Per definire e analizzare il razzismo è necessario anzitutto sbarazzarsi della categoria di “razza”, da cui pure deriva l’etimologia del termine. Questa categoria, con cui si pretende di descrivere e gerarchizzare i gruppi umani sulla base del biologico, è stata criticata e ormai abbandonata sia dalle scienze sociali, sia da quelle naturali.
I biologi hanno dimostrato, fra l’altro, che la distanza genetica media fra
due individui è pressappoco pari a quella che separa due supposte razze. Tuttavia, la dimostrazione dell’infondatezza
della “razza” non ha mai interdetto e tuttora non interdice che certe collettività
siano percepite, categorizzate, trattate quasi fossero “razze”.
E le “razze” s’inventano. Come insegna la lunga e tragica storia dell’antisemitismo,
qualunque gruppo umano può essere razzizzato, indipendentemente
dalle sue peculiarità fenotipiche e perfino culturali e sociali. Lo stigma della razza è, infatti, l’esito di
un processo sociale di etichettamento: in definitiva, tutte le “razze” sono
inventate.
La differenza “di colore” non c’entra niente. Gli
italiani emigrati negli Stati Uniti, in Germania, in Svizzera, in Francia ecc.
erano considerati individui di razza diversa: disprezzati e
trattati più o meno come oggi sono trattate le persone di origine immigrata. A New Orleans
nel 1891 furono linciati undici italiani, quasi tutti siciliani, accusati
di aver ucciso il capo della polizia urbana, cosa palesemente falsa.
Ad Aigues-Mortes, in
Francia, nell’agosto del 1893, furono uccise decine di lavoratori italiani
che erano lì, nelle saline, per la raccolta stagionale del sale. E il
razzismo anti-italiani si è perpetuato fino ad anni recenti.
Gli ebrei, che furono sterminati a milioni nei
lager nazisti, non erano certo neri ed erano di nazionalità e culture analoghe
a quelle del resto degli europei.
A dimostrare ciò che dico, basta pensare agli albanesi. A partire dai primi anni ’90 ci
furono massicci esodi di albanesi verso l’Italia. E l’albanese diventò il bersaglio d’insulti e
atti razzisti. Ogni volta che si verificava un fatto di cronaca nera, uno
stupro, un omicidio, ecc., si additava come colpevole qualche albanese; al
punto che “albanese” finì per diventare un insulto abituale che si scambiavano
perfino i bambini.
L’8 agosto 1991, approdarono nel porto di Bari, sulla nave Vlora,
20mila profughi albanesi, che dapprima furono accolti dalla popolazione con una
certa solidarietà. Ma intanto si era avviata la macchina della propaganda
politica e mediatica contro di loro e l’orientamento del governo italiano si
era assai indurito. Così che i profughi furono rinchiusi in massa nel vecchio
Stadio della Vittoria e trattati come animali in gabbia, per essere poi
rimpatriati con l’inganno.
Non solo. Gli albanesi sono stati anche vittime di una strage. Ricordo che
nella notte fra il 28 e il 29 marzo del 1997, una carretta del mare, carica di
profughi albanesi fu speronata e affondata da una corvetta della marina
militare italiana, la Sibilla. Morirono annegate più cento persone, in
maggioranza donne e bambini.
Ciò detto, come si potrebbe
definire il razzismo? Io propongo questa definizione: è un sistema d’idee,
discorsi, rappresentazioni e pratiche sociali, che attribuisce a gruppi umani e
agli individui che ne fanno parte differenze essenziali, generalizzate,
definitive, allo scopo di legittimare pratiche di stigmatizzazione,
discriminazione, segregazione, esclusione, perfino sterminio.
Conviene aggiungere che alle collettività definite come radicalmente
differenti di solito è negato il diritto di autodefinirsi.
Il razzismo, quindi, ha bersagli diversi secondo
i periodi e le circostanze storiche. Per esempio, il fatto che l’Italia sia
stata un paese fascista e colonialista conta molto nel razzismo attuale verso
le persone immigrate o solo di origine immigrata. Si consideri, inoltre, che secondo
sondaggi successivi, l’Italia
s’illustra anche per antiziganismo: l’82% del campione intervistato esprime
ostilità, odio o paura per la presenza di appena 180mila “zingari”.
Il razzismo è anche il risultato di un circolo
vizioso. Diventa sistemico e abituale, quando è direttamente o indirettamente
incoraggiato o perfino praticato dalle istituzioni e da mezzi di comunicazione. Quando
l’intolleranza verso determinati gruppi o minoranze, diffusa nella società, è
legittimata dalle istituzioni, anche europee, e dagli apparati dello Stato,
nonché dalla propaganda e da una parte del sistema dell’informazione, è allora
che s’innesca tale circolo vizioso.
È un circolo vizioso micidiale. Basta considerare lo stato di abbandono nel
quale sono gettati numerosi richiedenti-asilo, che pure dovrebbero essere
oggetto di protezione particolare: di fatto privati perfino del diritto di
sfamarsi e di avere un tetto sulla testa, in molti casi vanno a raggiungere la
schiera dei senza-dimora, cosa che a sua volta fa gridare allo scandalo i
difensori del decoro urbano e diviene pretesto per leggi e ordinanze
persecutorie e liberticide, e per campagne allarmistiche intorno al tema
dell’insicurezza, uno dei più insistenti nel discorso pubblico .
Conviene aggiungere che il
sistema-razzismo è sempre sorretto sia da un apparato di leggi, norme,
procedure, che hanno per effetto di inferiorizzare, discriminare, segregare,
escludere migranti, rifugiati e minoranze; sia da dispositivi simbolici,
comunicativi, linguistici, che sono in grado di agire direttamente sul sociale,
producendo e riproducendo discriminazioni e ineguaglianze.
Parlare delle tante leggi che discriminano le persone immigrate e rifugiate
sarebbe troppo lungo.
Perciò facciamo solo un esempio relativamente recente: la criminalizzazione da parte delle
istituzioni italiane non solo delle ONG che praticano ricerca e soccorso in
mare, ma pure di chiunque, anche individualmente, compia gesti di solidarietà
verso i profughi. È indubbio che un tale luminoso esempio dall’alto non faccia
che incoraggiare e legittimare intolleranza e razzismo “dal basso” (per così
dire).
Pensate ai tanti episodi di barricate contro l’arrivo di richiedenti-asilo,
ma anche alle sempre più numerose rivolte nei quartieri popolari, soprattutto
romani, contro l’assegnazione di case popolari a famiglie non perfettamente
“bianche”. In questi casi l’ingannevole formula della “guerra tra poveri”
non potrebbe essere più assurda, visto che spesso, a istigare e guidare tali
rivolte, sono militanti di Forza Nuova o CasaPound. Qui il circolo
vizioso arriva fino al rafforzamento e legittimazione, pur implicita o
involontaria, della destra neofascista.
La tendenza a costruire una comunità razzista (secondo
l’espressione del filosofo Etienne Balibar) si accentua quando il senso civico
è debole e le relazioni sociali basate sulla reciprocità e sulla solidarietà si
sono inaridite, quando prevale la cultura dell’individualismo, dell’egoismo,
del cinismo collettivi, quando le rivendicazioni sociali e i conflitti di
classe (come si diceva un tempo) non hanno più lingua e forme in cui
esprimersi.
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