domenica 31 luglio 2022

7 milioni di piscine olimpiche - Kenny Stancil

 

Diversi giorni di temperature superiori alla media nel nord della Groenlandia hanno causato nella scorsa settimana un’accelerazione del rapido scioglimento della precaria calotta glaciale del Paese. Una ragione in più per comprendere perché scienziati e attivisti del clima chiedono politiche più ambiziose per abbandonare rapidamente i combustibili fossili, la principale fonte di emissioni che distruggono il pianeta.

“La quantità di ghiaccio che si è sciolta in Groenlandia tra il 15 e il 17 luglio – 6 miliardi di tonnellate di acqua al giorno – sarebbe sufficiente per riempire 7,2 milioni di piscine olimpioniche”, ha riferito la CNN mercoledì, citando i risultati del National Snow and Ice Data Center (NSIDC) presso l’Università del Colorado. Quella quantità sarebbe sufficiente a coprire tutto il West Virginia con 12 pollici (circa 30 cm, ndt) di acqua.

Lo scioglimento del ghiaccio nel nord la scorsa settimana non è normale, considerando le medie climatiche di 30-40 anni“, ha affermato Ted Scambos, ricercatore dell’NSIDC. “Ma il disgelo è aumentato e questo evento ha fatto segnare un picco inedito“. Le temperature nel nord della Groenlandia hanno raggiunto circa 60 gradi Fahrenheit (15 gradi Celsius), o 10 gradi Fahrenheit più alte del solito, negli ultimi giorni, allarmando gli scienziati che hanno raccolto dati sulla calotta glaciale. “Sono decisamente preoccupato“, ha affermato Kutalmis Saylam, uno scienziato dell’Università del Texas che attualmente sta conducendo ricerche in Groenlandia. “Ieri siamo stati in grado di andare in giro con una maglietta, cosa che proprio non ci si aspettava”.

L’Artico, che si sta riscaldando da più di un secolo a causa dell’aumento crescente dell’inquinamento da gas serra, è una delle regioni con il riscaldamento più rapido al mondo. I circuiti di feedback pericolosi sono particolarmente preoccupanti. La sostituzione del ghiaccio marino riflettente con l’acqua scura dell’oceano porta a un maggiore assorbimento dell’energia solare e lo scongelamento del permafrost annuncia il rilascio di più anidride carbonica e metano, cosa che causa un rapido aumento della temperatura che innesca ancora maggir disgelo e destabilizzazione.

A dicembre, i ricercatori hanno stimato che l’Artico si è riscaldato quattro volte più velocemente rispetto al resto del pianeta negli ultimi tre decenni. Un altro studio recente ha rilevato che il 2021 è stato il 25° anno consecutivo in cui la calotta glaciale della Groenlandia ha perso più massa durante la stagione del disgelo di quella acquisita durante l’inverno. Con decenni prima di quel che si poteva pensare, si prevede ora che nell’Artico le piogge saranno più frequenti delle nevicate.

“Ogni estate, gli scienziati temono una ripetizione del disgelo record verificatosi nel 2019, quando 532 miliardi di tonnellate di ghiaccio sono finite nel mare”, ha riferito la CNN. “Una primavera inaspettatamente calda e un’ondata di caldo nel luglio di quell’anno hanno causato lo scioglimento di quasi tutta la superficie della calotta glaciale. Di conseguenza, il livello globale del mare è aumentato in modo permanente di 1,5 millimetri”.

Secondo gli esperti, il disgelo nella regione sarà probabilmente equivalente a più di due metri di innalzamento del livello del mare in tutto il mondo. Ma ogni frazione di grado di riscaldamento fa la differenza, quindi è in gioco un’azione per il clima appropriata, anche se è stato raggiunto un punto critico. Se la calotta glaciale della Groenlandia si disintegrasse completamente, il livello del mare aumenterebbe di oltre 6 metri, cioè “abbastanza da raddoppiare la frequenza delle inondazioni con tempeste in molte delle più grandi città costiere del mondo” entro la fine del secolo, sostengono gli scienziati.

Secondo alcune stime, entro il 2050, 150 milioni di persone in tutto il mondo potrebbero essere costrette a lasciare le loro case a causa dell’innalzamento del livello del mare. Senza un grande sforzo internazionale per ridurre le emissioni di gas serra, quella cifra potrebbe anche essere molto più alta.

Articolo originale:  Water From Major Groenlandia Ice Melt Could Fill 7,2 Million Olympic Swimming Pools  pubblicato da Common Dreams e tradotto per Comune-info

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sabato 30 luglio 2022

Agricoltura. I passi del gambero - Gianfranco Laccone

Sotto una coltre di colpevole silenzio (soprattutto in Italia), stanno passando all’interno della UE scelte che condizioneranno la produzione agricola dei prossimi anni e si rimangeranno il timido orientamento al rispetto dell’ambiente ed alla qualità dei prodotti agroalimentari che si era cercato di ottenere prima della pandemia e della guerra. Con una campagna a tamburo battente di tutte le lobby del sistema industriale e con il colpevole consenso delle organizzazioni agricole della UE si cerca di tornare indietro nel tempo. Si rispolverano vecchi discorsi sulla sicurezza alimentare del pianeta che sarebbe raggiungibile solo attraverso la tecnologia e le proteine animali, sicurezza che, a sua volta, necessiterebbe il ripristino di tutti i più arcaici sistemi ad energia fossile o nucleare per essere ottenuta. Un discorso che torna tanto indietro nel tempo da riabilitare i metodi da “campagna del grano” di mussoliniana memoria, da chiedere di utilizzare a scopi produttivi tutte le terre coltivabili e, di conseguenza, che porti alla chiusura delle frontiere anche per gli alimenti (per i migranti già esiste…). Sotto la giustificazione di voler fornire cibo a tutti e di voler mantenere il “benessere energetico” dei cittadini dell’Unione Europea, si chiede di sospendere qualunque approccio rispettoso dell’ambiente, con la motivazione: “siamo in emergenza!” e di accettare come innovazione solo quella sotto il brevetto ed il controllo delle multinazionali che, come tutti sanno, lavorano per migliorare la vita del genere umano e non per avere profitti…

In un mélange di nazionalismo (perché vale per qualunque Paese l’affermazione: “Il nostro cibo è sempre il migliore!”), di neocolonialismo e nostalgia dei bei tempi della società industriale, si cerca di far passare alcuni provvedimenti: la sospensione della riforma della Politica Agricola Comune (PAC) considerata troppo ambientalista (invece lo è troppo poco), la deroga al rispetto delle norme contro l’inquinamento (come se il cambiamento climatico non ne fosse diretta conseguenza), l’utilizzo di modificazioni genetiche di nuova generazione considerate la soluzione a tutti i problemi (ovviamente, senza solide prove a carico). In particolare in Italia, luogo in cui l’agricoltura negli ultimi trent’anni si è sempre più affidata al sistema del mercato globale aumentando il proprio export, internazionalizzando la proprietà dell’agroalimentare.

Il risultato è stato che la retorica glamour del made in Italy e del Paese dove si mangia meglio non corrisponde ai fatti: i cittadini italiani riducono il consumo di cibo locale e si affidano sempre più ad un sistema di alimentazione standardizzato, simile in tutti i paesi industriali. Di conseguenza aumentano i consumi di cibo con eccesso di proteine animali, di zuccheri, di additivi, a scapito di un’equilibrata dieta mediterranea o di quella vegetariana. Aumentano quindi le patologie derivanti da questi squilibri alimentari (obesità, cardiopatie, malattie dell’apparato digerente, allergie) ma contemporaneamente non si riducono quelle collegate all’alimentazione “povera” che, viste le condizioni economiche in cui stanno ricadendo molte famiglie, tendono ad aumentare in particolari fasce della popolazione (anziani e famiglie a basso reddito).

In questo quadro poco rassicurante, il Ministero delle politiche agricole, alimentari e forestali (MIPAAF), con una vista simile a quella della talpa, ha proposto un Piano Strategico Nazionale (PSN) di applicazione della PAC riformata che è stato respinto dalla Commissione di Bruxelles, a cui si invierà una nuova proposta a settembre. I Piani nazionali strategici che ciascun Paese comunitario è chiamato a redigere sono i tasselli del mosaico della nuova PAC; i primi in via di approvazione sono stati proposti da Portogallo, Polonia, Spagna e Francia che così si candidano ad essere la guida per la riforma della PAC fondata su di un orientamento timidamente ambientalista, ma considerato troppo innovativo dal mondo agricolo italiano arroccato sulla difesa dello status quo.

Per capire quanto poco abbia prodotto questo atteggiamento, vale la pena riportare un passo del giudizio espresso dalla Commissione che mette in evidenza le gravi carenze esistenti nel PSN italiano: “Il piano, nella sua forma attuale, non è sufficiente. La Commissione osserva che numerosi elementi del piano, descritti nelle sezioni successive, sono mancanti, incompleti o incoerenti; non è pertanto possibile effettuare una valutazione approfondita della coerenza tra l’analisi SWOT, le esigenze individuate e la strategia, né dell’ambizione e dell’accettabilità del piano. In particolare, in assenza di target finali quantificati per gli indicatori di risultato, non è possibile valutare l’adeguatezza e il livello di ambizione della logica di intervento proposta per ciascun obiettivo specifico.”

Il giudizio coinvolge non solo l’amministrazione ma anche le maggiori organizzazioni di settore che, nonostante l’importanza dell’agroalimentare italiano nel tessuto produttivo europeo, non sono state in grado di inserirsi autorevolmente nel discorso comune, considerando secondari alcuni aspetti relativi al rispetto e miglioramento sia delle condizioni ambientali nei territori di produzione, sia della tutela dei consumatori.

Nella società italiana, nel corso degli ultimi trent’anni, si è accentuata la spaccatura tra una fascia di consumatori attenta a ciò che mangia, spesso favorita da un reddito superiore alla media, e un’altra che ha il problema di far quadrare i bilanci familiari e che acquista ciò che costa meno e riempie più lo stomaco. La modifica delle patologie alimentari collegata alla fascia di reddito e al livello culturale dei consumatori è un dato da cui partire per evitare che la visione veicolata dai messaggi pubblicitari del made in Italy sostituisca quella fondata sui dati reali.

La discussione avviata tra “gli alternativi” (ambientalisti, produttori bio, animalisti, consumeristi, fautori della decrescita, ecc.) purtroppo è ancora insufficiente, e avviene a livelli molto teorici e poco integrati tra le diverse anime che compongono questa parte della società perché possa svolgere un’influenza egemonica. Per parte dei consumatori (sono tra i responsabili di ACU – Associazione Consumatori Utenti, accreditata a livello nazionale) abbiamo cercato di non mantenere la voce critica isolata inserendoci nella coalizione “Cambiamo l’agricoltura!”, nata nel 2017 a livello comunitario proprio per seguire il processo che ha portato alla PAC post 2020, è sostenuta in Italia da oltre 80 sigle tra Associazioni dei consumatori, ambientaliste e dell’agricoltura biologica. Si tratta della parte nuova e propositiva del sistema agroalimentare che dovrebbe essere considerata punto di riferimento per quanti vogliono un’agricoltura a misura di vivente (uomo, animale, vegetali). Le nostre proposte, inviate puntualmente, sembrano cadere nel vuoto rispetto alla formulazione del PSN e non abbiamo avuto contezza né della revisione approntata, né di quante delle nostre proposte essa contenga; constatiamo che le lobbies italiane di settore  sono ancora troppo forti, anche se risultano più isolate che in passato a livello comunitario.

Ma il freno al cambiamento viene anche dalla società: per il cittadino medio è ancora valido il discorso di difesa del made in Italy, senza una valutazione critica dei sistemi produttivi del made in Italy che hanno contribuito, in modo anche inconsapevole, all’inquinamento e al degrado delle risorse del Paese. Un consenso dato indipendentemente dai propri consumi, poiché spesso ciò che si consuma è scollegato dalle campagne che circondano il luogo in cui si abita e l’attenzione alle etichette dei prodotti è posta frettolosamente solo alla loro data scadenza e quasi mai agli ingredienti o al sistema di produzione e commercializzazione dei prodotti. Si è contrari al lavoro illegale ed ai contratti informali per quanto riguarda se stessi, ma poi si comprano pomodori, banane, prosciutto senza chiedersi da dove vengano e come vengano prodotti. Quando ci si pone tali domande e si agisce di conseguenza, si constata che il costo della spesa aumenta e, in genere, non si riorganizzano i propri consumi e il proprio stile di vita, cose che richiedono impegno e costanza, ma si infila la testa nella sabbia e si continua come prima.

Sarà il cambiamento climatico a condizionare i nostri comportamenti, anche se oggi esso è visto come fatto “emergenziale” e non strutturale. Ogni comportamento che prescinda da questa considerazione sarà destinato al fallimento e dovremmo ritenere la decrescita programmata un obbligo, anche in campo agroalimentare. Le posizioni espresse dal mondo ambientalista e consumerista, ormai, non rappresentano in astratto la tutela di valori sociali o ambientali, ma sono concrete indicazioni per gli agricoltori che praticano produzioni biologiche e producono risultati evidenti. Non è per caso che aumenta il numero di  chi pratica un’agricoltura solidale o rispettosa dell’ambiente (anzitutto biologica), poiché i risultati economici ci sono e spesso sono consistenti. Questi coltivatori, oggi, nonostante le avversità, riescono a mantenere le strutture produttive, che rappresentano la punta di diamante della cosiddetta resilienza in ambito agricolo.

Per cercare di rompere l’orizzonte chiuso che chiude in una sorta di riserva dorata quelle che potrebbero essere i modelli produttivi futuri e per superare l’incapacità di pensiero condiviso ed egemonico da parte degli “alternativi”, pongo tre questioni per sviluppare un PSN agricolo a favore dei consumatori e per avviare una riforma della politica agricola che coinvolga i cittadini e non solo gli addetti ai lavori, con l‘obiettivo di sviluppare a livello comunitario la “politica del cibo” e non solo quella della produzione agricola.

1.      Come facciamo per favorire anche in agricoltura la circolarità del sistema e l’inversione del consumo energetico?

Meglio di me, Stefano Mancuso in Italia ed in precedenza molti studiosi in altri Paesi hanno messo in evidenza le capacità delle strutture vegetali di diventare modelli per il contrasto ai cambiamenti climatici e per la capacità di accumulare CO2, liberare ossigeno e catturare energia rendendola disponibile. Cosa c’è di più circolare del funzionamento delle piante? Non mi sembra che tale assunto sia diventato strumento guida per orientare le produzioni ed il comportamento degli agricoltori e che il PSN italiano favorisca la produzione vegetale rispetto a quella zootecnica per rispondere, ad esempio, alla carenza idrica. Poiché dal punto di vista alimentare la riduzione del consumo di proteine animali è una priorità, come consumatori siamo favorevoli a campagne di promozione di consumi alimentari diversi, e gradiremmo che l’amministrazione pubblica favorisse tali campagne, come quelle per il benessere animale contro gli allevamenti  intensivi. Soprattutto, che il PSN articolasse percorsi di uscita dal ciclo produttivo carneo o riconversione qualitativa delle aziende. Invece verifichiamo il ricorso a interventi emergenziali ed il sostegno piuttosto massiccio e indiscriminato del settore, ripetendo il metodo miope utilizzato nel settore siderurgico allorquando, dinanzi alla sicura prospettiva di riduzione dell’utilizzo di acciaio di ogni tipo e di immane inquinamento causato dalle aziende siderurgiche, invece che riconvertire e disinquinare, i governi e le forze sociali scelsero di sostenere un settore in perdita. Mi sembra che un settore come quello zootecnico meriti una fine meno ingloriosa di quella affidata al settore siderurgico.

In merito al consumo energetico, sottolineo come sotto tale voce non ci sia solo l’utilizzo di concimi, antiparassitari, macchinari energivori largamente impiegati dalle aziende del settore, le quali ora, per motivi facilmente intuibili, si guarderanno bene dallo sprecare soldi in prodotti che non garantiscano un sicuro reddito e che, oltretutto finiranno nelle falde, aumentando l’inquinamento o, nel caso di carburante e antiparassitari, peggioreranno la qualità dell’aria che respiriamo. Ormai anche l’acqua è un fattore costoso e limitante, e pone il problema del suo impiego, dell’eccessivo consumo, dei mancati piani di bacino. Sono stati consigliati/obbligati gli agricoltori di determinate zone a mettere colture più resistenti alla carenza idrica, a ridurre i capi di bestiame, a utilizzare le acque reflue?  Se non lo si è fatto, perché? E se lo si è fatto perché le indicazioni fornite non sono state seguite? Il Piano cosa prevede per tutto ciò?  Intendo non solo come grandi investimenti o utilizzo di tecnologia innovativa e costosa, che solo alcuni potranno permettersi. Il PSN punta molto su strumenti finanziari, come le assicurazioni, per limitare i danni dei cambiamenti climatici, ma non sarà certamente l’utilizzo generalizzato delle assicurazioni a tirare fuori il settore dalle secche in cui è entrato. Il contributo di esperienza che le associazioni di tutela dei consumatori hanno accumulato in altri settori (auto) ci spinge a ritenere necessario un organismo di controllo con la nostra presenza, necessari in tanti settori per meglio tutelare  gli agricoltori . Tutto ciò è previsto dal PSN revisionato?

§  Come riusciamo a tutelare i prezzi a consumo e i prezzi alla produzione, favorendo il consumo di cibo di qualità e sapendo che la massa dei consumatori ha un reddito medio-basso?

Vorrei che fossero fornite spiegazioni convincenti su come mai un anno di pandemia globale, di blocco delle attività produttive e della circolazione delle merci non abbia causato gli stessi danni al sistema alimentare di quanto realizzato con pochi mesi di guerra (aumento incontrollato dei prezzi al consumo e dei mezzi tecnici in agricoltura). E perché dopo pochi mesi di guerra (che ci vede ancora poco coinvolti) si chieda lo stato di emergenza nel settore agricolo e addirittura il ripristino di condizioni di politica agricola “vecchio stampo” con l’aumento delle produzioni (unitarie e complessive), la messa a coltura delle superfici oggi escluse ed altre iniziative che ricordano nella sostanza quelle autarchiche? Credo che l’interesse dei consumatori non sia quello di una tutela a ombrello di un settore che non cerca di sottrarsi al massacro dei cosiddetti “mercati globali”, causa prima del disastro economico ed ambientale, e che il PSN dovrebbe prevedere delle vie d’uscita da un sistema globale, in cui non esiste il giusto ricavo ma solo la speculazione, senza chiudere la porta al sistema di scambio. Ad esempio, alcune iniziative come: la creazione di microaree di interesse reciproco con i paesi rivieraschi del mediterraneo, la creazione di un sistema prezzi di scambio che si separi dal sistema internazionale e che valorizzi gli sforzi produttivi di area, mantenendo comunque rispetto per il sistema energetico, credo che siano strade da percorrere per evitare le guerre di settore ed una politica di aiuti che, svolta in un momento di necessità, ricorda molto quella neocoloniale e venga vista con diffidenza dalle popolazioni interessate.  

Mi sembra evidente che tra settore agricolo e settore energetico ci sia un legame ben più profondo di quello sino ad ora considerato, e che tra consumatori e produttori il legame non possa prescindere dalla presa in carico dei due settori. Energia e alimentazione non sono cose estranee, sono come un albero: se noi ci limitiamo a considerare quello che vediamo (come abbiamo fatto sino ad ora) diremmo che l’albero è fatto da tronco, rami, foglie, frutti. Se includiamo ciò che non vediamo, sapremo che le radici ed il fusto sottoterra sono componenti di eguale valore e importanza. Sino ad oggi abbiamo considerato energia e produzione agricola cose separate, dovremo imparare a considerarle assieme. Il PSN dovrebbe aprire questa strada.

Cosa c’entra tutto ciò con i prezzi alla produzione e quelli al consumo? C’entra più di quanto noi pensiamo, perché solo le produzioni che si baseranno su energia rinnovabile e su mezzi tecnici originati da prodotti riciclati o materie seconde saranno in grado di offrire prodotti alimentari di qualità a basso prezzo, senza essere in perdita e mostrandosi in grado di sostenere il sistema della concorrenza. Inoltre, solo comunità energetiche che vedano partecipi della base produttiva i consumatori delle aree urbane ed i produttori agricoli della stessa area saranno in grado di offrire prodotti a basso costo per i consumi collettivi e riceveranno in cambio i residui alimentari come materia per la produzione del compost. Tutto su base locale e possibilmente bio, senza concimi ed antiparassitari di sintesi. Cosa prevede il PSN per la creazione di un grande sistema a rete, capillare, che sostenga la ripresa produttiva di area, la tutela dei salari non solo agricoli, la defiscalizzazione e l’incentivo per le aziende che si inseriscono nel circuito? Ed in queste valutazioni non ho inserito gli aspetti d’interesse collettivo come la qualità dell’aria, quella del suolo, quella delle acque, della raccolta rifiuti che marcheranno i costi di tassazione locale oggi altissimi nelle aree a più alta concentrazione abitativa. Penso ad un piano che in ogni Paese della UE sia in grado di collegare i diversi settori e i più disparati investimenti.

§  Come potremo passare dalla politica agricola comune alla politica del cibo comune?

Le maggiori organizzazioni agricole sono favorevoli ad un ulteriore ritardo nell’avvio della riforma della PAC e ad una moratoria su diverse questioni relative alla produzione/consumo di alimenti, invece di favorire la modifica dell’orizzonte d’intervento a favore del coinvolgimento dei cittadini o dell’applicazione rapida dell’indirizzo “farm to fork” individuato dal Parlamento Europeo come guida per il futuro. A nostro avviso, ritardare l’applicazione della PAC significa, semplicemente, perdere un’occasione. L’attuale proposta della “nuova PAC” in realtà è ancora una mezza proposta, priva di quelle gambe ideologiche che furono il sostegno al momento della sua creazione nel MEC e che restarono valide sino agli anni Novanta. La politica di protezione delle produzioni ed il sistema di prezzi interni separati da quelli del resto del mondo, se ha protetto la crescita interna per oltre un ventennio (dalla creazione del MEC sino alla fine degli anni Ottanta) ma ha portato con sé anche le disparità preesistenti. La riforma detta “Mac Sharry”, avviata all’inizio degli anni Novanta, con la sua apertura al mercato mondiale, riteneva di poter sostituire con compensazioni e sviluppo commerciale la fine della protezione realizzata dal sistema dei prezzi interni e si poneva l’obiettivo di riuscire a ridurre attraverso il commercio mondiale un sistema diventato  iniquo nel corso degli anni (l’80% degli aiuti al reddito agricolo era rimasto a vantaggio del 20% delle imprese per tutto il periodo precedente). Ma il mercato mondiale, principalmente a causa del mortifero allineamento dei sistemi di produzione/commercio agricolo (ciclici per natura) ai sistemi finanziari, ha causato il fallimento di se stesso. I prodotti agricoli sono diventati come un qualunque servizio alla collettività, dove il fallimento del mercato è garantito dalla impossibilità dei privati a sostenerne i costi e della necessità di sostegno esterno attraverso la loro distribuzione all’insieme della società. Oggi viene avviata una ulteriore riforma constatando che, nonostante le riforme passate, ancora il 20% delle imprese di settore assorbe l’80% degli aiuti, constatando la loro “necessità strutturale”.

Invece il sistema agricolo sarebbe in grado di sostenersi da sé, di vivere all’interno di microaree con lo scambio energia/alimenti e con la creazione di sistemi complessi (ma facili a realizzarsi) che distribuiscano non i costi, ma il consumo delle risorse e ne minimizzino gli impatti. I vegetali hanno un bilancio energetico positivo, perché non lo utilizziamo come base per un sistema meno inquinante ed energivoro dell’attuale? Anche nella dimensione commerciale s’impone un cambiamento: il sistema delle filiere è un modo di rettificare la linea di produzione (e di distribuzione) che ha visto sempre perdenti i produttori e i consumatori proprio per definizione. Va ripristinato il sistema circolare, creando una rete locale in cui gli attori sono misti, dove i consumatori non solo acquistano prodotti alimentari, ma forniscono materia seconda, energia e residui organici alle aziende agricole produttrici e dove le reti di distribuzione sono anche reti di raccolta e quelle di produzione energetica anche di distribuzione e organizzazione. Si partirà da alcune produzioni, si modificheranno alcuni consumi, ma la vita sarà meno costosa e migliorerà, perché risulterà più comprensibile di quella attuale.

Poiché le figure del sistema di filiera sono in mutamento, in particolare i consumatori, i sogni di ritorno a PAC di vecchio stampo, dove all’aumento delle produzioni corrispondeva un aumento di reddito, sono vani e pericolosi. Quindi, la PAC va cambiata, coinvolgendo il resto della società e non solo i produttori. 

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Cambiare la Politica Agricola Comune

La PAC, ai sensi dell’articolo 39 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione europea, persegue i seguenti obiettivi: incrementare la produttività dell’agricoltura; assicurare un tenore di vita equo alla popolazione agricola; stabilizzare i mercati; garantire la sicurezza degli approvvigionamenti; assicurare prezzi ragionevoli ai consumatori. Scritta quando gli agricoltori rappresentavano una parte consistente degli abitanti dei Paesi comunitari, essa aveva un senso su alcuni presupposti politici anch’essi oggi decaduti o superati: evitare un conflitto tra Stati usciti da poco dalla guerra; dare un senso a potenze ex coloniali attraverso la lotta al blocco sovietico; garantire l’autoapprovvigionamento di aree urbane in via di rapido popolamento e la creazione di una società industriale europea. Presupposti oggi fuori tempo, che il green deal ed il PNRR cercano di sostituire con basi strategiche più consone a garantire il futuro delle nuove generazioni. 

Ma quali degli obiettivi dell’articolo 39 possiamo dire che oggi sia perseguito con coerenza? Nessuno, poiché le forze del settore, consistenti all’epoca della sua scrittura, sono oggi minoritarie, diventate espressione di gruppi finanziari e fornitrici di servizi che spesso hanno poco a che vedere con le condizioni di vita degli agricoltori. Solo un patto con i consumatori, solo la creazione di un sistema circolare, l’utilizzo di basi energetiche rinnovabili e di sistemi produttivi fondati sul massiccio investimento in vegetali potrà dare futuro e prosperità al settore. Passare dalla PAC alla PAEC, cioè dalla Politica Agricola Comune alla politica Alimentare Energetica Comune sarà un obiettivo necessario, assieme alla costruzione di presupposti politici meno ancorati a velleità egemoniche, oggi riemergenti con il conflitto ucraino. A mio parere sarà più difficile a pensare e poi a dirsi che a farsi. E potete scommettere che vedrà coinvolti ed interessati tutti i cittadini che ora non sanno o diffidano, della UE, dei politici, persino di ciò che mangiano.  

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venerdì 29 luglio 2022

Ci sarà ancora un domani? - Guido Viale

 

Tutti i fenomeni attraverso cui è destinata a manifestarsi questa fine del mondo sono già in gran parte presenti: ghiacciai e calotte polari che si sciolgono, siccità e desertificazione, alluvioni che non vi pongono rimedio ma ne aggravano gli effetti, mare che si infiltra nelle falde, prosciugamento degli acquiferi, incendi che distruggono le foreste, non più moderati dall’umidità di suolo e piante e dalla scarsità di acqua per spegnerli, tifoni e diffusione di malattie nuove che non si riesce più a controllare. Sono tutti fenomeni in gran parte irreversibili.

I ghiacciai continueranno a sciogliersi e non si riformeranno per migliaia di anni, anche se le emissioni di gas climalteranti cessassero domani (il che non accadrà) e così le calotte polari. Gli acquiferi che abbiamo saccheggiato non si riempiranno più, né torneranno a scorrere pacificamente i fiumi, che alterneranno periodi di secca a piene che si trasformano in alluvioni. Le estati saranno sempre più torride, tanto da rendere invivibili aree sempre più estese del pianeta. Gli inverni saranno sempre più miti e avari delle precipitazioni a cui siamo abituati e gli incendi sempre più estesi e violenti.

La situazione che stiamo vivendo non durerà solo qualche giorno, o un’estate, o qualche anno, ma sarà la nuova normalità. Anzi, peggiorerà, con alti e bassi, di anno in anno, spingendo un numero crescente di abitanti della Terra ad abbandonare i loro Paesi per cercare sollievo e vivibilità in qualche regione meno rovente.

Le prime vittime di questo processo saranno – sono già – l’agricoltura e l’alimentazione che, con i loro consumi fossili, sono già oggi la principale fonte di emissioni climalteranti (in gran parte per la produzione di carni che impegna il 70 per cento dei suoli coltivati e dell’acqua utilizzata). Mangiare qualsiasi cosa sarà sempre di più un problema per un numero crescente di abitanti della Terra, ma industria e mobilità non se la vedranno meglio.

Fino a quando (quando?) tutta l’energia utilizzata non sarà generata da fonti rinnovabili non è affatto detto che quelle di diversa origine possano bastare. Sia quella nucleare che quella di origine fossile hanno bisogno di acqua, molta acqua, per funzionare. E ce ne è sempre meno a disposizione. In Francia molte centrali nucleari si fermano non solo per guasti e logoramento, ma perché non c’è più acqua per raffreddarle.

Si fermeranno in Italia e altrove molte centrali a gas e carbone per la secca dei fiumi. Senza elettricità si ferma anche l’industria, anche quella eventualmente impegnata nella produzione di impianti di energia rinnovabile o nella ristrutturazione degli edifici per ridurne i consumi energetici.

Conversione ecologica sempre più difficile

Così la conversione ecologica, anche volendola fare, sarà sempre più difficile. Non parliamo della conversione dalla combustione all’elettrico del parco veicoli (un miliardo e 300milioni di auto), oggi al centro dell’attenzione. Che senso ha? Dove e come produrremo l’energia per muoverlo, i materiali rari per farlo funzionare, quelli ordinari per fabbricarlo se l’industria dovrà lavorare a singhiozzo? E il turismo? Che senso ha fabbricare l’inverno con la neve artificiale per partecipare a uno scempio come le Olimpiadi Milano-Cortina? Quando si scoprirà che viaggiare verso terre lontane non garantisce più un sicuro ritorno?

E l’industria militare? Certo, è “prioritaria”. Le armi sono oggi il più grande affare, l’unico che ha potuto guardare in faccia il covid senza conseguenze. Arriverà una resa dei conti anche per loro, certo non prima di aver mandato in tilt il resto dei settori industriali.

E le Grandi Opere? Di tutte quelle che si apprestano ad aprire i cantieri con i fondi del Pnrr non resteranno che i debiti da saldare. Con che cosa? E a spese di chi? Tutti questi blocchi si ripercuoteranno in chiusure, fallimenti, licenziamenti, disoccupazione, perdita di reddito, senza che siano state programmate collocazioni alternative per l’occupazione e la produzione.

 

Problemi ignorati

C’è qualcuno dei politici affaccendatisi intorno al destino del governo Draghi, a partire dal suo titolare, che abbia anche solo nominato uno di questi problemi mentre l’Italia (e il mondo) intorno a loro andava a fuoco? O qualche membro della classe imprenditoriale? O qualche giornale che ne abbia fatto l’apertura a sei colonne? O qualche giornalista – qualcuno forse sì – che abbia trovato il modo di parlarne all’interno di pezzi dedicati al proprio ambito: politica, economia, sport, moda, costume, giustizia, guerra, ecc”.?

Mai il dibattito politico, il “servo encomio” di Draghi e il “codardo oltraggio” del buon senso erano caduti così in basso: un teatro dell’assurdo. Gli unici ad averlo capito sono i giovani di Fridays for Future e i loro comprimari. Eppure, è di questo che bisogna innanzitutto parlare.

E se ne avessimo parlato, se ne parlassimo, certo le cose prenderebbero un’altra piega: non si metterebbero l’ambiente, il clima, le rinnovabili in coda a un elenco di 9 punti su cui impegnare il governo o da proporre in campagna elettorale. Si metterebbe finalmente in chiaro che per ottenere uno qualsiasi di quegli obiettivi occorre affrontare di petto il problema del clima. E come?

Il contenimento della crisi climatica e ambientale non dipende solo da noi, né come individui, né a livello territoriale o nazionale; persino l’UE (che vale il 10 per cento delle emissioni globali) conta poco. Tuttavia, ciascuno di noi, ciascun territorio, ciascuna nazione e ciascun continente dovrebbe sforzarsi di fare il possibile per contribuire a una conversione ecologica complessiva. C’è molto da fare per tutti. Ma, soprattutto, c’è da trovare la strada per farlo, che non è per nulla chiara come lo sono invece gli obiettivi da perseguire e che è diversa da Paese a Paese come da individuo a individuo e da impresa a impresa.

 

Adattamento: salvare il salvabile e lasciare indietro il superfluo

È chiaro che l’obiettivo centrale, quello di Parigi e di Glasgow (Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, sigla in inglese Unfccc) di +1,5°C sul periodo preindustriale non sarà raggiunto. Quindi, occorre prepararsi al meno peggio. E il meno peggio si chiama adattamento. Salvare, fin che si è in tempo, quello che si ritiene salvabile e lasciare indietro quello di cui c’è meno bisogno. Cominciando con l’agricoltura e l’alimentazione che devono tornare a essere biologiche, multicolturali, di prossimità, senza più allevamenti intensivi.

Poi con la cura del territorio, rimboschendolo il più possibile. E con la mobilità, abbandonando per sempre l’idea di avere a disposizione “un cavallo meccanico” a testa; la mobilità sostenibile è condivisione e pieno utilizzo di ogni mezzo. il turismo, oggi la più grande industria del mondo, se ancora possibile, deve tornare a essere villeggiatura di prossimità o avventura senza confort. Anche l’industria dovrà ridimensionarsi e con essa sia l’aggressione alle risorse della Terra per alimentarla che la moltiplicazione dei servizi per trovarle uno sbocco nei nostri consumi. La scuola deve diventare un centro di formazione alla convivenza aperto a tutti e la cura della salute deve spostare il suo asse dalla terapia alla prevenzione.

In una prospettiva del genere, ci sarà posto per tutti su quel che resterà della Terra, sia per abitarla che per garantire a ciascun un ruolo, un’attività, un modo di rendersi utile senza piegarsi al feticcio dell’occupazione, che riguarda sempre e solo una parte della popolazione. Ma chi ha il coraggio di mettersi su questa strada?

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giovedì 28 luglio 2022

Ritorno al paese natale - Mauro Armanino

 

Dal luglio del 2019 a quello del 2022 fanno tre anni rotondi di assenza. Questo è il tempo passato, anch’esso di sabbia, dall’ultimo mio soggiorno in Italia, madre e patria secondo le migliori tradizioni di una volta. Eppure, in questa porzione di vita, di cose ne sono accadute e altre avrebbero potuto accadere a seconda degli avvenimenti. Tra questi c’è anzitutto da notare, dopo oltre due anni di cattività nel deserto del Sahara, la liberazione dell’amico e compagno di viaggio Pierluigi Maccalli. Parlavo di lui ancora assente, nell’ultima permanenza nel Paese, come di un albero che, piantato e radicato nella savana, coi suoi rami contorti, tiene il cielo e la terra attaccati l’uno all’altro. Dell’avventurosa prigionia si è portato dietro tre segni: un pezzo di catene, due legni a forma di crocifisso e i grani di stoffa di un rosario che tace raccontando le sue lacrime. Era il mese di ottobre quando la notizia filtrò a Niamey durante un incontro di persone che mai avevano smesso di pregare perché le catene coniugassero il verbo più bello di tutti.

Intanto gli altri continuavano a rapire, uccidere e generare sofferenze senza che questo destasse eccessiva attenzione mediatica. Centinaia di contadini sgozzati, migliaia di sfollati, bambini terrorizzati, scuole e dispensari chiusi. La desolazione è uno dei nomi nuovi di molte zone del Sahel. Paziente, tenace, radicata, nella quasi impossibilità di raccontarla, indecifrabile nelle motivazioni eppure coerente con la follia. La desolazione ha accompagnato questi tre anni vissuti nel luogo il cui nome dice tutto: Sahel, spazio tra due rive. I migranti lo sanno bene perché, da decenni o da secoli, passano tra una riva e l’altra di questa porzione d’Africa. A migliaia attraversano frontiere ogni volta più armate e inospitali dove si contendono il bottino commercianti, contrabbandieri, banditi, gruppi armati terroristi, djiadisti e antiche carovane di sale. Cercano altrove, rischiano tutto, investono soldi, anni e perizie per sopravvivere alla prossima morte nel mare o nel deserto dell’indifferenza di chi crede che il modello di vita sia la stabilità dei cimiteri.

 

Arrivò poi il totalitarismo sanitario, di immediata esportazione cino-occidentale, sotto la sapiente regia dell’Organizzazione Mondiale della Sanità fiancheggiata dalle realizzazioni teatrali di Davos in Svizzera. LA malattia, LA pandemia, LA paura come sistema principale di governo con l’appoggio ben pagato dei mezzi di comunicazione addomesticati al sistema dominante. La gente continuava, qui, a morire di malaria e di fame e della violenza armata ma bisognava fermare le frontiere, lavarsi le mani (ma prima c’era da trovare l’acqua), tenere le distanze e soprattutto imparare a vaccinarsi perché finalmente la salvezza era arrivata. Il nuovo aeroporto turco internazionale di Niamey era tristemente vuoto di aerei, voli, prenotazioni e le decine di lavoratori erano in lista d’attesa. C’erano infatti i VERI morti, i morti COVID (poche decine in tutto il periodo) e gli altri che si contavano a migliaia ma molto meno importanti. Fortuna che la gente non c’è cascata e, con la complicità della sabbia, del sole, della giovane età, la prossimità con la morte, le cure locali, né le maschere, né la distanza sociale, né la propaganda intimidatoria, mai hanno preso piede nel Niger.

Poi, in questi tre anni c’erano loro, i signori della strada. Gli asini che tirano sempre lo stesso carro e sono pestati ad ogni passo, i cammelli che seguono in fila, le mandrie di buoi che si nutrono delle piante che il Comune ha piantato la stagione precedente e i capri che contano i giorni prima di essere sacrificati alla maniera di Abramo, anni or sono. Le strade di Niamey, che la sabbia avvolge ogni sera e che gli addetti alla pulizia raccolgono il mattino seguente prima che rispunti più folta di prima. Gli altoparlanti che invitano i fedeli alla preghiera più volte al giorno cominciando presto perché si levi il sole. Gli uffici dei ministeri che aprono a seconda delle circostanze e degli immancabili funerali che non mancano l’appuntamento settimanale. I cortei nuziali di auto e motociclette che deridono i limiti di velocità, per matrimoni che durano qualche mese prima di sciogliersi e poi provare di nuovo altrove. I venditori di tutto che appaiono e scompaiono, a seconda delle ore del giorno e la stagione dell’anno, e i disoccupati che vivono d’attesa. Le donne, eleganti come regine col velo che le rende più fatali, parcheggiando in doppia fila per gli acquisti.

                                                                        Niamey, 24 luglio 2022

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mercoledì 27 luglio 2022

Ricordati il caldo e il fuoco il 25 settembre - Alessandro Ghebreigziabiher

 

A quanto si legge dai giornali italiani e anche sulla stampa estera, le destre si ritrovano con i pronostici a favore in vista delle prossime elezioni.
Ebbene, voglio scriverne oggi, in tempi non sospetti, ovvero caldamente tali, e mai avverbio sarebbe stato più azzeccato, credo.
Perché, salmodiando con indubbia monotonia, fa caldo, troppo, a queste latitudini e non, la terra brucia e muore, la siccità uccide e intere popolazioni fuggono incontro a ciò che resta d’umanità nel cuore delle genti d’oltre mare.
Nondimeno, se le sopra citate previsioni saranno soddisfatte, cerchiamo insieme di capire in che mani ci stiamo mettendo.
Tra le nostre destre spicca ovviamente Giorgia Meloni, la quale sostiene che l’ideologia ecologista e il fondamentalismo climatico ci porteranno a perdere migliaia di aziende e milioni di posti di lavoro in Europa ed è convinta che si voglia strumentalizzare l’ambiente per tassare gli italiani.
Per Fratelli d’Italia e anche la Lega il cambiamento climatico in pratica non esiste e al momento opportuno, ovvero il contrario, hanno votato contro la proposta del Parlamento Europeo sull’urgente riduzione delle emissioni di CO2.
Per non parlare delle pericolose campagne di disinformazione sul tema, abitudine ormai consolidata in ogni ambito di strategico ed economico interesse.
A seguire, sulla delirante scia di Trump, Matteo Salvini pensa che il mondo in fiamme sia argomento su cui scherzare, quando in uno dei suoi show di piazza dichiara che da quando hanno lanciato l’allarme del riscaldamento globale fa freddo, c’è la nebbia, e che lui lo sta ancora aspettando. Perché i cambiamenti climatici servono solo alle sinistre per legittimare l’immigrazione clandestina, mentre al contrario è la Lega a sfruttare la crisi energetica e le balle che essa stessa racconta per puntare come al solito a garantire futuri introiti ad amici interessati rinverdendo a giorni alterni la presunta necessità di investire nel nucleare.
Silvio Berlusconi? Nel 2019 diceva di voler lasciare un pianeta vivibile ai giovani e di voler combattere i cambiamenti climatici. Ma come? Ovvero, con quali azioni concrete? Perché dando un’occhiata alle posizioni dei suoi sodali di partito, il cambiamento climatico non dipende dall’uomo e si rimarca analogamente e a piè sospinto il refrain sul non sacrificare i posti di lavoro per il clima e cercare salvezza nel nucleare. A sostegno di ciò, come affermarono il senatore Gasparri e gli amici leghisti, la responsabilità umana nel riscaldamento globale è una congettura non dimostrata.
Certo, allargando l’inquadratura sull’intero arco parlamentare non c’è da star tranquilli, osservando per esempio il totale disinteresse dei vari leader nostrani di fronte al recente rapporto dell’Ipcc sul clima.
Inoltre, dando una scorsa alla classifica europea dei nostri partiti riguardo ai programmi climatici redatta da Italia clima se ne vien fuori tutt’altro che rassicurati.
Nondimeno, il voto è importante, non è tutto, ma è uno dei principali strumenti in mano ai cittadini di una repubblica democratica per influire sul presente e il futuro di tutti noi.
Indi per cui, ti prego, qualunque sia la tua appartenenza politica, ricordati del caldo, del fuoco e di quanto scritto, detto e fatto da costoro quando verrà il 25 settembre…

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martedì 26 luglio 2022

Arianna Porcelli Safonov

 Bevete tanta acqua. Anzi no 









lunedì 25 luglio 2022

La rapacità estrattivista distrugge aree protette dell’Amazzonia - Diego Battistessa

 

 

Due diversi sversamenti di greggio hanno inquinato in gennaio enormi aree protette dell’Amazzonia ecuadoriana attorno a Piedra Fina e le coste peruviane nei pressi di Lima, tra due riserve naturali. Le ricostruzioni riconducono a cause evitabili, se si seguissero protocolli di sicurezza o materiali resistenti, ma ciò che risulta subito evidente è che la causa prima del disastro ecologico è il sistema estrattivista di un capitalismo rapace, le cui scelte di privatizzazione e di catene di approvvigionamento insicure sono improntate al massimo profitto. E non è mai un approccio a favore dell’ambiente, come si evince dall’esposizione di Diego Battistessa, che in questo pezzo accomuna i due eventi proprio per la riconducibilità palese al sistema di sfruttamento delle risorse fossili.


Nel mese di gennaio due gravissimi disastri ambientali hanno colpito il Perù e l’Ecuador. Non si tratta di casi isolati ma di esternalità negative prodotte da strategie economiche di estrattivismo massivo: esternalità che nel corso degli anni vengono ciclicamente prodotte da un capitalismo predatorio che in America Latina trova il suo asse portante nell’estrazione mineraria e nello sfruttamento delle risorse idriche e di idrocarburi. Le imprese private alla quali i governi latinoamericani garantiscono (o hanno garantito) concessioni lucrative e una quasi totale impunità, hanno calpestato per anni i diritti delle popolazioni indigene, non rispettando in molti casi la Convenzione dei popoli indigeni e tribali del 1989 (n. 169) dell’Oit che garantisce alle stesse il diritto del consenso libero, preventivo e informato sulla costruzione e/o attivazione di progetti con grande impatto socio-ambientale nei loro territori.

Il continuo attacco alle coste pacifiche

Il primo disastro in ordine di tempo è quello avvenuto in Perù, dove uno sversamento di 11.000 barili di petrolio avvenuto il 15 gennaio nella raffineria La Pampilla (nel quale è coinvolta la petroliera italiana Mare Doricum) ha contaminato decine di chilometri di costa tra cui due aree protette: la  Zona Reservada de Ancón e la Reserva Nacional Sistema de Islas, Islotes y Puntas Guaneras. Lo sversamento si sarebbe prodotto (da quanto ricostruito fino a ora) mentre la Mare Doricum, stava consegnando il suo carico di petrolio nella raffineria gestita dalla compagnia petrolifera spagnola Repsol. Durante le operazioni di scarico la petroliera sarebbe stata colpita dallo tsunami provocato dall’eruzione del vulcano Hunga Tonga-Hunga Ha’apai (Tonga, Oceania): esploso proprio il 15 gennaio liberando una quantità di energia tra i 5 e i 30 megatoni di Tnt (secondo le prime stime realizzate dalla Nasa). Il risultato di quello che è già il più grande disastro ambientale della storia del Perù, sono decine di chilometri di costa pacifica a nord di Lima sommerse dal liquido nero, animali intossicati o uccisi dalla sostanza viscosa e migliaia di pescatori locali che hanno perso il lavoro. Se il danno è certo e visibile, stessa cosa però non si può dire della causa dello sversamento. La versione al vaglio degli inquirenti non è infatti la prima versione data da Repsol, che il 16 gennaio aveva riportato un piccolo incidente con la fuoruscita di poche decine di barili. Solo successivamente, di fronte all’innegabilità dei fatti, la compagnia spagnola ha ritrattato la sua versione offrendo supporto alle operazioni di mitigazioni del danno.

L’incredibile difesa di Repsol

Il presidente di Repsol Perù, Jaime Fernández-Cuesta, ha affermato nei giorni successivi all’accaduto che, sebbene la compagnia abbia commesso degli errori – soprattutto rispetto alle dichiarazioni iniziali sulla quantità di petrolio sversato –, a oggi il piano di contingenza di Repsol è attivo impegnando circa 850 persone sulla costa, oltre a tre macchine per la pulizia marina, sei serbatoi galleggianti, 13 navi di grosse dimensioni grandi e 31 navi più piccole nelle acque circostanti. Un’azione, quella di Repsol, che però è stata giudicata tardiva dalle autorità peruviane che, per bocca della (ora ex) prima ministra Mirtha Vásquez, hanno annunciato a gennaio la possibilità di denunciare la multinazionale in tre diversi ambiti: false dichiarazioni, deficienza e lentezza del piano di contingenza e la obbligatorietà di garantire aiuto umanitario alla popolazione danneggiata per l’accaduto.

La situazione politica in cui capita

Una battaglia che si preannuncia lunga e complicata anche per l’incerto orizzonte politico del Perù attuale. Mirtha Vásquez è infatti una delle protagoniste di quello che sicuramente è oggi uno dei panorami politici più complessi della regione. Pedro Castillo, nominato presidente a metà 2021 dopo una serrata, lunga e dura battaglia elettorale contro Keiko Fujimori, non sembra poter trovare il bandolo della matassa e dà l’impressione di camminare in un terreno minato dove è difficile distinguere gli amici dai nemici. Per responsabilità proprie, sabotaggi interni alla sua coalizione e attacchi costanti dall’opposizione (da distribuire secondo le simpatie e percezioni del caso), Castillo è stato incapace di dare continuità alla sua azione di governo e dopo 6 mesi di presidenza si trova in questi giorni a cambiare il suo gabinetto per la quarta volta. A Natale 2021 infatti, il paese e la stampa già facevano i conti con 11 cambi al vertice dei vari ministeri dando conto che dei 19 ministri in carica a quella data, solo 10 avevano iniziato il mandato insieme a Castillo 5 mesi prima.  Il 2022 non è iniziato in modo diverso. L’avvocatessa Mirtha Vásquez ha infatti rinunciato al suo incarico di primo ministro il 31 gennaio, allegando come detonante della sua decisione le dimissioni dell’ex ministro dell’interno Avelino Guillén. Al suo posto Castillo ha nominato a inizio febbraio l’avvocato e congressista Héctor Valer che però ha rinunciato all’incarico dopo soli 8 giorni per lo scandalo prodotto dalla pubblicazione di una serie di denunce per aggressione familiare che lo riguardano. Infine l’8 febbraio il presidente Castillo ha dovuto promuovere in modo repentino e urgente Aníbal Torres Vásquez (che era ministro della Giustizia e Diritti Umani da luglio 2021) al ruolo di presidente del consiglio dei ministri. In tutto questo l’opposizione non sta a guardare e il 18 novembre la congressista di Avanza País, Patty Chirino ha promosso una “moción de vacancia” (istanza di destituzione) per supposta incapacità morale nella guida del paese di Castillo. La mozione non ha prosperato visto che necessitavano 52 voti a favore nella votazione del 7 dicembre e ne sono stati ottenuti solo 46; contrari alla mozione: 76 e 4 astenuti.

Il partito di estrema destra Renovación popular ha però annunciato il 2 febbraio una nuova “moción de vacancia”, negando questa volta a Castillo le competenze per poter governare il paese. La questione risulta ancora più complessa se si pensa che mentre Renovación popular presentava la mozione, era primo ministro Héctor Valer, che in passato aveva militato nelle fila di quella formazione. Insomma una scacchiera degna di Garri Kaspárov.

Basta una pietra a produrre una falla micidiale

In Ecuador la fuoruscita di 6300 barili di petrolio in Amazzonia nella zona di Piedra Fina, provincia amazzonica di Napo (circa 80 km dalla capitale Quito) ha portato il greggio a raggiungere alcune aree protette nel Parco nazionale Cayambe Coca, provocando un grave disastro ecologico. La fuoruscita è avvenuta il 28 gennaio quando una pietra di grosse dimensioni è franata (a causa della forti piogge) sul grosso tubo dell’oleodotto dell’impresa privata Oleuducto de crudos pesados – Ocp Ecuador. La Confederazione delle nazionalità indigene dell’Ecuador (Conaie) ha denunciato immediatamente attraverso le sue reti la fuoriuscita, allertando riguardo all’enorme danno ambientale e criticando le politiche estrattiviste del nuovo presidente Guillermo Lasso (alla presidenza dal maggio 2021).

Le riparazioni di Ocp Ecuador

Jorge Vugdelija, presidente esecutivo di Ocp Ecuador ha dichiarato a inizio settimana alla stampa ecuadoregna che il 7 febbraio sono terminati i lavori di riparazione all’oleodotto e che le operazioni di trasporto del greggio dall’Amazzonia fino al porto sul Pacifico di Esmeraldas, sono riprese senza inconvenienti. Incalzato rispetto al danno ecologico provocato, Vugdelija ha assicurato che le azioni di riparazione ambientale e compensazione sociale sono già state attivate seguendo gli accordi presi con il governo e con l’appoggio e l’accompagnamento delle autorità. Ocp Ecuador ha confermato che sono state già inviate sul posto tre imprese specializzate in mitigazione del danno ambientale, con un dispiegamento di 790 persone nella zona della fuoruscita. Allo stesso modo è stato comunicato da Vugdelija che sono stati ritirati circa 1000 metri cubi  di terra contaminata, che sono stati già distribuiti 120.000 litri di acqua e kit alimentari alla popolazione vittima del disastro e che sono state inviate delle equipe mediche per iniziare ad affrontare problemi di salute nei centri abitati della zona.

La lunga scia di danni nei 20 anni di oleodotti ecuadoriani

L’oleodotto Ocp è il secondo più grande dell’Ecuador e trasporta circa il 30% della produzione petrolifera del paese: è lungo 485 chilometri e può trasportare 450.000 barili al giorno (attualmente ne trasporta 180.000). Nel 2001 l’impresa privata Ocp Ecuador ha prodotto uno studio ambientale sull’impatto del progetto che è stato successivamente attivato nel 2003. Fin dall’inizio però si sono manifestate grosse negligenze che hanno portato a severi danni ambientali. Il tragitto dell’Ocp (che va da lago Agrio vicino ai giacimenti petroliferi della regione dell’Oriente dell’Ecuador fino al terminal petrolifero di Balao a Esmeraldas, sulla costa pacifica) infatti corre per buona parte parallelo all’oleodotto SOTE – Sistema de Oleoducto Transecuatoriano: il primo oleodotto partito dall’Amazzonia ecuadoriana nel 1972 e lungo 497 chilometri. Nell’aprile del 2003, durante i lavori per la costruzione dell’oleodotto Ocp è stato danneggiato il Sote, provocando una fuoriuscita di petrolio di 10.000 barili che ha raggiunto la Riserva Cayambe Coca e la laguna di Papallacta, che fornisce circa il 60% dell’acqua potabile di Quito. Da quel momento in poi si sono riportati numerosi incidenti e fuoruscite di petrolio (2009, 2013 zona di Esmeraldas  e 2020 zona cascata San Rafael).

La lotta delle comunità indigene

Rispetto a quest’ultima fuoruscita di petrolio di fine gennaio 2022, il ministro dell’Ambiente dell’Ecuador, Gustavo Manrique, ha segnalato che è stata avvistata una chiazza di petrolio arrivata fino ad Añangu, nel Parco nazionale Yasuní. Il rapporto del ministro coincide con quanto già affermato e denunciato dalle comunità indigene (come il video pubblicato dalla leader indigena Nina Gualinga), che hanno stimato che l’ultima fuoriuscita ha interessato almeno 300 chilometri, dall’area in cui l’oleodotto si è rotto fino all’ingresso dell’area dello Yasuní. Il petrolio ha contaminato le fonti di acqua e cibo di centinaia di comunità indigene visto che lo sversamento ha raggiunto gli affluenti del fiume Coca: almeno 60.000 persone sarebbero state colpite da questo disastro.

In un contesto difficile nel quale le comunità indigene e in generale gli abitanti dell’Amazzonia ecuadoriana vivono una ulteriore avanzata del neocolonialismo estrattivo è arrivata però una buona notizia. Il 4 febbraio infatti l’Ong Alianza Ceibo ha pubblicato questo comunicato stampa, dando conto di una grandissima vittoria per le popolazioni indigene ecuadoriane:

«La Corte Costituzionale dell’Ecuador infatti si è pronunciata poco fa a favore del diritto dei popoli indigeni di decidere, in base alle loro forme di governo, il futuro dei loro territori in Amazzonia. Questa sentenza è storica e fornisce uno dei precedenti più potenti al mondo sul diritto dei popoli indigeni ad avere l’ultima parola sui progetti estrattivi che interessano le loro terre. Questo diritto, noto anche come Consenso Libero, Previo e Informato (Fpic), ci offre un potente strumento per proteggere 9,3 milioni di ettari di territori ancestrali in tutto il paese, e quindi affrontare i piani del presidente Guillermo Lasso, che intende intensificare l’estrazione di petrolio e la produzione mineraria. La lunga battaglia che la Comunità di Sinangoe ha condotto per la difesa del proprio territorio è un’azione esemplare condotta dalle popolazioni indigene per mitigare la crisi climatica globale».

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domenica 24 luglio 2022

I medici sardi ai cittadini: “Se la sanità non cura, la colpa non è nostra ma di chi organizza”

 

“La sanità in Sardegna sta crollando sotto un muro di omissioni, mancati finanziamenti ed incapacità gestionale che si trascina da anni”. Comincia così la lettera aperta scritta da Anaoo a tutti i cittadini dell’Isola. Il sindacato dei medici non usa mezzi termini per descrivere lo stato comatoso in cui versa l’assistenza medica e ospedaliera. In calce la firma della segretaria regionale Susanna Montaldo.

“Nel tempo – prosegue la lettera – la polvere che si accumula in un ingranaggio prima o poi lo ferma. Il blocco delle assunzioni e la mancata previsione delle risorse necessarie ha fatto sì che, dopo la prima ondata di pensionamenti, non si riescano più a coprire i turni in ospedale e con la seconda ormai alle porte non è difficile immaginare cosa succederà”.

Da Anaoo spiegano ancora: “Per tenere aperti gli ospedali periferici, dove gli organici sono ridotti in maniera drammatica, le guardie notturne vengono ricoperte in prestazioni aggiuntive da colleghi provenienti da altre Asl o da medici che lavorano per le cooperative. In questo quadro sanitario regionale decadente, diventa veramente difficile capire la vera motivazione per cui non si riesca ad assumere dalle graduatorie dei concorsi espletati”.

Dal sindacato, sul punto si pongono una serie di interrogativi: “Forse perché non si chiama per tutte le sedi disponibili e i vincitori non possono scegliere la sede preferita come succede invece per tutti i concorsi pubblici? Stiamo forse aspettando che i medici vincitori di concorso in Sardegna, stanchi di aspettare, vengano assunti da qualche azienda sanitaria pubblica in un’altra Regione o negli ospedali privati, oppure emigrino all’estero?”.

Il futuro è tutt’altro che roseo: “Con questo sistema, l’unico risultato sarà che con il pensionamento dei colleghi nati negli anni Sessanta, che sono ad oggi il 40 per cento della forza lavoro, il Sistema sanitario regionale non riuscirà a superare un ulteriore indebolimento e tutta l’impalcatura, sostenuta in buona parte dagli straordinari (non pagati), crollerà miseramente. Ma tutto questo non sembra reale se non si conoscono i numeri”.

Ancora dalla lettera aperta ai cittadini: “L’Assessorato proprio alcuni giorni fa ha inviato alle organizzazioni sindacali il resoconto dei dirigenti sanitari in servizio nel 2018 e quelli nel 2021 in Ats. Orbene, nonostante abbiano trasmesso ai giornali la notizia che la sanità, per il 2021, ha inciso sul bilancio regionale per 3 miliardi e 278 milioni, si sono forse preoccupati di comunicare quanti dirigenti sanitari in meno ci sono nel libro paga di quella azienda che prima si chiamava Ats e ora è formata dalle otto aziende territoriali?”.

La risposta è “no”. E “non ve lo diranno – ha scritto ancora la Montaldo a nome di Anaoo – perché Ats non ha rimpiazzato ben 235 dirigenti sanitari andati via in un triennio. Giusto per darvi un’idea, è come se in un triennio fossero andati via tutti i dirigenti sanitari della Asl del Medio Campidano che, invero, attualmente sono solo 218. In altri termini, magari più comprensibili, se si moltiplicano le ore di lavoro settimanali, che per la dirigenza sanitaria sono 38, per 48 settimane lavorative all’anno, ogni dirigente sanitario in media presta, in favore
della sua azienda sanitaria, circa 1.800 ore all’anno. Questo senza contare le abituali ore lavorate in più che non vengono né pagate né recuperate”.

Il ragionamento prosegue così: “È sufficiente moltiplicare le ore annue per il numero dei dirigenti sanitari non “rimpiazzati” (1.800 x 235) per capire che per garantire, quantomeno, la medesima tutela sanitaria offerta ai cittadini nel 2018, alle aziende sanitarie già facenti capo all’Ats Sardegna mancano oggi circa 423.000 ore lavoro“.

Quindi una sottolineatura rivolta ai destinatari della lettera aperta: “Cari cittadini e pazienti, quando ascoltate o leggete qualsivoglia affermazione con cui si scaricano le responsabilità della cosiddetta malasanità sarda sui dirigenti sanitari, su quei medici che sono stati ripetutamente definiti anche degli eroi per la gestione della pandemia Covid e che magari, umanamente, sono esausti di anteporre il senso del dovere alle proprie esigenze personali e familiari, andate anche a vedere chi pronuncia quelle parole; magari è, o era, decisore politico e ha, o aveva, il potere di assumere forza lavoro, organizzare i posti letto ospedalieri, programmare la sanità territoriale e, in genere, cambiare il segno davanti a quei numeri che costituiscono il vero ed unico dato obiettivo ed inconfutabile della crisi del sistema sanitario regionale”.

La Montaldo ha scritto ancora: “Come medici e come cittadini ci saremo accontentati anche dell’assunzione di nuova forza lavoro in misura pari al numero dei cessati dell’ultimo triennio, con il ripristino di una dotazione organica a norma di legge e, quantomeno, sufficiente per dare un’assistenza adeguata alla richiesta della cittadinanza. Ciò posto, con estremo rammarico si prende atto della paradossale campagna mediatica contro i medici, dopo gli elogi in fase pandemica acuta, con contestuale tentativo di modificare la realtà per nascondere i
fallimenti”.

La lettera prosegue così: “La verità, non è conosciuta dall’opinione pubblica, è che i medici da anni chiedono di migliorare le condizioni organizzative e gestionali degli ospedali, perché noi per primi desideriamo che quando il paziente arriva in ospedale, al Pronto soccorso, non debba aspettare dodici ore perché non ci sono abbastanza medici, infermieri e oss in turno. Oppure quando arriva in reparto, non venga ricoverato come terzo paziente in una stanza accreditata per due 2 pazienti o sistemato in appoggio a reparti che trattano patologie diverse”. C’è anche l’opzione del ricovero “su una barella nel corridoio o nella stanza del medico di guardia o in camere non dedicate alla degenza, tutti posti logisticamente lontani dalla corsia e inadeguati alla cura dei pazienti”.

La lettera si conclude così: “Siamo consapevoli che, nella maggioranza dei casi, i cittadini tendono ad attribuire le colpe delle inefficienze agli operatori con cui interagiscono, non considerando che le responsabilità sono di chi è deputato alla programmazione e gestione della sanità regionale e non si ha conoscenza del fatto che il medico è subordinato ad un sistema oramai in disgregamento, su cui non ha voce in capitolo. Le colpe sono di chi organizza, non di chi è in prima linea. Noi sanitari soffriamo quanto voi per l’impossibilità di curare al meglio, dovendo lavorare in una disorganizzazione folle di cui ci vergogniamo e che continueremo a combattere perché sia riconosciuta la dignità del nostro lavoro e per la sicurezza delle cure dei cittadini”.

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