Due diversi sversamenti di greggio hanno inquinato in
gennaio enormi aree protette dell’Amazzonia ecuadoriana attorno a Piedra Fina e
le coste peruviane nei pressi di Lima, tra due riserve naturali. Le
ricostruzioni riconducono a cause evitabili, se si seguissero protocolli di
sicurezza o materiali resistenti, ma ciò che risulta subito evidente è che la
causa prima del disastro ecologico è il sistema estrattivista di un capitalismo
rapace, le cui scelte di privatizzazione e di catene di approvvigionamento
insicure sono improntate al massimo profitto. E non è mai un approccio a favore
dell’ambiente, come si evince dall’esposizione di Diego Battistessa, che in
questo pezzo accomuna i due eventi proprio per la riconducibilità palese al
sistema di sfruttamento delle risorse fossili.
Nel mese di gennaio due gravissimi disastri ambientali hanno colpito il Perù e l’Ecuador. Non si tratta di
casi isolati ma di esternalità negative prodotte da strategie economiche di
estrattivismo massivo: esternalità che nel corso degli anni vengono
ciclicamente prodotte da un capitalismo predatorio che in America Latina trova
il suo asse portante nell’estrazione mineraria e nello sfruttamento delle
risorse idriche e di idrocarburi. Le imprese private alla quali i governi
latinoamericani garantiscono (o hanno garantito) concessioni lucrative e una
quasi totale impunità, hanno calpestato per anni i diritti delle popolazioni
indigene, non rispettando in molti casi la Convenzione dei popoli indigeni e tribali
del 1989 (n. 169) dell’Oit che garantisce alle stesse il
diritto del consenso libero, preventivo e informato sulla costruzione e/o
attivazione di progetti con grande impatto socio-ambientale nei loro territori.
Il continuo attacco alle coste pacifiche
Il primo disastro in ordine di tempo è quello avvenuto in Perù, dove uno sversamento di 11.000
barili di petrolio avvenuto il 15 gennaio nella raffineria La Pampilla (nel
quale è coinvolta la petroliera italiana Mare Doricum) ha contaminato
decine di chilometri di costa tra cui due aree protette: la Zona
Reservada de Ancón e la Reserva Nacional Sistema de Islas, Islotes y Puntas
Guaneras. Lo sversamento si sarebbe prodotto (da quanto ricostruito fino a ora)
mentre la Mare Doricum, stava consegnando il
suo carico di petrolio nella raffineria gestita dalla compagnia petrolifera
spagnola Repsol. Durante le operazioni di scarico la petroliera sarebbe stata
colpita dallo tsunami provocato dall’eruzione del vulcano Hunga Tonga-Hunga Ha’apai (Tonga, Oceania):
esploso proprio il 15 gennaio liberando una quantità di energia tra i 5 e i 30
megatoni di Tnt (secondo le prime stime realizzate dalla Nasa). Il risultato di
quello che è già il più grande disastro ambientale della storia del Perù, sono
decine di chilometri di costa pacifica a nord di Lima sommerse dal liquido
nero, animali intossicati o uccisi dalla
sostanza viscosa e migliaia di pescatori locali che hanno perso il lavoro. Se
il danno è certo e visibile, stessa cosa però non si può dire della causa dello
sversamento. La versione al vaglio degli inquirenti non è infatti la prima
versione data da Repsol, che il 16 gennaio aveva riportato un piccolo incidente
con la fuoruscita di poche decine di barili. Solo successivamente, di fronte
all’innegabilità dei fatti, la compagnia spagnola ha ritrattato la sua versione
offrendo supporto alle operazioni di mitigazioni del danno.
L’incredibile difesa di Repsol
Il presidente di Repsol Perù, Jaime Fernández-Cuesta,
ha affermato nei giorni successivi all’accaduto che, sebbene la compagnia abbia
commesso degli errori – soprattutto rispetto alle dichiarazioni iniziali sulla
quantità di petrolio sversato –, a oggi il piano di contingenza di Repsol è
attivo impegnando circa 850 persone sulla costa, oltre a tre macchine per la
pulizia marina, sei serbatoi galleggianti, 13 navi di grosse dimensioni grandi
e 31 navi più piccole nelle acque circostanti. Un’azione, quella di Repsol, che
però è stata giudicata tardiva dalle autorità peruviane che, per bocca della
(ora ex) prima ministra Mirtha Vásquez,
hanno annunciato a gennaio la possibilità di denunciare la multinazionale in
tre diversi ambiti: false dichiarazioni, deficienza e lentezza del piano di
contingenza e la obbligatorietà di garantire aiuto umanitario alla
popolazione danneggiata per l’accaduto.
La situazione politica in cui capita
Una battaglia che si preannuncia lunga e complicata anche per l’incerto
orizzonte politico del Perù attuale. Mirtha Vásquez è infatti una delle
protagoniste di quello che sicuramente è oggi uno dei panorami politici più
complessi della regione. Pedro Castillo, nominato presidente a metà 2021 dopo
una serrata, lunga e dura battaglia elettorale contro Keiko Fujimori, non
sembra poter trovare il bandolo della matassa e dà l’impressione di camminare
in un terreno minato dove è difficile distinguere gli amici dai nemici. Per
responsabilità proprie, sabotaggi interni alla sua coalizione e attacchi
costanti dall’opposizione (da distribuire secondo le simpatie e percezioni del
caso), Castillo è stato incapace di dare continuità alla sua azione di governo
e dopo 6 mesi di presidenza si trova in questi giorni a cambiare il suo
gabinetto per la quarta volta. A Natale 2021 infatti, il paese e la stampa già
facevano i conti con 11 cambi al vertice dei vari ministeri dando conto che dei
19 ministri in carica a quella data, solo 10 avevano iniziato il mandato
insieme a Castillo 5 mesi prima. Il 2022 non è iniziato in modo diverso.
L’avvocatessa Mirtha Vásquez ha infatti rinunciato al suo incarico di primo
ministro il 31 gennaio, allegando come detonante della sua decisione le
dimissioni dell’ex ministro dell’interno Avelino Guillén. Al suo posto Castillo
ha nominato a inizio febbraio l’avvocato e congressista Héctor Valer che però
ha rinunciato all’incarico dopo soli 8 giorni per lo scandalo prodotto dalla
pubblicazione di una serie di denunce per aggressione familiare che lo
riguardano. Infine l’8 febbraio il presidente Castillo ha dovuto promuovere in
modo repentino e urgente Aníbal Torres Vásquez (che era ministro della
Giustizia e Diritti Umani da luglio 2021) al ruolo di presidente del consiglio
dei ministri. In tutto questo l’opposizione non sta a guardare e il 18 novembre
la congressista di Avanza País, Patty Chirino ha promosso una “moción de
vacancia” (istanza di destituzione) per supposta incapacità morale nella guida
del paese di Castillo. La mozione non ha prosperato visto che necessitavano 52
voti a favore nella votazione del 7 dicembre e ne sono stati ottenuti solo 46;
contrari alla mozione: 76 e 4 astenuti.
Il partito di estrema destra Renovación popular ha però annunciato il 2
febbraio una nuova “moción de vacancia”, negando questa volta a Castillo le
competenze per poter governare il paese. La questione risulta ancora più
complessa se si pensa che mentre Renovación popular presentava la mozione, era
primo ministro Héctor Valer, che in passato aveva militato nelle fila di quella
formazione. Insomma una scacchiera degna di Garri Kaspárov.
Basta una pietra a produrre una falla
micidiale
In Ecuador la fuoruscita di 6300 barili di
petrolio in Amazzonia nella zona di Piedra Fina, provincia
amazzonica di Napo (circa 80 km dalla capitale Quito) ha portato il greggio a
raggiungere alcune aree protette nel Parco nazionale Cayambe Coca, provocando
un grave disastro ecologico. La fuoruscita è avvenuta il 28 gennaio quando una
pietra di grosse dimensioni è franata (a causa della forti piogge) sul grosso
tubo dell’oleodotto dell’impresa privata Oleuducto
de crudos pesados – Ocp Ecuador. La Confederazione delle
nazionalità indigene dell’Ecuador (Conaie) ha denunciato immediatamente attraverso le
sue reti la fuoriuscita, allertando riguardo all’enorme danno
ambientale e criticando le politiche estrattiviste del nuovo presidente
Guillermo Lasso (alla presidenza dal maggio 2021).
Le riparazioni di Ocp Ecuador
Jorge Vugdelija, presidente esecutivo di Ocp Ecuador ha dichiarato a inizio
settimana alla stampa ecuadoregna che il 7 febbraio sono terminati i lavori di
riparazione all’oleodotto e che le operazioni di trasporto del greggio
dall’Amazzonia fino al porto sul Pacifico di Esmeraldas, sono
riprese senza inconvenienti. Incalzato rispetto al danno ecologico provocato,
Vugdelija ha assicurato che le azioni di riparazione ambientale e compensazione
sociale sono già state attivate seguendo gli accordi presi con il governo e con
l’appoggio e l’accompagnamento delle autorità. Ocp Ecuador ha confermato che
sono state già inviate sul posto tre imprese specializzate in mitigazione del
danno ambientale, con un dispiegamento di 790 persone nella zona della
fuoruscita. Allo stesso modo è stato comunicato da Vugdelija che sono stati
ritirati circa 1000 metri cubi di terra contaminata, che sono stati già
distribuiti 120.000 litri di acqua e kit alimentari alla popolazione vittima
del disastro e che sono state inviate delle equipe mediche per iniziare ad
affrontare problemi di salute nei centri abitati della zona.
La lunga scia di danni nei 20 anni di
oleodotti ecuadoriani
L’oleodotto Ocp è il secondo più grande dell’Ecuador e trasporta circa il 30% della produzione petrolifera del paese: è lungo 485 chilometri e può trasportare 450.000 barili al giorno (attualmente ne trasporta 180.000). Nel 2001 l’impresa privata Ocp Ecuador ha prodotto uno studio ambientale sull’impatto del progetto che è stato successivamente attivato nel 2003. Fin dall’inizio però si sono manifestate grosse negligenze che hanno portato a severi danni ambientali. Il tragitto dell’Ocp (che va da lago Agrio vicino ai giacimenti petroliferi della regione dell’Oriente dell’Ecuador fino al terminal petrolifero di Balao a Esmeraldas, sulla costa pacifica) infatti corre per buona parte parallelo all’oleodotto SOTE – Sistema de Oleoducto Transecuatoriano: il primo oleodotto partito dall’Amazzonia ecuadoriana nel 1972 e lungo 497 chilometri. Nell’aprile del 2003, durante i lavori per la costruzione dell’oleodotto Ocp è stato danneggiato il Sote, provocando una fuoriuscita di petrolio di 10.000 barili che ha raggiunto la Riserva Cayambe Coca e la laguna di Papallacta, che fornisce circa il 60% dell’acqua potabile di Quito. Da quel momento in poi si sono riportati numerosi incidenti e fuoruscite di petrolio (2009, 2013 zona di Esmeraldas e 2020 zona cascata San Rafael).
La lotta delle comunità indigene
Rispetto a quest’ultima fuoruscita di petrolio di fine gennaio 2022, il
ministro dell’Ambiente dell’Ecuador, Gustavo Manrique, ha segnalato che è stata
avvistata una chiazza di petrolio arrivata fino ad Añangu, nel Parco
nazionale Yasuní. Il rapporto del ministro
coincide con quanto già affermato e denunciato dalle comunità indigene (come il
video pubblicato dalla leader indigena Nina Gualinga), che hanno stimato
che l’ultima fuoriuscita ha interessato almeno 300 chilometri, dall’area in cui
l’oleodotto si è rotto fino all’ingresso dell’area dello Yasuní.
Il petrolio ha contaminato le fonti di acqua e cibo di centinaia di
comunità indigene visto che lo sversamento ha raggiunto gli affluenti del
fiume Coca: almeno 60.000 persone sarebbero state colpite da questo
disastro.
In un contesto difficile nel quale le comunità indigene e in generale gli
abitanti dell’Amazzonia ecuadoriana vivono una ulteriore avanzata del
neocolonialismo estrattivo è arrivata però una buona notizia. Il 4 febbraio
infatti l’Ong Alianza Ceibo ha pubblicato questo comunicato
stampa, dando conto di una grandissima vittoria per le popolazioni indigene
ecuadoriane:
«La Corte Costituzionale dell’Ecuador infatti si è pronunciata poco fa a
favore del diritto dei popoli indigeni di decidere, in base alle loro forme di
governo, il futuro dei loro territori in Amazzonia. Questa sentenza è storica e
fornisce uno dei precedenti più potenti al mondo sul diritto dei popoli
indigeni ad avere l’ultima parola sui progetti estrattivi che interessano le
loro terre. Questo diritto, noto anche come Consenso Libero, Previo e Informato
(Fpic), ci offre un potente strumento per proteggere 9,3 milioni di ettari di
territori ancestrali in tutto il paese, e quindi affrontare i piani del
presidente Guillermo Lasso, che intende intensificare l’estrazione di petrolio
e la produzione mineraria. La lunga battaglia che la Comunità di Sinangoe ha
condotto per la difesa del proprio territorio è un’azione esemplare condotta
dalle popolazioni indigene per mitigare la crisi climatica globale».
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