Per individuare strade
diverse dal mito della crescita, si parla spesso di alimentare nelle aree
interne ecoturismo e autoimprenditorialità, che pure hanno contribuito a
spopolamento e alla fine di tante economie di sussistenza. Naturalmente in
questo scenario ci sono quelli che non smettono di imporre le logiche delle
grandi opere. Tuttavia negli ultimi anni sono nati diversi comitati e reti, ma
anche luoghi, che su questi temi condividono domande, valutano proposte,
esplorano forme di economia comunitaria. Sull’Appennino bolognese, ad esempio,
la Bisaboga è diventata un punto di
ritrovo fondamentale per tutte queste correnti, uno spazio aperto, generoso e
autogestito, la cui forza sarebbe sbagliato misurare solo in termini monetari
“Se teniamo conto del fatto che anche l’essere
umano è una creatura di questo mondo, che ha diritto a vivere e ad essere
felice, e inoltre ha una speciale dignità, non possiamo tralasciare di
considerare gli effetti del degrado ambientale, dell’attuale modello di
sviluppo e della cultura dello scarto sulla vita delle persone. Oggi
riscontriamo, per esempio, la crescita smisurata e disordinata di molte città
che sono diventate invivibili dal punto di vista della salute, non solo per
l’inquinamento originato dalle emissioni tossiche, ma anche per il caos urbano,
i problemi di trasporto e l’inquinamento visivo e acustico. Molte città sono
grandi strutture inefficienti che consumano in eccesso acqua ed energia. Ci
sono quartieri che, sebbene siano stati costruiti di recente, sono
congestionati e disordinati, senza spazi verdi sufficienti. Non si addice ad
abitanti di questo pianeta vivere sempre più sommersi da cemento, asfalto,
vetro e metalli, privati del contatto fisico con la natura. In
alcuni luoghi, rurali e urbani, la privatizzazione degli spazi ha reso
difficile l’accesso dei cittadini a zone di particolare bellezza; altrove si
sono creati quartieri residenziali “ecologici” solo a disposizione di pochi,
dove si fa in modo di evitare che altri entrino a disturbare una tranquillità
artificiale. Spesso si trova una città bella e piena di spazi verdi ben curati
in alcune aree “sicure”, ma non altrettanto in zone meno visibili, dove vivono
gli scartati della società” (Enciclica “Laudato si'”, papa Francesco,
24 maggio 2015, par. 43-45)
Le aree interne (quando si ha poca immaginazione)
Quando si guarda allo sviluppo delle aree interne come a una delle
possibili alternative al mito della crescita delle metropoli globali, i termini
che emergono sono spesso quelli dell’autoimprenditorialità e dell’ecoturismo.
Ci chiediamo: non è un paradosso riproporre in montagna un paradigma che ha
contribuito al loro stesso spopolamento (verso le città), a scandire la fine
dell’economia locale e di sussistenza? Certo, ora viene riproposto
all’incontrario: l’imprenditoria che torna in Appennino e lo ripopola, con
maggiore attenzione al territorio, con un’idea di turismo sostenibile, attento,
lento… eppure ci sembra che le soluzioni proposte non arrivino tanto dal
territorio, ma dalle esigenze e dalle idee scaturite dalla città. Ci sembrano
idee che servono a rendere le zone interne un’estensione della città, un luogo
dove “rigenerarsi”, dove fare prodotti tipici e genuini da riportare nei circuiti
commerciali urbani. L’Appennino bolognese, ad esempio, è anche questo, e
storicamente è stato un luogo dove, tra le altre cose, si producevano materie
prime per la città. Ma che sia solo questo? Se tutto esiste in primo luogo in
base alle esigenze e al potere economico del vicino più affluente, di chi abita
in città, allora chiediamoci dove finisce la città, e dove inizia il resto? A
noi, un gruppo di persone che abitano l’Appennino in provincia di Bologna
(senza alcuna pretesa di essere rappresentativə di alcunché), sembra che questo
nuovo entusiasmo per lo sviluppo delle aree interne vada accolto con le dovute
cautele.
Nei posti che abitiamo vediamo le tracce di un passato lontano, di vecchi
fienili in disuso, di metati (gli edifici adibiti all’essiccazione delle
castagne) abbandonati, di mulini non più in funzione. L’economia di scala e gli
allevamenti intensivi in particolare hanno scandito la fine di molte di queste
attività di sussistenza. Ora si vuole pensare a un nuovo turismo: ma qui
le seconde case già abbondano. Vuote 11 mesi l’anno (quando non sono 12),
contribuiscono a creare dei veri e propri buchi in un territorio già
scarsamente abitato. Sappiamo che il turismo porta ricchezza, ma non
necessariamente competenze avanzate (né lavori ben pagati), senso di comunità,
sviluppo culturale, qualità del vivere.
Non vogliamo rifiutare il turismo – perché crediamo nella virtù e nei
vantaggi di essere un territorio aperto e ospitale – ma non vogliamo nemmeno
che diventi un modo di vivere di rendita, creando tante piccole oasi atomizzate
che danno lavoro sì, ma che non aiutano a riconnettere il luogo, a creare
competenze adatte alla geografia in cui viviamo, che non ci aiutano a
riflettere su uno stile di vita consono (invece di riprodurre il più possibile
quello della città). In particolar modo, sappiamo che c’è il rischio
concreto di portare soldi nelle tasche di pochi e svantaggi a molti altri: gli
affitti brevi hanno causato un aumento del costo dell’abitare praticamente
ovunque. Lo abbiamo visto a Barcellona: le persone si sono
letteralmente ribellate al turismo, e in Portogallo l’iniziativa volta a
diventare l’hub dei nomadi digitali ha creato una situazione di difficile
gestione. Anche in Italia, e a Bologna, dove persino gli agenti di
polizia non trovano casa, dovremmo conoscere bene questo problema. In Appennino
bolognese, per quanto possa sembrare strano, trovare casa non è semplice già
oggi. A questo si aggiunge il problema della stagionalità: cosa succede a tutte
quelle attività al di fuori dei pochi mesi che interessano l’alta stagione?
Cosa succede alle potenziali abitazioni, al di là dei pochi weekend di
villeggiatura?
A questa idea dello sviluppo urbano-centrico si aggiunge la continua
ossessione per le grandi opere. In piena crisi climatica si è
deciso di costruire (con più di 4 milioni di euro di investimento pubblico) una
nuova seggiovia per gli sport invernali, sul Corno alle Scale, una zona che ha
registrato un aumento di 1,8C° dal 1961 al 2018, dove è ormai necessario
ricorrere alla neve artificiale. Contro questa incapacità di pensare economie
diverse si sono già mobilitati diversi abitanti, che hanno portato i
sollevamenti della terra (Les Soulèvements de la Terre in Francia)
qui in Italia, e altri che hanno costituito il comitato “Un altro
Appennino è possibile”, sostenendo un tipo di turismo
responsabile che valorizza, non distrugge, quello che già abbiamo. Anche qui,
purtroppo, siamo in “buona” compagnia: la follia di ignorare completamente una
realtà ecologica alterata è la stessa che vediamo sulle Alpi francesi per i
Giochi Olimpici Invernali 2030, anch’essi soggetti a grandi spese e prospettive
incerte.
Se quindi il problema è tanto ecologico quanto sociale e culturale, non è
un caso che sia l’ecofemminismo a darci strumenti preziosi, tra cui l’idea
di partire dalle domande, e non dalle risposte. Come facciamo a
risolvere il problema per cui tante persone giovani sentono di abitare in
“paesi dormitorio” (in attesa di andare altrove)?
In Appennino bolognese, da qualche anno, è nato il progetto “Rete
Appenninica” (https://reteappenninica.it/),
e di domande ce ne siamo fatte tante. Anche quelle più elementari ci hanno
fatto riflettere parecchio: “Chi siamo? Come è fatto il luogo che abitiamo? Che
problemi abbiamo, e come vogliamo risolverli? Quali sperimentazioni sono già in
atto?”. Da qui sono nate tante riflessioni, ma in particolare una è stata
quella che condividevamo maggiormente. Quale modello economico è sostenibile in
Appennino (bolognese), oggi? Come possiamo sostenerlo, farne parte, farlo
nostro?
Economie di comunità
Da queste domande è emerso una volontà comune: quella di trovare nuovi modi
di vivere e lavorare in Appennino, di uscire dalle dinamiche dell’imprenditoria
estrattiva, di esplorare nozioni di economia comunitaria. Tutto questo
integrando da subito la sostenibilità, invece di subordinarla alla crescita
economica. Problema: i modelli scarseggiano. Ci sono tante iniziative valide e
tanti fondi disponibili per lo sviluppo delle aree interne, e questo
sicuramente è un fatto positivo: ma rimangono tutte fermamente ancorate
all’idea di portare crescita e lo sviluppo ad una “regione dimenticata”. Forse
dimenticandosi, a loro volta, che è stata proprio la corsa al progresso a
rendere queste aree sconnesse, a lasciarle indietro, a rendere l’economia
familiare e di sussistenza un ricordo del passato.
Quello che sentiamo, di conseguenza, è che servono passi avanti più decisi,
che serve coraggio e tanto lavoro per creare qualcosa che non riproduca, in
piccolo, le dinamiche di esclusione e precarietà che vediamo altrove. Anche se
risulta molto più difficile, anche se significa trovare molti meno riferimenti,
c’è tanta voglia di capire come fare economia nelle zone interne, ma di farla
assieme.
In questo ambito è nato un percorso sul tema “economia comunitaria”, con
l’idea di affrontare temi importanti: capire quali forme legali si possono
usare per fare comunità che “genera lavoro”, ripensare il
rapporto con il denaro e la finanza (che non significa abolirli, ma
riappropriarsene), studiare casi esistenti di economie comunitarie legate
all’abitare collettivo e alla gestione dei beni comuni. In una serie di
incontri, tenutisi nel 2023 e 2024, sono stati affrontati i temi delle
cooperative di comunità, del lavoro volontario in rapporto a quello salariato,
della gestione economica delle comunità abitative – occasione in cui abbiamo
incontrato le comuni di Bagnaia, Urupia e dell’Alvador, e gli ecovillaggi
Corricelli e Meraki – dei beni comuni (storia, rilevanza, forme
giuridiche). Durante questo percorso è stata avviata anche una
collaborazione con Mag6 per formarsi sullo strumento del bilancio. Da
più di trent’anni Mag6 sperimenta nell’ambito della
finanza mutualistica e solidale, esplorando la connessione tra la sfera
economica (il denaro) e quella sociale (le relazioni) della dimensione umana.
Non ci siamo fissati con l’economia e la finanza (etica) per rimanere nella
teoria dei massimi sistemi, ma perché abbiamo capito di avere bisogno di questi
strumenti e di poterli applicare alle nostre concrete esigenze. Queste esigenze
riguardano la vita quotidiana in Appennino bolognese, e per
citarne alcune:
§
Nonostante ci troviamo in una zona rurale e di produzione alimentare, non
esiste una rete di distribuzione locale, e il cibo che spesso consumiamo
proviene dalla grande distribuzione (e quindi spesso da altre regioni, da altri
paesi).
§
I centri più grandi (come Vergato o Marzabotto) hanno accesso a luoghi
dedicati alla cultura e all’incontro; nei paesini e nelle frazioni bisogna
darsi da fare per creare quegli spazi. Nei centri più piccoli inoltre i servizi
di base (come i presidi medici, i consultori, gli uffici postali…)
scarseggiano, essendo questi luoghi assoggettati ad una visione che li
considera unicamente funzionali al turismo stagionale.
§
La realtà geografica montana rende difficile spostarsi senza un veicolo
proprio. Il trasporto pubblico c’è, ma è molto essenziale
§
Pur essendo in zone scarsamente popolate, è difficile accedere alla casa.
Molte abitazioni sono fatiscenti, inabitabili (soprattutto nelle stagioni invernali),
abbandonate, o vittima di logiche speculative (eh sì, anche qui!); gli affitti
scarseggiano. È difficile trovare soluzioni abitative per chi non può
permettersi di comperare (e spesso ristrutturare).
Per affrontare questi temi, abbiamo capito che dobbiamo attivarci oltre che
chiedere alle istituzioni di intervenire, e che dobbiamo trovare un modo di
finanziarci. Non ci aspettiamo di generare un classico lavoro a “tempo pieno”:
da un lato riconosciamo che il cambiamento non può avvenire unicamente tramite
il lavoro volontario, dall’altro stiamo imparando a pensare in termini di
mutualismo piuttosto che alla verticalità “datore di lavoro-impiegato”.
L’importanza dei luoghi
Il lavoro è tanto, ma quello che appare subito chiaro è che anche iniziative
relativamente piccole possono dare veramente tanto. A Montasico, dal
2020, la Bisaboga è diventata un punto di ritrovo fondamentale per tutte queste
correnti, ha fatto conoscere tante persone, ha reso possibili le
connessioni che hanno poi dato vita al progetto della Rete Appenninica. La
Bisaboga è uno spazio autogestito che ha sempre dimostrato molta
generosità a chiunque volesse farne uso, rispettosamente. In apparenza, la
Bisaboga è poco più che una vecchia osteria di paese in disuso. Di fatto era un
luogo come tanti altri qui in Appennino, un edificio destinato a diventare
vittima del tempo. L’intervento di un gruppo di persone ben affiatate e decise
(ad avere un proprio spazio culturale di riferimento) è bastato per
renderlo un luogo aperto, infinitamente più accogliente, generativo
di nuove iniziative. In Bisaboga ci sono stati spettacoli, concerti,
mercati, incontri, discussioni, proiezioni, laboratori artistici ed artigianali.
Tutto questo grazie alla presenza di persone sia del luogo, sia che arrivate da
altre città, regioni, spesso anche altri paesi. Dire che ciò è avvenuto
a costo zero significa di nuovo cadere nell’idea che tutto va misurato in
termini monetari: costruire la Bisaboga così come costruire la Rete Appenninica
ha richiesto impegno, energie, risorse. Questo lavoro non è stato “gratis”, ma
non è nemmeno “costato” nel senso più comune del termine. Quello che
emerge è la necessità di imparare a riconoscere questo valore, senza
necessariamente metterci un prezzo: questo tipo di valorizzazione e di
ragionamenti rientrano nel discorso sui beni comuni, che non sono un’astrazione
né un’idea buonista campata in aria, quanto piuttosto entità specifiche che
meritano di essere sviluppate come vere e proprie istituzioni. Come scrive il
giornalista britannico George Monbiot (nel libro Out of the wreckage,
in Italia “Riprendere il controllo”), la cultura della partecipazione non è
pura utopia: una solida rete di partecipazione dal basso è in grado di
soddisfare quei bisogni che le istituzioni faticano a coprire con i servizi (in
particolare in zone geografiche “difficili” come quelle montane), ma con un
costo decisamente più basso. In uno studio a Lambeth, a Londra, la spesa
necessaria per sostenere una rete di partecipazione dal basso è stata
stimata a 400.000 sterline (circa mezzo milione di euro) per 50.000 abitanti,
una piccola frazione del budget pubblico. Questo non significa sostituirsi alle
istituzioni, quanto piuttosto chiedere un impegno a sostegno dei diritti di
tutti.
Quello che vogliamo non è semplicemente “farci finanziare”, né di trarre
profitto dal nostro “investimento”, quanto di potere trasformare questo piccolo
capitale sociale in qualcosa di stabile, riconosciuto, valorizzato. Trovare i
modi di creare o potenziare luoghi di produzione, di scambio, di
collaborazione; di creare lavoro e opportunità (oltre il volontariato),
rimanendo però fermamente ancorati nella cultura dei beni comuni, della
condivisione e dell’orizzontalità. Facendo questa scelta, abbiamo capito quanti
pochi esempi funzionanti di questo tipo ci siano, e quanto siano preziosi.
Preziosi non solo perché esistono e resistono, ma perché hanno condiviso tanto
con noi, hanno dimostrato nei fatti che l’informazione può e deve essere
libera. Di fatto, hanno reso possibile il ciclo di incontri in Appennino
bolognese, spesso venendo da lontano per un semplice rimborso spese (e, a
volte, nemmeno quello).
Rimane ora la necessità di portare avanti questo percorso. Ci rendiamo
conto che creare opportunità economiche in Appennino è difficile: tanto più se
si sceglie di farlo al di fuori delle logiche del profitto privato. Può
essere che siano proprio le aree interne, dimenticate perché poco “redditizie”,
a essere i luoghi da dove ripartire? Per questo continueremo a
mettercela tutta, a ri-condividere il più possibile quello che ci arriva e ad
accogliere quello che arriva. Per chi volesse darci una mano, siamo
raggiungibili online qui, ma quello che consigliamo è di venire a trovarci di
persona durante gli incontri, a condividere un po’ di aria fresca, una serata
davanti al fuoco, un bel piatto di zuppa calda.
da qui