad elevato consumo di carne attualmente necessita di circa 4.000 metri quadri di terreno per la produzione di foraggio e cereali per nutrire gli animali necessari, mentre per un vegetariano bastano 1.000 metri quadri. Attualmente si stima che siano disponibili circa 2.700 metri quadri di suolo coltivabile a testa a livello mondiale, ma per l’aumento della popolazione nel 2050 tale disponibilità pro capite sarà di 1.200-2.000 metri quadri.
Oltre all’impiego di almeno la metà dei suoli fertili dell’intero pianeta per la produzione di cereali, semi oleosi, proteaginose (colture industriali a elevato tenore proteico per la produzione di mangimi) e foraggi, poiché per produrre più carne è indispensabile puntare all’ottimizzazione delle rese agricole, l’allevamento industriale comporta un enorme uso di fertilizzanti, diserbanti e pesticidi. Negli Stati Uniti l’80% di tutti gli erbicidi viene impiegato nei campi di mais e di soia destinati all’alimentazione animale.
In Italia l’atrazina (erbicida) utilizzata nelle coltivazioni di mais e bandita 25 anni fa per la sua cancerogenicità è ancora presente nell’acqua del Po e si pensa che ci vorranno ancora parecchi anni per eliminarla. Nel bacino del Po sono contaminate le acque superficiali e buona parte di quelle sotterranee.
I costi della produzione della soia
In Sud America ci sono forse le conseguenze più gravi da allevamento intensivo. Qui, in soli tre paesi – Brasile, Paraguay e Argentina – viene prodotto il 95% della soia mondialmente esportata. Questa monocoltura è responsabile della deforestazione di una parte rilevante della foresta amazzonica sia per ricavarne terreni agricoli, sia per la costruzione di reti stradali per il trasporto del prodotto ai porti principali. Inoltre, poiché la soia coltivata in questi paesi è in buona parte Ogm, essa è responsabile del massiccio uso del Roundap (glifosato) della Monsanto, un pesticida probabilmente cancerogeno secondo l’«Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro»(Iarc). In particolare, a esso sarebbe associato il linfoma non-Hodgkin. I danni provocati da questo erbicida sono ingenti non solo per l’ambiente, ma anche per i contadini e per le loro famiglie, che si ammalano sempre di più, dal momento che lo spargimento sui campi avviene per mezzo di aerei. Un’altra conseguenza della monocoltura di soia è l’accaparramento del terreno da parte dei latifondisti, con l’esproprio (spesso tramite l’uso delle armi) delle popolazioni rurali, che sono costrette ad abbandonare la terra abitata da generazioni e ad andare ad aumentare il numero di presenze nelle periferie delle grandi città. Infine questa monocoltura comporta il massiccio uso di acqua fossile per irrigazione e provoca lisciviazione e progressiva desertificazione del terreno (fenomeno comune a ogni tipo di coltivazione intensiva in cui ci sia uso di grandi quantità di fertilizzanti e di irrigazioni con acqua di falda ricca di sali minerali). In Italia la soia viene utilizzata negli allevamenti (dopo la proibizione dell’uso delle farine animali, a seguito della crisi della «mucca pazza») e quella d’importazione dai paesi sudamericani (quindi prevalentemente Ogm) ammonta al 95% del totale.
Il consumo di energia fossile
Per quanto riguarda il consumo espresso in Kcal di energia fossile necessaria per la produzione di 1 Kcal di alimento, il rapporto più sfavorevole riguarda la carne di agnello con 57:1, seguito da quella di manzo con 40:1, 39:1 per le uova, 14:1 per il latte e la carne di suino, mentre per il grano il rapporto è di 2:2.
È evidente che è necessario ridurre i consumi di carne, sia per salvaguardare la nostra salute, che per un minore impatto ambientale, ma anche per salvaguardare la salute e i diritti di popolazioni, che vengono espropriate dei loro terreni e a cui viene impedito di coltivare piante per la loro sussistenza, nel rispetto della biodiversità, che invece va persa.
Per non parlare del fatto che è assolutamente sbagliato considerare gli animali come macchine per produrre cibo, prive di sensibilità e di consapevolezza di sé, infliggendo loro le peggiori sofferenze, quando ormai sono moltissimi gli studi di etologia che hanno dimostrato esattamente il contrario. Sono innumerevoli gli esempi di grande intelligenza e di sensibilità nel mondo animale, di cui comunque l’essere umano fa parte. Invece di avere pretese di superiorità sugli altri animali e trattarli come merci piuttosto che come esseri viventi, dovremmo prendere esempio dai grandi carnivori, che predano esclusivamente quando hanno fame, non sprecano nulla e solitamente si nutrono di animali per lo più già deperiti.


L’altra faccia della soia (e della quinoa)
L’UOMO E IL CIBO / SECONDA PARTE

La sua dentatura dimostra che l’essere umano è onnivoro. Anche per questo è riuscito ad adattarsi all’ambiente. Oggi il problema è trovare una dieta che risponda alle esigenze nutritive e, allo stesso tempo, rispetti gli animali e l’ambiente. I pro e i contro della scelta vegetariana e di quella vegana.

Come dimostra la nostra dentatura, in cui sono contemporaneamente presenti sia canini di modeste dimensioni, ma comunque atti a mangiare carne, che denti molari e premolari per triturare vegetali (mentre gli incisivi servono per mordere ogni tipo di cibo), l’essere umano è onnivoro e forse questa caratteristica ha determinato il successo evolutivo dell’Homo sapiens, per la sua grande capacità di adattamento all’ambiente e a tutti i tipi di cibo in esso presenti. Tuttavia non siamo erbivori, cioè non disponiamo del corredo enzimatico necessario per ricavare energia dalla cellulosa, lo zucchero complesso maggiormente presente nei vegetali. Per non andare incontro a carenze vitaminiche, soprattutto di vitamina B12 e di aminoacidi essenziali, presenti nella carne e che non siamo capaci di sintetizzare in proprio, siamo quindi costretti a mangiare di tanto in tanto cibi di origine animale. In pratica, ciò che dobbiamo introdurre nel nostro organismo con l’alimentazione è strettamente correlato al nostro Dna, ereditato dai nostri antenati, che in effetti si cibavano anche, ma non solo, di carne.

Vegetariani e vegani: non va tutto bene
Resta il dilemma del rispetto degli animali. Da questo punto di vista la dieta che meglio concilia quest’ultimo con le nostre esigenze nutritive è quella latte-ovo-vegetariana, anche se si rischia di eccedere nel consumo di latte e uova, per ottenere la stessa qualità di principi alimentari presenti in quantità superiore nella carne. Inoltre, questa dieta è inadatta per gli intolleranti al lattosio e per coloro che hanno problemi di ipercolesterolemia familiare.
La dieta vegana, nata come scelta etica del rispetto per gli animali e per l’ambiente, esclude invece totalmente i prodotti di origine animale e li sostituisce con prodotti vegetali particolarmente ricchi di proteine come la soia (abbondantemente utilizzata nella cucina vegana per produrre alimenti che ricordano, per consistenza, la carne e i prodotti caseari senza avere però le stesse proprietà nutritive), la quinoa, le mandorle, l’avocado e gli anacardi. In realtà questa dieta è controversa perché, per ricavare le proteine necessarie, utilizza grandi quantità di soia, con il grande impatto ambientale che essa comporta (disboscamenti, impoverimento dei suoli, ecc.).
Un altro alimento largamente utilizzato nella cucina vegana (ma non solo) è la quinoa coltivata in Bolivia, Cile, Perù ed Ecuador. Si tratta di una pianta erbacea della famiglia delle Chenopodiacee (a cui appartengono anche spinaci e barbabietole), dalle grandi proprietà nutritive perché composta per il 60% da amido e per il 12-18% da proteine ricche di due aminoacidi essenziali: la lisina e la metionina. La lisina è necessaria allo sviluppo e alla fissazione del calcio sulle ossa e inoltre favorisce la produzione di anticorpi, ormoni ed enzimi. La metionina ha un’azione lipolitica e partecipa ai processi di detossificazione e di eliminazione dei prodotti metabolici di scarto.
Nel 2013 la quinoa è stata dichiarata «cibo dell’anno» dall’allora segretario delle Nazioni Unite Ban Ki-moon e la sua produzione è stata interessata da un vero e proprio boom, vista la domanda a livello mondiale. In Bolivia, i terreni destinati alla produzione di questa pianta sono passati, nel giro di pochi anni, da 10.000 a 50.000 ettari e il 90% dei semi prodotti è destinata all’esportazione. In pratica i terreni, che in passato producevano una grande quantità di colture diverse, si sono trasformati in monocolture di quinoa. Data la grande richiesta, il prezzo della quinoa è aumentato fino a triplicare, al punto che per i contadini del Perù, per i quali questa pianta è sempre stata parte della cucina tradizionale da migliaia di anni, è diventato impossibile cibarsene. In Bolivia il suo prezzo è diventato quattro volte tanto quello del riso o di altri cereali. La quinoa viene perciò venduta quasi del tutto o scambiata con Coca-Cola, dolciumi e cibo della dieta occidentale. Anche per questa causa, attualmente il 19,5% dei bambini peruviani (dato Unicef) soffre di malnutrizione. Inoltre, in passato la quinoa veniva coltivata solo sui pendii delle Ande, mentre i terreni più a valle erano destinati all’allevamento di lama e alpaca. Ora molti di questi terreni sono utilizzati per la coltivazione della pianta, mentre gli allevamenti si sono notevolmente ridotti e sono stati confinati nelle zone collinari, riducendo ulteriormente le possibilità di sostentamento del popolo andino. A tutto questo si aggiunge l’uso di fertilizzanti e di anticrittogamici di scarsa qualità, che inquinano il suolo, le falde acquifere e l’aria, impoverendo il terreno, la cui resa sta diminuendo progressivamente.
Altro alimento controverso presente spesso nella dieta vegana sono gli anacardi coltivati per il 40% nel Vietnam, spesso da tossicodipendenti condannati ai lavori forzati in centri di recupero, mentre il restante viene prodotto nelle zone più povere della Costa d’Avorio e dell’India. Qui gli anacardi vengono ripuliti dai loro gusci a mani nude dalle donne, che non possono permettersi i guanti per proteggersi dall’olio caustico formato dagli acidi anacardici cardolo e metilcardolo, i quali provocano ferite permanenti simili a ustioni sulla pelle.
La dieta mediterranea
È evidente che la dieta vegana è molto rispettosa degli animali, ma non altrettanto delle persone che producono parte del cibo utilizzato. Questa dieta sarebbe forse più rispettosa sia degli animali che degli umani, se utilizzasse esclusivamente frutta e verdura, cereali e oleaginose a Km 0. Resta il fatto che necessita dell’integrazione di vitamine del gruppo B, in particolare di B12, per non incorrere nel rischio di anemia perniciosa e di disturbi neurologici ed è decisamente sconsigliata per i bambini, gli adolescenti, le donne in gravidanza e in allattamento.
Per chi non può fare a meno della carne, la dieta più rispettosa dell’ambiente è quella mediterranea, che prevede un abbondante consumo di cereali, di ortaggi e frutta, un consumo medio di pesce e un limitato consumo di carne e di latticini, mentre gli zuccheri semplici sono ridotti al minimo indispensabile.

I gas serra delle risaie
Sia la dieta vegetariana che quella vegana, se particolarmente ricche di riso possono avere un certo peso a livello di impatto ambientale. Questo perché, come si è visto da recenti studi, tra i principali produttori di gas serra al mondo ci sono le risaie a sommersione, che emettono metano e protossido di azoto in quantità tali da potere essere paragonate all’attività di almeno 200 centrali a carbone per quanto riguarda il loro effetto sul riscaldamento globale, ma la stima è per difetto, se si considerano le emissioni sul lungo periodo. Perché avviene tutto ciò? Il riso, almeno nel 75% dei casi, viene coltivato in sommersione, tecnica che soddisfa sia le esigenze idriche che quelle di termoregolazione delle piante, con limitazione delle escursioni termiche a cui esse sarebbero esposte se coltivate su terreno asciutto. Questo però comporta che si crei un ambiente anaerobico sommerso con la crescita di batteri anaerobi metanogeni, che riescono a ottenere metano dalla digestione dell’amido presente nelle radici delle piante, liberandolo nell’atmosfera. Per quanto riguarda la produzione di protossido di azoto, essa deriva dalla nitrificazione e denitrificazione del suolo, a seguito dell’uso dei fertilizzanti azotati. Considerando l’estensione delle risaie sulla Terra, le emissioni di metano ad esse dovuto rappresentano il 20% del totale. Tali emissioni possono variare a seconda del clima, dell’annata e del modo di coltivare il riso. Mediamente per la coltura in sommersione continua vengono emessi 185 Kg/ha/anno, mentre per la semina interrata con sommersione differita vengono rilasciati 115 Kg/ha/anno e infine 5Kg/ha/anno per la semina a irrigazione turnata, che però rende il 40% in meno come prodotto. Il rovescio della medaglia è che man mano che diminuisce la produzione di metano delle risaie, aumenta quella di protossido d’azoto, gas serra 12 volte più potente del metano stesso e 296 volte più della CO2, come già detto. Nelle risaie a sommersione continua ne viene rilasciato 1 Kg/ha/anno, per la semina interrata a sommersione differita 1,6 Kg/ha/anno e per quella a irrigazione turnata 4,5 Kg/ha/anno. Se tutte le risaie del mondo fossero convertite a irrigazione turnata, le emissioni annue di metano diminuirebbero di 12 Tg, ma occorrerebbe detrarre l’incremento di protossido di azoto stimabile in 7,7 Tg di metano equivalente. Questo però comporterebbe la riduzione del 30% della produzione mondiale di riso, che è la seconda coltura più importante per la nutrizione umana dopo quella del frumento. Ne varrebbe la pena? La risposta è ardua, perché altri studi hanno dimostrato che elevati livelli di COcauserebbero una riduzione dei tassi di minerali, di proteine e di vitamine di questo cereale, vale a dire che i gas serra stanno anche rendendo il riso meno nutriente.

Nel nostro piccolo
Quello che possiamo fare noi, per pesare meno sull’ambiente con la nostra alimentazione è probabilmente fare sempre attenzione alla provenienza dei cibi, prediligendo quelli a Km 0, o addirittura coltivandoci qualche ortaggio e frutta direttamente in proprio, se possibile (per pomodori e insalata bastano un paio di cassette di terra sul balcone), in modo da non favorire più di tanto il trasporto su gomma.

Obesi e denutriti, il paradosso alimentare
L’UOMO E IL CIBO / TERZA PARTE                                          

Ai giorni nostri stiamo assistendo a un vero e proprio paradosso, per quanto riguarda l’accesso al cibo a livello mondiale. Secondo il rapporto Food security and nutrition in the world (Lo stato della sicurezza alimentare e nutrizione nel mondo) del 2018, realizzato congiuntamente da cinque agenzie Onu – la Fao (Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura), il World Food Programme (Programma alimentare mondiale, Pam), il Fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia (Unicef), l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms / Who) e il Fondo internazionale per lo sviluppo agricolo (Ifad) – attualmente vi sono al mondo 821 milioni di persone denutrite e 672 milioni di obesi.

Fame zero: obiettivo fallito
Per quanto riguarda la fame nel mondo, non solo siamo ancora lontani dall’obiettivo che si erano prefissati gli stati di eliminare la fame entro il 2030 (il Sustainable development goal of zero hunger, l’obiettivo dell’annullamento della fame con uno sviluppo sostenibile), ma negli ultimi tre anni si è assistito a un trend in crescita, con una persona su nove al mondo che soffre la fame, soprattutto in Africa, Asia e America Latina, praticamente un ritorno alla situazione di dieci anni fa. Stanno nuovamente aumentando il rischio di insufficienza di peso alla nascita, il ritardo nella crescita e l’anemia nelle donne gravide, rispetto al minimo storico di 783,7 milioni di persone denutrite nel 2014.
Le cause di questa tendenza al rialzo del numero di persone denutrite (vedi anche l’articolo seguente a pag. 68, ndr) sono molteplici. Ai gravi conflitti che interessano diversi paesi si è aggiunta una notevole variabilità climatica, spesso con fenomeni estremi, che compromettono la produzione delle risorse alimentari, quindi la loro disponibilità continuativa.
Le alterazioni climatiche causano non solo la riduzione della quantità degli alimenti, ma anche della qualità dei nutrienti e della loro diversità.
Altre cause importanti sono il crescente fenomeno dell’urbanizzazione (nel 2008 il numero delle persone che vivono in città ha superato quello degli abitanti delle zone rurali); la volatilità dei prezzi degli alimenti a seguito dell’aumento della speculazione finanziaria, che ha vincolato il prezzo del cibo ad altre commodity (prodotti primari o materie prime, che rappresentano fondamentali oggetti di scambio internazionale perché sono fungibili, cioè sono gli stessi indipendentemente da chi li produce), ad esempio alle quotazioni del petrolio. Questo è accaduto, ad esempio, tra il 2010 e il 2011 quando vi fu un rialzo dei prezzi dei prodotti alimentari di quasi il 20% che ridusse alla fame altri 44 milioni di persone, grazie alle operazioni finanziarie dei trader e degli investitori che considerano il cibo semplicemente come un qualunque oggetto di indicizzazione e di speculazione finanziaria.

La diffusione delle tossine
Altra causa dell’aumento della fame nel mondo è stata una maggiore diffusione e contaminazione degli alimenti da parte di aflatossine o altre micotossine: tossine prodotte da muffe o funghi, di cui le specie più comuni che colpiscono i vegetali sono l’Aspergillus, soprattutto nel mais, il Penicillium, una muffa che contamina i cereali e i legumi in fase di raccolta e di conservazione, il Fusarium, una muffa, che contamina le piante e i semi durante la coltivazione, nonché i prodotti alimentari derivati.
Sicuramente i cereali, il mais in primis, sono i vegetali più colpiti. Seguono i legumi, le arachidi, le noci, le mandorle, il cacao e tutti i loro derivati, nonché le spezie. Possono risultare contaminati anche latte e carne, se i mangimi per animali a base di mais sono stati precedentemente contaminati. Va ricordato che l’aflatossina B1 è un cancerogeno del gruppo 1, cioè il più pericoloso e colpisce soprattutto il fegato.
Senza verdure, senza frutta
La malnutrizione è spesso causata anche dalla dieta povera di nutrienti derivati dai diversi tipi di verdure. Purtroppo molto spesso gli enti finanziatori, i donatori e i governi si concentrano sulla produzione e fornitura di calorie, piuttosto che di nutrienti. Basti pensare che, da ormai quasi tre decenni, nell’Africa subsahariana e in Asia la produzione di alimenti si è concentrata soprattutto sulle commodity come mais, frumento e riso e molto meno sui prodotti autoctoni come miglio, sorgo e ortaggi. Per buona parte dei poveri, le verdure rappresentano spesso un bene di lusso e la ricerca agricola internazionale impiega molti più fondi negli studi per il miglioramento della produzione dei cereali che di ortaggi e frutta. Questo significa non essere lungimiranti, perché la produzione di frutta e di ortaggi è il modo più sostenibile ed economico per porre rimedio alla malnutrizione – dovuta a carenze di micronutrienti, come la vitamina A, ferro e iodio -, che colpisce circa un miliardo di persone in tutto il mondo. Tali carenze comportano uno sviluppo mentale e fisico inadeguati, causano cecità e anemia soprattutto nell’infanzia e inoltre una riduzione delle prestazioni lavorative e scolastiche, che si ripercuotono sull’economia di comunità povere e già gravate da altri problemi sanitari. La denutrizione e la malnutrizione infatti hanno ripercussioni sul sistema immunitario, che risulta meno efficiente nella difesa dalle malattie, le quali si presentano perciò di gravità e durata superiori rispetto a quanto succede nelle persone alimentate bene. Si è osservato che ridotti consumi di verdure sono correlati a tassi di mortalità più alti per bambini sotto i 5 anni di età. Attualmente sono circa 151 milioni al mondo, circa il 22%, i bambini sotto i 5 anni con un ritardo nella crescita. In Niger ad esempio, le persone hanno a disposizione giornalmente circa 100 grammi di verdura, mentre la dose giornaliera di frutta e verdura raccomandata è di circa 600-800 grammi e questo paese è tra quelli con le più alte percentuali di malnutrizione e di mortalità infantile al mondo.
Attualmente oltre due terzi del suolo terrestre sono rappresentati da terreni coltivati per lo più a monocolture. Questo comporta la perdita di biodiversità agricola, nonché l’impossibilità per i piccoli agricoltori di accedere ai mercati. Per risolvere il problema della fame, tra le altre cose, è perciò indispensabile tornare ad un sistema agricolo salutare, sostenibile e praticabile, dove trovano spazio i piccoli agricoltori, che devono potere accedere a mercati dove le loro merci siano valutate equamente, in modo da ricavare un reddito dal proprio lavoro.
È poi fondamentale imparare (e insegnare) a cucinare gli ortaggi in modo da preservarne le proprietà nutritive. Spesso infatti le verdure vengono cotte troppo a lungo, perdendo così gran parte dei nutrienti, quindi per migliorare il loro valore nutrizionale è necessario abbreviare i tempi di cottura.
Per migliorare la produzione agricola sostenibile sono indispensabili servizi di divulgazione agricola nelle comunità rurali, gestiti da persone realmente competenti. Attualmente nell’Africa subsahariana i divulgatori agricoli, che un tempo fornivano informazioni su nuove varietà di sementi, sulle tecnologie per l’irrigazione e sulle condizioni atmosferiche, sono stati sostituiti da commercianti di fertilizzanti e di pesticidi, spesso con scarsissime conoscenze e formazione. Un aiuto in tal senso potrebbe venire dalla tecnologia informatica. Esistono già servizi su internet come «FrontlineSms», che offrono informazioni in tempo reale e permettono agli agricoltori di rimanere in contatto tra loro e con potenziali clienti. Inoltre, poiché in Africa l’80% di coloro che coltivano la terra sono donne, che solitamente hanno maggiori difficoltà di accesso alle informazioni tramite passaparola, internet rappresenta un modo per ottenere le stesse informazioni, che di solito sono una prerogativa maschile. Laddove l’agricoltura è praticata maggiormente da donne, che quasi mai sono proprietarie del terreno, un miglioramento nella legislazione per l’accesso femminile alla proprietà, all’istruzione e al credito bancario, potrebbe rappresentare un ulteriore passo avanti per un’agricoltura di qualità e sostenibile.

Geografia dell’obesità
L’altra faccia di un’alimentazione inadeguata e di un’infrastruttura agricola carente è rappresentata dal dilagare a livello mondiale dell’obesità che colpisce 672 milioni di persone nel mondo. Secondo uno studio condotto da Majid Ezzati dell’Imperial College di Londra e da oltre mille ricercatori della Ncd Risk Factor Collaboration sulle variazioni dell’indice di massa corporea (Bmi), cioè del rapporto tra altezza e peso di oltre 112 milioni di persone di 200 paesi tra il 1985 e il 2017, sta cambiando la geografia globale dell’obesità. La tendenza all’aumento di peso è presente quasi ovunque e questo fenomeno risulta più accentuato nelle aree rurali dei paesi poveri o a medio reddito. Quando l’indice di massa corporea è nel range 19-24, la persona ha un peso nella norma, tra 25-30 è in sovrappeso, oltre 30 è obesa. Lo studio ha dimostrato che nell’intervallo di tempo considerato, le donne dei paesi presi in esame hanno acquisito 2 punti di Bmi e gli uomini 2,2 in media, corrispondenti a un aumento ponderale di circa 5-6 chilogrammi. In particolare gli aumenti ponderali sono stati più marcati per le donne nelle aree rurali in Egitto e in Honduras (con 5 punti in più), per gli uomini nell’isola caraibica di S. Lucia, in Barhein, Perù, Cina, Repubblica Dominicana e Stati Uniti (con oltre 3,1 punti in più). I motivi di tale aumento soprattutto nelle zone rurali possono ascriversi a modesti aumenti di reddito, ad una agricoltura più meccanizzata, ad un maggiore uso dell’auto. Se però consideriamo l’aumento di peso della popolazione mondiale e facciamo un confronto tra molti dei cibi consumati attualmente e quelli consumati prima del secondo conflitto mondiale, ci rendiamo conto che a farla da padrone sono quantità smodate di cereali prodotti e trasformati, soprattutto mais e soia.
A tutto mais
Il granoturco o mais, grazie alla sua enorme capacità di adattamento ad ogni tipo di terreno e alla sua altrettanto enorme versatilità di trasformazione, è presente in tutto ciò che mangiamo o quasi. Esso viene usato come mangime per animali d’allevamento: bovini, ovini, suini, pollame, ma anche salmoni e pesci gatto. Queste specie sarebbero erbivore o tutt’al più onnivore le prime quattro e carnivore le ultime due, se considerate in natura, ma che vengono riprogrammate tutte come vegetariane dalla moderna zootecnia. Troviamo poi il mais in ogni cibo confezionato. Se diamo un’occhiata agli ingredienti, spesso vi troviamo componenti come amido modificato, lecitina, mono-, di-, trigliceridi, coloranti che danno un gradevole aspetto dorato, acido citrico: sono tutti derivati del mais. E che dire delle bevande gassate o di quelle non gassate al gusto di frutta, dove è onnipresente l’Hfcs (High Fructose Corn Syrup), uno sciroppo dolcificante a base di fruttosio ricavato dal mais, che fece la sua apparizione nel 1980? O della birra, il cui alcool deriva dalla fermentazione del glucosio sempre proveniente dalla stessa pianta? Del resto uno dei primi impieghi della montagna di mais a disposizione, negli anni ’20 del secolo scorso, fu proprio quello di distillarlo e di trasformarlo in whisky nella valle dell’Ohio. All’epoca il mais dette origine a una massa di alcolizzati, oggi ci fa diventare obesi.
E perché c’è tutto questo mais (e soia) da impiegare ovunque? Perché il prezzo delle materie agricole tende a scendere con il tempo, specialmente se aumenta la produzione nei campi o la lavorazione. C’è quindi una tendenza da parte degli agricoltori a seminare sempre più e a occupare nuovi terreni, per potere avere lo stesso guadagno. Questo spiega l’espansione delle monocolture.

Grassi e zuccheri, attrazione fatale
L’UOMO E IL CIBO / QUARTA PARTE


L’obesità è una condizione che favorisce varie patologie: diabete, ischemie, tumori. Evitarla è possibile con stili di vita adeguati. E una dieta con meno grassi e zuccheri, più frutta e verdure.

In alcuni paesi, ad esempio negli Stati Uniti, l’obesità è diventata un’epidemia, probabilmente il problema sanitario più pressante da risolvere, con un costo per la collettività stimato in circa 90 miliardi di dollari annui. Attualmente tre statunitensi su cinque sono in sovrappeso e uno su cinque è obeso. Questo problema riguarda tanto gli adulti che i bambini e i giovani: dal 1970 a oggi il numero di giovani americani in sovrappeso è triplicato e attualmente rappresenta un terzo del totale.
Patologie e costi sociali
All’obesità e al sovrappeso sono associate spesso malattie croniche che hanno un grave impatto sulla speranza di vita come le malattie cardiovascolari, i tumori e il diabete di tipo 2 (che un tempo veniva definito «diabete dell’adulto», ma attualmente colpisce sempre più spesso anche i giovani). Oltre a un’alimentazione scorretta, l’obesità e le patologie a essa correlate sono associate anche a una riduzione dell’attività fisica.
Secondo uno studio dell’Oms, ogni anno muoiono circa 3,4 milioni di persone al mondo per patologie correlate con l’obesità. Inoltre, sarebbero correlati all’obesità il 44% dei casi di diabete, il 23% delle malattie ischemiche del cuore e il 7-41% di alcuni tipi di cancro (esofago, pancreas, colecisti, colon-retto, mammella, endometrio, rene).
Per quanto riguarda le malattie cardiovascolari, esse rappresentano la prima causa di morte a livello mondiale con 17,5 milioni di morti all’anno allo stato attuale e una previsione per il 2030 di 23 milioni di decessi. Nel solo continente europeo queste malattie causano ogni anno circa 4,3 milioni di morti. In Italia, nel 2015 si sono verificati 240mila decessi per questa causa, cioè il 37% dei decessi totali, con un aumento dell’8,8% rispetto all’anno precedente (43% uomini, 57% donne). Negli uomini prevale come prima causa di morte la malattia ischemica coronarica, mentre nelle donne prevalgono le malattie cerebrovascolari. Inoltre, le malattie cardiovascolari rappresentano la più frequente causa di ricovero ospedaliero (14,6% del totale dei ricoveri in Italia nel 2016). Secondo l’Oms, tre quarti della mortalità cardiovascolare a livello mondiale potrebbe essere prevenuta con adeguate modifiche allo stile di vita e dell’alimentazione e con il controllo di fattori di rischio come l’ipertensione, l’ipercolesterolemia e il diabete (che da solo raddoppia la probabilità di contrarre una malattia cardiovascolare). I costi totali di queste patologie, comprendenti non solo quelli diretti (servizi ospedalieri, farmaci, assistenza domiciliare, ecc.), ma anche quelli indiretti (perdita di produttività lavorativa dovuta alla malattia o alla morte prematura dei pazienti) sono elevatissimi.

Tumori e diabete 2
Altre patologie croniche legate anche a una scorretta alimentazione e uno scorretto stile di vita sono i tumori. Secondo l’International Agency for Research on Cancer (Iarc), nel 2018 si sono verificati nel mondo 9,6 milioni di decessi per tumore.
In Italia, i tumori rappresentano la seconda causa di morte con più di 178mila decessi nel 2015 (mille casi in più dell’anno precedente) e la prima causa di perdita di anni di vita per malattia, disabilità o morte prematura, con oltre 3 milioni di anni in totale.
Anche per queste patologie i costi complessivi sono ingenti: negli Stati Uniti, nel 2018, sono stati spesi per farmaci antitumorali 133 miliardi di dollari contro i 96 del 2013.
Attualmente si parla addirittura di «tossicità finanziaria» a causa del continuo aumento dei prezzi dei farmaci oncologici, che incidono molto spesso direttamente sul bilancio economico del malato.
In Europa, nel 2018, si sono spesi 18 miliardi di euro soltanto per il cancro al polmone; in Italia, il sistema sanitario ha destinato circa 16 miliardi di euro per i pazienti oncologici.
Nel 2018 sono state formulate 373mila nuove diagnosi di cancro (mille nuove diagnosi al giorno).
Il diabete di tipo 2 è un’altra patologia strettamente associata alle abitudini alimentari e allo stile di vita, laddove vi sia familiarità per questa malattia. Ogni anno si registrano più di 7 milioni di nuovi casi al mondo e le stime per il 2025 prevedono che ci sarà il 7,1% della popolazione mondiale colpita, pari a circa 380 milioni di persone. Si tratta di una malattia altamente impattante sia per il malato, per le complicanze che può comportare, sia per gli elevati costi socio-economici. Tra le complicanze del diabete ci sono l’insufficienza renale, la retinopatia diabetica, la microangiopatia diabetica che può portare all’amputazione degli arti inferiori, neuropatie e danni al sistema nervoso e la predisposizione alle malattie cardiovascolari.
Attualmente in Italia le persone colpite da diabete 2 sono 3,4 milioni (200mila nuovi casi all’anno). Secondo l’Istat, in Italia la prevalenza del diabete 2 è passata dal 3,9% nel 2012 al 5,7% nel 2016.
La prevalenza del diabete e delle altre patologie croniche correlate all’obesità e al sovrappeso è in crescita non solo nei paesi industrializzati, ma anche in quelli in via di sviluppo e si correla a un progressivo aumento della popolazione mondiale dovuto soprattutto a un aumento della vita media, oltre che a uno stato d’indigenza, che porta ad acquistare cibo di scarsa qualità. Tutto ciò va a aggiungersi all’aumento delle malattie neurodegenerative, demenze in primis, che sono anch’esse in parte correlate a una dieta carente o scorretta. Nel siero dei pazienti di Alzheimer e di quelli affetti da demenza vascolare sono stati riscontrati bassi livelli di vitamina E, C, zinco, carotenoidi e albumina, mentre gli studi sul colesterolo e sul rapporto tra acidi grassi saturi/polinsaturi della dieta dimostrano un coinvolgimento del metabolismo dei grassi nell’insorgenza delle neurodegenerazioni, oltre che delle malattie cardiovascolari.
Una dieta carente di calcio e di vitamina D si correla a un aumentato rischio di osteoporosi nella popolazione anziana, con conseguenti possibili fratture patologiche. L’assunzione quotidiana di questi nutrienti riduce fino all’8% il rischio di fratture. Le perdite quotidiane di calcio vanno prevenute eliminando gli stili di vita scorretti, come l’eccessivo consumo di carne, di sodio (sale) e di alcolici, nonché il fumo e il sovrappeso e svolgendo una moderata attività fisica.

«Benessere» e dipendenza: come il cibo spazzatura attrae
Le patologie croniche correlate all’obesità rappresentano un grave problema socioeconomico nei paesi industrializzati, ma rischiano di diventare un problema insormontabile per i paesi in via di sviluppo, già gravati dalla presenza di altre malattie, oltre che dalla penuria di risorse economiche. Purtroppo, le popolazioni più povere spesso acquistano cibo di bassa qualità per quanto riguarda i nutrienti, ma altamente calorico, il cosiddetto cibo spazzatura. Questo è dovuto al fatto che l’industria alimentare ha reso gli alimenti a alto contenuto energetico i più economici sul mercato, se valutiamo il costo per caloria. Il costo medio di una caloria di zucchero è infatti sceso drasticamente dagli anni ’70 del secolo scorso a oggi. I poveri sono quindi portati a spendere le loro poche risorse in cibi più a buon mercato, ricchi di carboidrati e di grassi (questi ultimi derivati spesso dalla soia, dalla colza e dalla palma da olio), che risultano tuttavia molto appetibili (i cibi grassi infondono una sensazione di benessere, lo zucchero è in grado di creare dipendenza).
È chiaro che per arginare il problema delle patologie correlate ai disordini alimentari si deve agire su più fronti, a partire da un’agricoltura più diversificata e sostenibile, grazie all’impegno dei governi e della ricerca scientifica, unitamente alla preparazione di cibi più salubri da parte dell’industria alimentare, per arrivare a una mirata attività di informazione della popolazione sia da parte delle scuole, che delle aziende sanitarie. Nel contempo dovrebbero essere calmierati i prezzi di frutta e verdura di qualità, limitando la speculazione finanziaria in questo settore.