Dal luglio del 2019 a quello del 2022 fanno tre anni rotondi di assenza. Questo è il tempo passato, anch’esso di sabbia, dall’ultimo mio soggiorno in Italia, madre e patria secondo le migliori tradizioni di una volta. Eppure, in questa porzione di vita, di cose ne sono accadute e altre avrebbero potuto accadere a seconda degli avvenimenti. Tra questi c’è anzitutto da notare, dopo oltre due anni di cattività nel deserto del Sahara, la liberazione dell’amico e compagno di viaggio Pierluigi Maccalli. Parlavo di lui ancora assente, nell’ultima permanenza nel Paese, come di un albero che, piantato e radicato nella savana, coi suoi rami contorti, tiene il cielo e la terra attaccati l’uno all’altro. Dell’avventurosa prigionia si è portato dietro tre segni: un pezzo di catene, due legni a forma di crocifisso e i grani di stoffa di un rosario che tace raccontando le sue lacrime. Era il mese di ottobre quando la notizia filtrò a Niamey durante un incontro di persone che mai avevano smesso di pregare perché le catene coniugassero il verbo più bello di tutti.
Intanto gli altri continuavano a rapire, uccidere e generare sofferenze
senza che questo destasse eccessiva attenzione mediatica. Centinaia di
contadini sgozzati, migliaia di sfollati, bambini terrorizzati, scuole e
dispensari chiusi. La desolazione è uno dei nomi nuovi di molte zone
del Sahel. Paziente, tenace, radicata, nella quasi impossibilità di
raccontarla, indecifrabile nelle motivazioni eppure coerente con la follia. La
desolazione ha accompagnato questi tre anni vissuti nel luogo il cui nome dice
tutto: Sahel, spazio tra due rive. I migranti lo sanno bene perché, da decenni
o da secoli, passano tra una riva e l’altra di questa porzione d’Africa. A
migliaia attraversano frontiere ogni volta più armate e inospitali dove si
contendono il bottino commercianti, contrabbandieri, banditi, gruppi armati
terroristi, djiadisti e antiche carovane di sale. Cercano altrove, rischiano
tutto, investono soldi, anni e perizie per sopravvivere alla prossima morte nel
mare o nel deserto dell’indifferenza di chi crede che il modello di vita sia la
stabilità dei cimiteri.
Arrivò poi il totalitarismo sanitario, di immediata esportazione
cino-occidentale, sotto la sapiente regia dell’Organizzazione Mondiale della
Sanità fiancheggiata dalle realizzazioni teatrali di Davos in Svizzera. LA malattia, LA
pandemia, LA paura come sistema principale di governo con l’appoggio ben pagato
dei mezzi di comunicazione addomesticati al sistema dominante. La gente
continuava, qui, a morire di malaria e di fame e della violenza armata ma
bisognava fermare le frontiere, lavarsi le mani (ma prima c’era da trovare
l’acqua), tenere le distanze e soprattutto imparare a vaccinarsi perché
finalmente la salvezza era arrivata. Il nuovo aeroporto turco
internazionale di Niamey era tristemente vuoto di aerei, voli, prenotazioni e
le decine di lavoratori erano in lista d’attesa. C’erano infatti i VERI morti,
i morti COVID (poche decine in tutto il periodo) e gli altri che si contavano a
migliaia ma molto meno importanti. Fortuna che la gente non c’è cascata e, con
la complicità della sabbia, del sole, della giovane età, la prossimità con la
morte, le cure locali, né le maschere, né la distanza sociale, né la propaganda
intimidatoria, mai hanno preso piede nel Niger.
Poi, in questi tre anni c’erano loro, i signori della strada. Gli asini che
tirano sempre lo stesso carro e sono pestati ad ogni passo, i cammelli che
seguono in fila, le mandrie di buoi che si nutrono delle piante che il Comune
ha piantato la stagione precedente e i capri che contano i giorni prima di
essere sacrificati alla maniera di Abramo, anni or sono. Le strade di Niamey,
che la sabbia avvolge ogni sera e che gli addetti alla pulizia raccolgono il
mattino seguente prima che rispunti più folta di prima. Gli altoparlanti
che invitano i fedeli alla preghiera più volte al giorno cominciando presto
perché si levi il sole. Gli uffici dei ministeri che aprono a seconda delle
circostanze e degli immancabili funerali che non mancano l’appuntamento
settimanale. I cortei nuziali di auto e motociclette che deridono i limiti di
velocità, per matrimoni che durano qualche mese prima di sciogliersi e poi
provare di nuovo altrove. I venditori di tutto che appaiono e scompaiono, a
seconda delle ore del giorno e la stagione dell’anno, e i disoccupati che
vivono d’attesa. Le donne, eleganti come regine col velo che le rende più
fatali, parcheggiando in doppia fila per gli acquisti.
Niamey,
24 luglio 2022
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