Tutti i fenomeni attraverso cui è destinata a manifestarsi questa fine del mondo sono già in gran parte presenti: ghiacciai e calotte polari che si sciolgono, siccità e desertificazione, alluvioni che non vi pongono rimedio ma ne aggravano gli effetti, mare che si infiltra nelle falde, prosciugamento degli acquiferi, incendi che distruggono le foreste, non più moderati dall’umidità di suolo e piante e dalla scarsità di acqua per spegnerli, tifoni e diffusione di malattie nuove che non si riesce più a controllare. Sono tutti fenomeni in gran parte irreversibili.
I ghiacciai continueranno a sciogliersi e non si riformeranno per migliaia
di anni, anche se le emissioni di gas climalteranti cessassero domani (il che
non accadrà) e così le calotte polari. Gli acquiferi che abbiamo saccheggiato
non si riempiranno più, né torneranno a scorrere pacificamente i fiumi, che
alterneranno periodi di secca a piene che si trasformano in alluvioni. Le
estati saranno sempre più torride, tanto da rendere invivibili aree sempre più
estese del pianeta. Gli inverni saranno sempre più miti e avari delle precipitazioni
a cui siamo abituati e gli incendi sempre più estesi e violenti.
La situazione che stiamo vivendo non durerà solo qualche giorno, o
un’estate, o qualche anno, ma sarà la nuova normalità. Anzi, peggiorerà, con
alti e bassi, di anno in anno, spingendo un numero crescente di abitanti della
Terra ad abbandonare i loro Paesi per cercare sollievo e vivibilità in qualche
regione meno rovente.
Le prime vittime di questo processo saranno – sono già – l’agricoltura e
l’alimentazione che, con i loro consumi fossili, sono già oggi la principale
fonte di emissioni climalteranti (in gran parte per la produzione
di carni che impegna il 70 per cento dei suoli coltivati e dell’acqua
utilizzata). Mangiare qualsiasi cosa sarà sempre di più un problema per un
numero crescente di abitanti della Terra, ma industria e mobilità non se la
vedranno meglio.
Fino a quando (quando?) tutta l’energia utilizzata non sarà generata da
fonti rinnovabili non è affatto detto che quelle di diversa origine possano
bastare. Sia quella nucleare che quella di origine fossile hanno bisogno di
acqua, molta acqua, per funzionare. E ce ne è sempre meno a disposizione. In
Francia molte centrali nucleari si fermano non solo per guasti e logoramento,
ma perché non c’è più acqua per raffreddarle.
Si fermeranno in Italia e altrove molte centrali a gas e carbone per la
secca dei fiumi. Senza elettricità si ferma anche l’industria, anche
quella eventualmente impegnata nella produzione di impianti di energia
rinnovabile o nella ristrutturazione degli edifici per ridurne i consumi
energetici.
Conversione ecologica sempre più difficile
Così la conversione ecologica, anche volendola fare, sarà sempre
più difficile. Non parliamo della conversione dalla combustione
all’elettrico del parco veicoli (un miliardo e 300milioni di auto), oggi al
centro dell’attenzione. Che senso ha? Dove e come produrremo l’energia per
muoverlo, i materiali rari per farlo funzionare, quelli ordinari per
fabbricarlo se l’industria dovrà lavorare a singhiozzo? E il turismo? Che senso
ha fabbricare l’inverno con la neve artificiale per partecipare a uno scempio
come le Olimpiadi Milano-Cortina? Quando si scoprirà che viaggiare verso terre
lontane non garantisce più un sicuro ritorno?
E l’industria militare? Certo, è “prioritaria”. Le armi sono oggi il più
grande affare, l’unico che ha potuto guardare in faccia il covid senza
conseguenze. Arriverà una resa dei conti anche per loro, certo non prima di
aver mandato in tilt il resto dei settori industriali.
E le Grandi Opere? Di tutte quelle che si apprestano ad aprire i cantieri
con i fondi del Pnrr non resteranno che i debiti da saldare. Con che cosa? E a
spese di chi? Tutti questi blocchi si ripercuoteranno in chiusure, fallimenti,
licenziamenti, disoccupazione, perdita di reddito, senza che siano state
programmate collocazioni alternative per l’occupazione e la produzione.
Problemi ignorati
C’è qualcuno dei politici affaccendatisi intorno al destino del governo
Draghi, a partire dal suo titolare, che abbia anche solo nominato uno di questi
problemi mentre l’Italia (e il mondo) intorno a loro andava a fuoco? O qualche
membro della classe imprenditoriale? O qualche giornale che ne abbia fatto
l’apertura a sei colonne? O qualche giornalista – qualcuno forse
sì – che abbia trovato il modo di parlarne all’interno di pezzi dedicati al
proprio ambito: politica, economia, sport, moda, costume, giustizia, guerra,
ecc”.?
Mai il dibattito politico, il “servo encomio” di Draghi e il “codardo
oltraggio” del buon senso erano caduti così in basso: un teatro
dell’assurdo. Gli unici ad averlo capito sono i giovani di Fridays for
Future e i loro comprimari. Eppure, è di questo che bisogna innanzitutto
parlare.
E se ne avessimo parlato, se ne parlassimo, certo le cose prenderebbero
un’altra piega: non si metterebbero l’ambiente, il clima, le rinnovabili in
coda a un elenco di 9 punti su cui impegnare il governo o da proporre in
campagna elettorale. Si metterebbe finalmente in chiaro che per ottenere uno
qualsiasi di quegli obiettivi occorre affrontare di petto il problema del
clima. E come?
Il contenimento della crisi climatica e ambientale non dipende solo da noi,
né come individui, né a livello territoriale o nazionale; persino l’UE (che
vale il 10 per cento delle emissioni globali) conta poco. Tuttavia, ciascuno di
noi, ciascun territorio, ciascuna nazione e ciascun continente dovrebbe
sforzarsi di fare il possibile per contribuire a una conversione ecologica
complessiva. C’è molto da fare per tutti. Ma, soprattutto, c’è da trovare la
strada per farlo, che non è per nulla chiara come lo sono invece gli obiettivi
da perseguire e che è diversa da Paese a Paese come da individuo a individuo e
da impresa a impresa.
Adattamento: salvare il salvabile e lasciare indietro il superfluo
È chiaro che l’obiettivo centrale, quello di Parigi e di Glasgow (Convenzione
quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, sigla in inglese
Unfccc) di +1,5°C sul periodo preindustriale non sarà raggiunto.
Quindi, occorre prepararsi al meno peggio. E il meno peggio si chiama
adattamento. Salvare, fin che si è in tempo, quello che si ritiene
salvabile e lasciare indietro quello di cui c’è meno bisogno. Cominciando con
l’agricoltura e l’alimentazione che devono tornare a essere biologiche,
multicolturali, di prossimità, senza più allevamenti intensivi.
Poi con la cura del territorio, rimboschendolo il più possibile. E con la
mobilità, abbandonando per sempre l’idea di avere a disposizione “un cavallo
meccanico” a testa; la mobilità sostenibile è condivisione e pieno
utilizzo di ogni mezzo. E il turismo, oggi la più grande
industria del mondo, se ancora possibile, deve tornare a essere villeggiatura
di prossimità o avventura senza confort. Anche l’industria dovrà
ridimensionarsi e con essa sia l’aggressione alle risorse della Terra per
alimentarla che la moltiplicazione dei servizi per trovarle uno sbocco nei
nostri consumi. La scuola deve diventare un centro di formazione alla
convivenza aperto a tutti e la cura della salute deve spostare il suo asse
dalla terapia alla prevenzione.
In una prospettiva del genere, ci sarà posto per tutti su quel che
resterà della Terra, sia per abitarla che per garantire a ciascun un ruolo,
un’attività, un modo di rendersi utile senza piegarsi al feticcio
dell’occupazione, che riguarda sempre e solo una parte della popolazione. Ma
chi ha il coraggio di mettersi su questa strada?
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