martedì 18 febbraio 2025

Migrazioni in Italia: alcune proposte concrete del prof. Ambrosini

 

Maurizio Ambrosini, docente di Sociologia delle migrazioni all’Università Statale di Milano, è forse il maggior esperto italiano sul tema delle migrazioni.

La scorsa settimana ha pubblicato sul quotidiano ‘Avvenire’ una serie di proposte che riteniamo importante farvi conoscere in sintesi.

‘Bisogna partire da un dato: a dispetto delle vibranti campagne in difesa dei confini, gli immigrati servono.

Sta accadendo in tutta Europa, anche perché dai Paesi dell’Est integrati nell’Ue (Polonia, Romania, Bulgaria…) ormai non ne arrivano più, o comunque non a sufficienza.

La contraddizione tra politiche dichiarate, all’insegna di slogan contro l’invasione, e politiche praticate, che invece hanno riaperto agli ingressi per lavoro, diventa particolarmente stridente nel caso italiano.

Da un lato, la coalizione al governo ha fatto della chiusura dei confini un punto prioritario della sua agenda, una sorta di marchio di fabbrica, emanando una ventina di decreti sull’argomento.

Dall’altro, ha attuato la più ampia apertura a nuovi arrivi di lavoratori rilevabile in Europa, con 452.000 ingressi previsti in tre anni, più altri 10.000 offerti dall’ultima versione del decreto-flussi per occupazioni nell’ambito domestico-assistenziale.

Quello che può essere definito il “paradosso illiberale”: alle chiusure gridate fanno da contrappunto le aperture sussurrate, ma sostanziali.
E non basta, a superare il paradosso, dichiarare “li vogliamo scegliere noi”.

Un’auto-illusione l’idea che i datori di lavoro riescano a scegliere lavoratori che risiedono a migliaia di chilometri di distanza.

O sono già qui, e il decreto-flussi serve a regolarizzarli, oppure i datori (famiglie comprese) si fidano di qualcun altro, che intermedia il rapporto con i candidati.

A parte l’illusione della scelta, il diavolo, come si usa dire, si nasconde nei dettagli.

La procedura risale alla legge Bossi-Fini, è quindi vecchia di oltre vent’anni. Non ha mai funzionato.
Il governo italiano ha riformato più volte le procedure, ma non è riuscito a rendere il sistema delle chiamate efficiente.

Prima di tutto non ha voluto rinunciare alla grottesca lotteria dei click-days, che stanno proseguendo in questi giorni: un sistema in vigore soltanto in Italia, in cui fattori come la bontà della connessione, la rapidità dell’accesso o semplicemente la fortuna determinano il successo della richiesta.

La priorità delle istanze securitarie, inoltre, non solo determina una gerarchia dei Paesi di provenienza in cui la collaborazione (teorica) nei rimpatri conta più delle competenze professionali, ma obbliga anche datori e candidati ad estenuanti procedure.

Il risultato è che i lavoratori non arrivano, o non arrivano quando servirebbero, pensando alla stagionalità della maggior parte delle occupazioni per cui sono chiamati: agricoltura, turismo, edilizia.

Per di più il sistema è congegnato in modo tale da dare spazio a finti imprenditori e finti contratti.

Il governo li ha scoperti, facendone anche un’arma di propaganda, ma nel frattempo ha imposto nuove verifiche e rallentamenti.

Da alcuni Paesi (Bangladesh, Pakistan, Sri-Lanka) i permessi sono stati bloccati per mesi.

Il risultato finale è deludente.

Secondo il monitoraggio della campagna “Ero straniero” nel 2024 soltanto il 7,8% delle quote di ingressi ha dato luogo alla concessione di permessi di soggiorno e all’accesso a impieghi stabili e regolari.

Per di più si è registrato persino un arretramento rispetto al 2023, quando la percentuale, pur modesta, era stata quasi doppia.

Servirebbe quindi un atto di coraggio: abolire i click-days, stabilire una lista delle occupazioni in sofferenza e autorizzare i datori di lavoro ad assumere all’estero se in un arco di tempo ragionevole non si palesano candidati residenti sul territorio.

Così si usa in Spagna, Francia, Germania.

Bisognerebbe poi ripristinare il sistema dello sponsor, eventualmente coinvolgendo anche attori sociali disposti ad aiutare i nuovi arrivati a inserirsi.

Infine, sarebbe opportuno introdurre un contributo a carico dei datori di lavoro che richiedono gli ingressi, da girare agli enti locali dei territori interessati, affinché investano in servizi di integrazione.”

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lunedì 17 febbraio 2025

Il suicidio assistito non è eutanasia. Con buona pace dei “pro-vita” - Alessio Mannino

“A determinate condizioni”. Lo scontro ideologico sul suicidio assistito, rinfocolatosi dopo il varo della legge regionale in Toscana, si gioca tutto in queste tre parole. È l’espressione usata dalla Corte Costituzionale nella pronuncia 242/2019, che ammette la possibilità di autosomministrazione di un farmaco letale nei casi che prevedano quattro requisiti: patologia irreversibile, dipendenza da macchine di sostegno vitale, sofferenze ritenute intollerabili e capacità di prendere decisioni libere e consapevoli da parte del paziente. Con un’altra sentenza più recente, la 135/2024, i supremi giudici hanno chiarito che non spetta a loro, ma al legislatore decidersi una buona volta a disciplinare una materia così irta di dilemmi etici e giuridici. La difficoltà risiede infatti nel contemperare diritti e doveri in contrasto. “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività… Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”. L’articolo 32 della Costituzione pone da un lato il dovere di tutela della dignità umana e dall’altro, con il rifiuto di sottoporsi alle cure, il diritto all’autodeterminazione individuale. Le leggi, come ognun sa, servono appunto a mediare punti di vista in contrapposizione. Ma la mediazione su temi come la malattia, il dolore e la morte non trova spazio. E si capisce il perché.

Da una parte ci sono i cattolici e la Chiesa, contrari in assoluto e per principio. Qualcuno accusa l’attuale pontificato di José Maria Bergoglio di cedere al laicismo e al nichilismo dilaganti su vari fronti, compresi i problemi bioetici. Il silenzio di questi giorni delle alte gerarchie vaticane potrebbe suffragare il sospetto. Ora, a parte il fatto che la Conferenza Episcopale toscana si è precipitata a condannare, l’ultimo documento ufficiale, compilato dalla Congregazione della Fede (il vecchio Sant’Uffizio), pare tutt’altro che ambiguo: “È proprio della Chiesa”, si legge nella Samaritanus Bonus del 2020, “accompagnare con misericordia i più deboli nel loro cammino di dolore, per mantenere in loro la vita teologale e indirizzarli alla salvezza di Dio. … sopprimere un malato che chiede l’eutanasia non significa affatto riconoscere la sua autonomia e valorizzarla, ma al contrario significa disconoscere il valore della sua libertà. Di più, si decide al posto di Dio il momento della morte. Per questo, l’aborto, l’eutanasia e lo stesso suicidio volontario guastano la civiltà umana”. Come si vede, la Santa Madre Apostolica e Romana non distingue e mette tutto assieme in un unico anatema: suicidio (volontario, ergo anche assistito), eutanasia (che è un’altra cosa, come vedremo) e, onde evitare dubbi, anche l’aborto, che è un’altra cosa ancora. In un’ottica teologica, la coerenza c’è: se la vita, e dunque la morte, appartiene a Dio, solo Dio può decidere il momento di far calare la falce.

Sull’altro lato della barricata i laici di vario orientamento stabiliscono come valore insindacabile la libertà dell’individuo di disporre della propria esistenza. In prima linea, com’è noto, ci sono gli sparuti radicali dell’Associazione Luca Coscioni, e a seguire la sinistra genericamente intesa. Ma la sensibilità favorevole è trasversale (così come quella ostile: tutta l’ala cattolica del Partito Democratico, ad esempio). Nel centrodestra, a intestarsi la battaglia pro suicidio assistito contro il suo stesso partito, la Lega, è il presidente del Veneto Luca Zaia. “La richiesta dei malati terminali”, ha dichiarato, “è una scelta intima e personale… che a un certo punto non ha più a che fare col dolore insopportabile, ma con la dignità della condizione di quell’ultima fase della loro vita” (Repubblica, 14/2/2025). Fratelli d’Italia, per bocca di Elena Donazzan, lo ha accusato di “fare speculazione per fini elettorali”. Il riferimento è alla partita fra alleati per decidere chi sarà il candidato a succedergli alla guida della Regione alle prossime amministrative. Strumentale o no, la posizione di Zaia coglie il punto decisivo: il rapporto con il dolore, prima ancora che con la morte.

I cattolici, nel sostenere la tesi che la vita è inviolabile nel suo decorso “naturale”, insistono molto sul diritto-dovere della cura. Si affidano alla Speranza e, soprattutto, alla compassione con la quale i malati terminali vanno assistiti, come detto, “nel loro cammino di dolore”. Ma quando un povero cristo (si parva licet) sopravvive solo grazie a un macchinario, obbligarlo a restare in quello stato non è sacralizzare la vita: è far trionfare la Tecnica. A chiarirlo è stato un filosofo di sicura fede cattolica, Giovanni Reale: “La vita è indisponibile per l’omicidio e il suicidio… deve essere indisponibile anche nei confronti dell’accanimento terapeutico e della tecnica invasiva alla fine della vita, quando di vera vita ormai non ce n’è più” (G. Reale, U. Veronesi, Responsabilità della vita. Un confronto fra un credente e un non credente, Bompiani 2013). Lasciando al morituro la facoltà di stabilire se e quando staccare la spina, il medico prende atto del suo rifiuto a continuare una vita artificiale e gli restituisce esattamente il diritto alla morte naturale invocato dai cattolici. È curioso che questi ultimi, e in specie quelli più accaniti nel denunciare il falso progresso distruttore dei “valori”, non si avvedano della contraddizione. Ma conosciamo la possibile replica: promuovere il suicidio in tutte le sue forme significa alimentare la “cultura della morte” (Giovanni Paolo II), la “cultura del relativismo” (Benedetto XVI), la “cultura dello scarto” (Francesco). In particolare, la contro-accusa dei “pro-vita” investe l’ideologia liberal-liberista, secondo la quale un individuo ridotto a vegetare, non essendo più produttivo per la società di mercato, rappresenterebbe un peso morto che conviene eliminare. Una sorta di eugenetica su basi non razziali, come durante il nazismo, ma economiche.

Sarebbe facile ribattere a nostra volta sorridendo sul pulpito dal quale viene la predica: non risulta tutta questa animosità per gli effetti disumanizzanti delle pratiche liberiste, quando si parla di disoccupazione, precarietà e povertà. Non, almeno, da parte dei più feroci avversatori della “barbarie” bioetica, generalmente posizionati a destra dell’emiciclo politico e culturale. Bergoglio, per lo meno, è dichiaratamente anti-liberista sempre, e in ogni circostanza. Per rendersene conto basta leggersi le sue encicliche (che in certi passaggi sembrano trattati di sociologia). Ma è proprio l’argomentare dei buoni samaritani, a non reggere. Prima di tutto, e chiedendo venia per il cinismo del ragionamento, si dovrebbe sapere che il mercato esige anzitutto consumatori, non produttori. Certo, un infermo inchiodato a letto non contribuisce alla giostra dei consumi come un sano, vittima ideale a cui succhiare quattrini con i mille bisogni indotti dall’inesauribile fabbrica di merci. Ma che sia steso in un ospedale o a casa con la badante (pardon, “caregiver”), un valore economico, sia pur ridotto, ce l’ha. In secondo luogo, e ancor più abbassandoci nella cinica ma doverosa constatazione, veicolare il messaggio per cui l’amore deve vincere su tutto e va quindi elevato a obbligo giuridico, è un sostegno all’illusione di poter opporsi alla morte. La morte è la grande scomunicata del mondo moderno: rimossa, minimizzata, o a volte al contrario spettacolarizzata (gli applausi ai funerali…), si cerca in tutti i modi di “neutralizzarla”. Ma, purtroppo, si muore lo stesso. È umano e di ogni tempo il tentativo di ridurre l’angoscia che provoca. Com’è umanissimo e senza tempo il bisogno di trovare palliativi al soffrire. Quel che non è umano, e che è fattibile soltanto oggi grazie all’evolversi della tecnologia, è forzare chi sia oramai spacciato a dilazionare all’infinito il giorno del dunque, perché si scambia la vita “naturale” con l’accanimento tecnologico.

I cattolici, però, hanno ragione quando affermano che non esiste un diritto all’eutanasia. Perché qui si esce dall’ambito del suicidio e si entra nella fattispecie dell’omicidio, sia pur del consenziente. Per cui, colui che sia colpito da malattie o disagi, anche solo psichiatrici ma in ogni caso privi di prospettive di miglioramento, chiede di essere ucciso dal medico (o di essere assistito nel sopprimersi). Nell’eutanasia manca, o non è necessario, l’elemento centrale della dipendenza dalle macchine. È sufficiente farsi certificare una patologia mortale che causi mali o menomazioni insopportabili. E si può arrivare agli estremi della modernissima e liberale Olanda in cui, previo consenso dei genitori, è ammessa anche per i minori di 16 anni. E infatti, prendendo quello olandese a esempio-limite, su questo versante hanno torto i laici, a fondare la loro intera visione sulla pura e semplice autonomia decisionale del singolo. Non è una questione di modernità o di allargamento di diritti (che messi in capo al soggetto individuo slegato da ogni dovere, possono prendere derive mostruose). Anzi, personalmente non troverei scandaloso confrontarsi sui limiti del suicidio assistito, purché resti tale e non diventi omicidio, anche consensuale. Il discrimine sta nell’uccidere o nell’uccidersi. Uccidere è inammissibile e deve restare un divieto. Uccidersi, invece, non è un reato, e non dovrebbe essere neanche una colpa. Semplicemente e tremendamente – e da ben prima che venissero all’onor del mondo i cattolici o i liberali – la morte è sempre e solo la propria morte. È l’esperienza liminale per eccellenza: non si può condividere. Pertanto nessun altro può arrogarsi il diritto di decidere, in un senso o in un altro, al posto del diretto interessato. Solo lui, anche con l’aiuto medico, può materialmente infliggersela, purché se ne assuma in toto la responsabilità. Per questo la dignità della vita dovrebbe includere anche la dignità della morte. Perché la morte fa parte della vita. Con buona pace dei cosiddetti pro-vita.

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domenica 16 febbraio 2025

Macachi chiusi in laboratorio all’Università di Ferrara: chiediamo la loro liberazione

di Rete dei Santuari di Animali Liberi*


Esistono storie che non troveranno mai posto nei libri di storia, racconti di dolore e speranza soffocati dall’anonimato. Storie che rimangono celate tra le mura fredde degli stabulari, dove migliaia di animali vivono e muoiono nel silenzio di esperimenti a loro imposti. Questi animali diventano numeri e soggetti di ricerca, ma le loro storie restano sconosciute, rinchiuse in un universo di sofferenza senza testimoni.

Tra queste esistenze invisibili, ci sono sei macachi la cui vicenda, ora raccontata, potrebbe sembrare un’eccezione. Ma in realtà rappresenta solo una frazione di un dramma molto più ampio e silenzioso. Le loro storie sono solo una goccia nell’oceano di sofferenza che molti animali devono affrontare ogni giorno.

Questa è la storia di Clarabella, Eddi, Cleopatra, Cesare, Archimede e Orazio, sei primati che da molti anni vivono all’università di Ferrara.
Clarabella è nata nel 1999, ha 26 anni e da 23 anni sopravvive nello stabulario ferrarese. Cleopatra è stata rinchiusa nel 2014, come Cesare, entrambi da 23 anni rinchiusi in quelle mura. Archimede ed Eddi sono nati lì, rispettivamente nel 2005 e 2007, 20 e 18 anni di reclusione. Non conoscono altro mondo se non quello dentro e intorno alla loro gabbia, un metro cubo, al di là delle sbarre una stanza senza cielo, sole, luna, stelle, solo la luce artificiale che si accende e spegne così a differenziare il giorno dalla notte. ⁠

E poi c’è Orazio. Lui non c’è più. E’ stato sperimentato e poi ucciso. Nel 2020 fu aperto un procedimento portato avanti dall’avvocato David Zanforlini per Limav (Lega Internazionale Medici per l’Abolizione della Vivisezione) e dall’associazione Animal Liberation che vede come indagati l’ex rettore dell’università ferrarese, Giorgio Zauli, allora responsabile dello stabulario, l’attuale rettore di Unife, Laura Ramaciotti, il professore Luciano Fadiga, del Dipartimento di Neuroscienze, e il veterinario, Ludovico Scenna, membro dell’organismo che dovrebbe tutelare il benessere degli animali soggetti a sperimentazione, che ha consentito che tutto accadesse nel silenzio, senza opporsi.

Troppo spesso funziona così, in ogni ambito dove chi non può parlare è la vittima, l’oppresso. Briciole di prescrizioni inadeguate non rispettate, ignorate. Chi dovrebbe vigilare si gira dall’altra parte, non interviene, partecipa ad un sistema malato, compiacente verso chi è senza scrupoli e commette dei crimini.

Immaginate ora, provate ad essere lì con loro, in quelle gabbie.
Minuti, ore, giorni, mesi, stagioni, anni che si susseguono sempre uguali, un tempo insostenibile dell’orrore senza confini. In un metro cubo. Come mostrano le immagini catturate e diffuse da Animal Defenders.

Ma al di là dell’aspetto etico e morale che è già di per sé enorme, c’è altro: pare che le condizioni dei macachi siano ingiustificate e in contrasto con la normativa vigente. Infatti, il punto rilevante della vicenda, nonché l’appiglio legale pieno di speranza per le piccole scimmie, risiede proprio nelle condizioni di detenzione e stabulazione ingiustificabili, se non per il breve lasso di tempo dell’esperimento, non per il tempo indefinito del limbo in cui stanno vivendo sospesi, in quella che è una non vita.

Segregati e stabulati in gabbie singole, sepolti e dimenticati dentro ad una stanza dell’Università di Ferrara, senza possibilità di interagire fra loro, socializzare. Come è nella loro natura. Per questo motivo chiediamo di liberare i macachi superstiti detenuti negli stabulari dell’Università di Ferrara, chiediamo venga disposto il loro sequestro e che vengano spostati in un luogo dove vivere il tempo che a loro resta in una libertà che non sarà mai quella vera, ma dove possano arrampicarsi sugli alberi, interagire con i loro simili, vivere quel tempo che rimane scoprendo che un altro mondo esiste oltre quelle sbarre.

E chiediamo giustizia per Orazio. Che sia fatta chiarezza sulla sua tragica fine. E chiediamo ancora di porre fine alla sperimentazione animale, di finirla con quelle metodologie medievali mascherate da ricerca scientifica, di investire in metodi alternativi.

Nel 2025, con il progresso tecnologico e del sapere scientifico, non possiamo più accettare procedure obsolete e crudeli. Pensiamo che la scienza possa fare di meglio. Ricordiamo il recente caso di cronaca relativo all’Università di Catanzaro dove il mondo della ricerca non ha esitato a delinquere, utilizzando fondi pubblici per i propri tornaconti personali. Anche in questo caso sono indagati il rettore e altre personalità di rilievo.

Il 22 febbraio a Ferrara ci sarà un Corteo organizzato da Limav e Animal Liberation per esprimere dissenso e chiedere la liberazione dei macachi che alla luce di quanto sopra è sacrosanta e innegabile.
La Rete dei Santuari sarà presente. In nome della giustizia. In nome della libertà.

* La Rete dei Santuari di Animali Liberi è un network che riunisce e coordina rifugi per animali così detti da reddito, scampati all’industria della carne. Attualmente conta 26 santuari aderenti, disseminati per tutto il Paese, isole comprese. In essi, in questo preciso momento, risiedono più di 3400 animali, liberati dalla politica di dominio che agisce sugli animali nella nostra società e dall’industria zootecnica. I santuari della Rete non sono solo semplici rifugi. Sono antispecisti. Antifascisti. Per tanto si trasformano in spazi politici di resistenza, pace e libertà, in cui ogni animale torna ad essere ciò che è: ovvero una persona. Un individuo, unico al mondo.
Nei santuari si pratica la Cura e ha luogo un’economia al contrario, in cui quelli che, da tutto il mondo, sono considerati animali da reddito, diventano animali da “debito”, in quanto cessano di creare profitto e devono essere mantenuti (per cui costituiscono un impegno, un debito) da chi gestisce i santuari. E, così, gli animali che, per millenni di domesticazione, sono stati costretti a lavorare per l’uomo, si riposano e sono gli umani a lavorare per loro.

www.anmaliliberi.org, ig@retedeisantuari_official, fb @retesantuari

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sabato 15 febbraio 2025

Tele-Meloni è una realtà: lo dicono i numeri - Giandomenico Crapis

Il megafono. Meloni nei tg e l’aiutone di Mediaset e Sky

Sul perché il consenso della premier non scenda parallelo alle deficienze del governo e ai litigi in maggioranza ampia sarebbe la ricerca. Una volta gli imputati erano i media e la tv, oggi si tende, non del tutto a ragione, a ridimensionarli. Per cercare lumi, tra pranzi e cenoni, abbiamo ripescato i dati Agcom degli ultimi due anni e i risultati ci dicono che siamo alle solite: la tv conta, nel bene o nel male, di più o di meno, ma conta. Analizzando i mesi da gennaio a novembre del 2024, esclusi aprile e maggio per i quali mancano i tempi di parola dei politici, emerge che Meloni gode di un parlato dilatato oltremisura rispetto agli altri leader. Si tratta della premier, certo, ma c’è un limite imposto dal pluralismo altrimenti saremmo all’Istituto Luce. La Presidente spadroneggia: nei tg realizza quasi 15 ore di tempo di parola, cifra con la quale doppia, triplica e quadruplica le distanze dagli altri. Mattarella di ore ne ha la metà, Schlein ancora meno, a Conte vanno 4 ore, non parliamo di Bonelli, Calenda e Renzi cui vanno circa 40 minuti per ciascuno, o di Fratoianni che per i tg è un semiclandestino (17 minuti per nove mesi esaminati nel 2024!). Va invece di lusso a Tajani che con 8 ore è subito dopo Meloni quanto a visibilità nei tg (ma ci sarà o no un rapporto con la ripresa elettorale di F.I.?). C’è da aggiungere un paio di cose: che sempre nei tg Meloni quasi eguaglia Draghi degli stessi mesi del 2021, quando però il paese lottava contro il Covid, con tutta l’informazione centrata su superMario, e che una buona metà del vantaggio Meloni la riceve in omaggio dal Tg5, il secondo tg più seguito, al confronto del quale il fazioso Tg1 sembra la BBC. Infatti delle 15 ore totali di parlato di cui Meloni come detto gode, sul solo Tg5 la leader ne raccoglie oltre 4, quantità abnorme se guardiamo all’ora o poco più concessa a Mattarella o a Schlein, ai tre quarti d’ora a Conte. Sembra impossibile ma SkyTg24 riesce a fare pure peggio: la testata è uno spot permanente per la premier ed il governo. Meloni qui si mangia quasi tutto il parlato, tre volte il tempo di Schlein, nove volte quello di Conte; il governo si avvantaggia anche della formidabile copertura che il tg offre a Tajani, Salvini, Crosetto, Piantedosi, Nordio e compagnia governando, nonché della cancellazione (quasi) degli altri leader della minoranza, Renzi compreso. A questo punto piuttosto che soffermarci sui talk, che questo vantaggio lo moltiplicano e lo amplificano, è più interessante guardare al 2023 dove l’esposizione di Meloni fu ancora più sfacciatamente sbilanciata a suo favore. Ma la cosa davvero sorprendente è che, addirittura, ella fa meglio (nei mesi esaminati che escludono marzo e aprile come detto), dello stesso Conte nell’anno del lockdown, mentre giunge solo ad una spanna dal lanciatissimo Renzi del 2015 (22 ore e mezza contro 23 ), cioè dal politico che fece della tv la sua arma più forte. Insomma nel primo biennio la premier si è garantita sui tg e sulle reti grazie alla compiacenza di reti pubbliche e private una presenza in voce da record. Un primato insospettabile forsanche da chi ripete che la tv ormai non conta, superata dai new media. Naturalmente questa alluvione in video finisce poi per li rami nei social e il gioco è fatto. Intanto la riforma Rai langue: più che ‘incardinata’, incatenata. Di quella del sistema tv, poi, nemmeno a parlarne.

https://infosannio.com/2025/01/06/tele-meloni-e-una-realta-lo-dicono-i-numeri/

venerdì 14 febbraio 2025

La grande ingiustizia climatica che scarica i costi della crisi su chi non l'ha provocata - Andrea Codega


Tre anni fa, durante la COP26 ospitata a Glasgow, il ministro per la Giustizia, le Comunicazioni e gli Affari Esteri di Tuvalu Simon Kofe decide di videoregistrare il proprio intervento in mare: vestito in maniera inappuntabile, in giacca e cravatta, ma immerso dalle ginocchia in giù nelle acque che circondano lo Stato insulare polinesiano.

Da diversi anni, il villaggio costiero Sitio Pariahan, situato nell’arcipelago delle Filippine e a nord della capitale Manila, affonda nel mare di circa 4 centimetri ogni anno. La causa principale è la subsidenza del suolo dovuta all'uso eccessivo delle acque sotterranee, ma a questo problema si sovrappone l’innalzamento del livello dell’oceano che a Tuvalu, come riporta la NASA, è oggi 1.5 volte più veloce della media globale. Le proiezioni indicano che nei prossimi 30 anni il livello dell'oceano che circonda l’atollo di Funafuti, la capitale di Tuvalu, potrebbe salire di quasi altri 30 centimetri, più di quanto ha fatto negli ultimi 30 anni. Le proiezioni guardano al futuro, ma intanto dovremmo occuparci del presente.

Nella mia testa sono queste le due immagini più utili per spiegare e raccontare l’imbuto rovesciato che rappresenta gli effetti del cambiamento climatico odierno: i Paesi che ne soffrono maggiormente gli impatti non sono in alcun modo quelli che contribuiscono alla formazione del fenomeno.

La sommità dell’imbuto è stretta, rappresentata dai pochi Paesi che contribuiscono a produrre la maggior parte dell’inquinamento e del riscaldamento della temperatura media globale; la base è invece estremamente larga e ci rientrano tutti i Paesi del terzo mondo – in particolar modo quelli del Sud globale – che si affacciano sul mare. L’imbuto rovesciato racconta, in maniera emblematica, l’enorme sproporzionalità che caratterizza il mondo odierno, non solo se parliamo di clima e ambiente.

Come conferma anche il giornalista ambientale di Domani Ferdinando Cotugno nel suo podcast Areale, i Paesi più sviluppati hanno ormai “occupato” il 92 per cento dell’atmosfera attraverso il proprio sviluppo. Tra questi, Cina, Stati Uniti e India sono i tre Paesi più inquinanti al mondo: da soli pesano per oltre il 50 per cento delle emissioni annuali di CO₂ globali; la Cina, da sola, apporta circa il 34 per cento dei milioni di tonnellate di CO₂ prodotte.

Questa sproporzione è visibile, ogni anno, anche attraverso l’andamento delle COP, le Conferenze delle Parti sui cambiamenti climatici presiedute dall’ONU: da anni, almeno dalla COP26 di Glasgow in poi, osserviamo le medesime reazioni e analisi non appena si scioglie la seduta. Lo spirito di comunanza e condivisione che aveva guidato la formulazione degli Accordi di Parigi del 2015 – il trattato che regola la riduzione globale delle emissioni di gas serra e stipulato da 195 Paesi firmatari – sembra perdersi a ogni Conferenza che passa.

Mentre i grandi della Terra guardano ai propri interessi e giocano a cambiare le carte in tavola – gli USA sotto la prima presidenza Trump si erano ritirati dal trattato nel 2020, salvo poi rientrarci nel 2021 con Biden –, chi esce costantemente penalizzato è il cosiddetto Terzo Mondo: l’agglomerato di Paesi meno sviluppati dove gli effetti dei cambiamenti climatici sono più tangibili.

Le ultime Conferenze sul Clima sono state progressivamente sempre più stantie e deludenti, distanti dagli obiettivi globali prefissati a Parigi – il contenimento dell’incremento della temperatura media globale a 1.5°C oltre i livelli preindustriali – e dal fornire una voce concreta a chi, già oggi, subisce i danni più feroci del riscaldamento climatico, a chi manifesta e si batte per una giustizia climatica.

La COP27 si è tenuta a Sharm El Sheikh, in Egitto, dove il dissenso degli attivisti sarebbe stato impraticabile. La COP28 ospitata a Dubai, nella culla di combustibili fossili che contribuiscono in maniera decisiva al riscaldamento del pianeta, è proseguita sul medesimo solco e così è stato anche con la COP29 di Baku, in Azerbaigian. Lì, poche settimane fa, l’attivismo climatico è stato assente. Le Conferenze annuali sembrano essere lo specchio di un dibattito sul clima che si sta attorcigliando sempre più su sé stesso, distanziandosi dall’obiettivo finale. Se nemmeno la terribile alluvione di Valencia, in uno dei Paesi più avanzati del mondo, riesce a fornire un deciso e comune cambio di passo nella lotta al riscaldamento climatico, che voce in capitolo possono avere i Paesi che già da tempo osservano i suoi effetti più violenti?

Tuvalu, stato insulare del Pacifico di soli 26 km² citato all’inizio della puntata, è uno dei tanti Paesi attorniati dal mare e dove gli effetti del cambiamento climatico saranno più catastrofici: entro il 2050 si stima che la metà delle terre occupate dalla capitale Funafuti saranno sommerse dall’acqua. Sempre nella stessa parte di mondo, le Isole Marshall hanno appena progettato una maglia da calcio progettata per scomparire: si chiama “No-Home 2030” ed è decorata con il numero 1.5, che rappresenta il limite dell’aumento della temperatura media globale e il rischio di scomparsa di questo arcipelago.

L’innalzamento del livello dei mari, insieme agli eventi meteorologici sempre più frequenti e violenti, sono il principale termometro – appunto… – di come il clima stia mutando: oltre alle isole del Pacifico come Tuvalu e le Isole Marshall, a farne le spese sarà anche l’intera area caraibica. Nelle Isole Bahamas, per esempio, si stima che entro il 2050 il livello del mare si potrà alzare di 32 centimetri se il riscaldamento climatico dovesse proseguire come da previsioni.

Il peso di Tuvalu, Isole Marshall e Bahamas sul totale delle emissioni globali prodotte è più che risibile: non si avvicina neanche lontanamente all’1 per cento delle emissioni di CO₂. Il medesimo discorso vale, ancor di più, per l’Africa: è il continente più arretrato al mondo, quello che osserverà la crescita demografica più significativa del secolo in corso e in cui i primi due Paesi per tonnellate di CO₂ prodotte sono Egitto e Sudafrica. Sono due tra i Paesi più avanzati del continente e apportano meno del 2 per cento delle tonnellate di emissioni di CO₂ globali.

La disparità climatica si contraddistingue per un vero e proprio imbuto rovesciato: il 19 Novembre 2000 da questa rappresentazione è nato il concetto di “Giustizia Climatica”, durante il primo vertice denominato First Climate Justice Summit e tenutosi in concomitanza con la COP6 ospitata a L’Aja.

La giustizia climatica sembra un concetto sempre più distante dalla modalità con cui si parla del cambiamento climatico e dall’atteggiamento con cui ogni anno quasi tutti i Paesi mondiali si ritrovano nella Conferenza delle Parti. Da Baku, ad esempio, i Paesi africani sono usciti estremamente insoddisfatti per l’accordo finale: il solo impegno delle nazioni più ricche – quelle che impattano maggiormente sull’inquinamento di gas serra – a destinare almeno 300 miliardi di dollari all’anno ai Paesi in via di sviluppo è distante dalle reali e complesse necessità della crisi climatica.

Emerge, dall’ultima COP29, l’interesse individualista con cui ogni Paese affronta la lotta al cambiamento climatico, con la stessa, apparente indifferenza che – purtroppo – finisce per riversarsi sui singoli cittadini, granelli di un ingranaggio globale attualmente poco efficace e, ancora, drasticamente squilibrato.

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giovedì 13 febbraio 2025

E se fossero i territori dimenticati dell’Appennino i luoghi da dove ripartire? - Matteo Turrino

 

Per individuare strade diverse dal mito della crescita, si parla spesso di alimentare nelle aree interne ecoturismo e autoimprenditorialità, che pure hanno contribuito a spopolamento e alla fine di tante economie di sussistenza. Naturalmente in questo scenario ci sono quelli che non smettono di imporre le logiche delle grandi opere. Tuttavia negli ultimi anni sono nati diversi comitati e reti, ma anche luoghi, che su questi temi condividono domande, valutano proposte, esplorano forme di economia comunitaria. Sull’Appennino bolognese, ad esempio, la Bisaboga è diventata un punto di ritrovo fondamentale per tutte queste correnti, uno spazio aperto, generoso e autogestito, la cui forza sarebbe sbagliato misurare solo in termini monetari

 

Se teniamo conto del fatto che anche l’essere umano è una creatura di questo mondo, che ha diritto a vivere e ad essere felice, e inoltre ha una speciale dignità, non possiamo tralasciare di considerare gli effetti del degrado ambientale, dell’attuale modello di sviluppo e della cultura dello scarto sulla vita delle persone. Oggi riscontriamo, per esempio, la crescita smisurata e disordinata di molte città che sono diventate invivibili dal punto di vista della salute, non solo per l’inquinamento originato dalle emissioni tossiche, ma anche per il caos urbano, i problemi di trasporto e l’inquinamento visivo e acustico. Molte città sono grandi strutture inefficienti che consumano in eccesso acqua ed energia. Ci sono quartieri che, sebbene siano stati costruiti di recente, sono congestionati e disordinati, senza spazi verdi sufficienti. Non si addice ad abitanti di questo pianeta vivere sempre più sommersi da cemento, asfalto, vetro e metalli, privati ​​del contatto fisico con la natura. In alcuni luoghi, rurali e urbani, la privatizzazione degli spazi ha reso difficile l’accesso dei cittadini a zone di particolare bellezza; altrove si sono creati quartieri residenziali “ecologici” solo a disposizione di pochi, dove si fa in modo di evitare che altri entrino a disturbare una tranquillità artificiale. Spesso si trova una città bella e piena di spazi verdi ben curati in alcune aree “sicure”, ma non altrettanto in zone meno visibili, dove vivono gli scartati della società” (Enciclica “Laudato si'”, papa Francesco, 24 maggio 2015, par. 43-45) 

Le aree interne (quando si ha poca immaginazione)

Quando si guarda allo sviluppo delle aree interne come a una delle possibili alternative al mito della crescita delle metropoli globali, i termini che emergono sono spesso quelli dell’autoimprenditorialità e dell’ecoturismo. Ci chiediamo: non è un paradosso riproporre in montagna un paradigma che ha contribuito al loro stesso spopolamento (verso le città), a scandire la fine dell’economia locale e di sussistenza? Certo, ora viene riproposto all’incontrario: l’imprenditoria che torna in Appennino e lo ripopola, con maggiore attenzione al territorio, con un’idea di turismo sostenibile, attento, lento… eppure ci sembra che le soluzioni proposte non arrivino tanto dal territorio, ma dalle esigenze e dalle idee scaturite dalla città. Ci sembrano idee che servono a rendere le zone interne un’estensione della città, un luogo dove “rigenerarsi”, dove fare prodotti tipici e genuini da riportare nei circuiti commerciali urbani. L’Appennino bolognese, ad esempio, è anche questo, e storicamente è stato un luogo dove, tra le altre cose, si producevano materie prime per la città. Ma che sia solo questo? Se tutto esiste in primo luogo in base alle esigenze e al potere economico del vicino più affluente, di chi abita in città, allora chiediamoci dove finisce la città, e dove inizia il resto? A noi, un gruppo di persone che abitano l’Appennino in provincia di Bologna (senza alcuna pretesa di essere rappresentativə di alcunché), sembra che questo nuovo entusiasmo per lo sviluppo delle aree interne vada accolto con le dovute cautele. 

Nei posti che abitiamo vediamo le tracce di un passato lontano, di vecchi fienili in disuso, di metati (gli edifici adibiti all’essiccazione delle castagne) abbandonati, di mulini non più in funzione. L’economia di scala e gli allevamenti intensivi in particolare hanno scandito la fine di molte di queste attività di sussistenza. Ora si vuole pensare a un nuovo turismo: ma qui le seconde case già abbondano. Vuote 11 mesi l’anno (quando non sono 12), contribuiscono a creare dei veri e propri buchi in un territorio già scarsamente abitato. Sappiamo che il turismo porta ricchezza, ma non necessariamente competenze avanzate (né lavori ben pagati), senso di comunità, sviluppo culturale, qualità del vivere

Non vogliamo rifiutare il turismo – perché crediamo nella virtù e nei vantaggi di essere un territorio aperto e ospitale – ma non vogliamo nemmeno che diventi un modo di vivere di rendita, creando tante piccole oasi atomizzate che danno lavoro sì, ma che non aiutano a riconnettere il luogo, a creare competenze adatte alla geografia in cui viviamo, che non ci aiutano a riflettere su uno stile di vita consono (invece di riprodurre il più possibile quello della città). In particolar modo, sappiamo che c’è il rischio concreto di portare soldi nelle tasche di pochi e svantaggi a molti altri: gli affitti brevi hanno causato un aumento del costo dell’abitare praticamente ovunque. Lo abbiamo visto a Barcellona: le persone si sono letteralmente ribellate al turismo, e in Portogallo l’iniziativa volta a diventare l’hub dei nomadi digitali ha creato una situazione di difficile gestione. Anche in Italia, e a Bologna, dove persino gli agenti di polizia non trovano casa, dovremmo conoscere bene questo problema. In Appennino bolognese, per quanto possa sembrare strano, trovare casa non è semplice già oggi. A questo si aggiunge il problema della stagionalità: cosa succede a tutte quelle attività al di fuori dei pochi mesi che interessano l’alta stagione? Cosa succede alle potenziali abitazioni, al di là dei pochi weekend di villeggiatura?

A questa idea dello sviluppo urbano-centrico si aggiunge la continua ossessione per le grandi opere. In piena crisi climatica si è deciso di costruire (con più di 4 milioni di euro di investimento pubblico) una nuova seggiovia per gli sport invernali, sul Corno alle Scale, una zona che ha registrato un aumento di 1,8C° dal 1961 al 2018, dove è ormai necessario ricorrere alla neve artificiale. Contro questa incapacità di pensare economie diverse si sono già mobilitati diversi abitanti, che hanno portato i sollevamenti della terra (Les Soulèvements de la Terre in Francia) qui in Italia, e altri che hanno costituito il comitato “Un altro Appennino è possibile, sostenendo un tipo di turismo responsabile che valorizza, non distrugge, quello che già abbiamo. Anche qui, purtroppo, siamo in “buona” compagnia: la follia di ignorare completamente una realtà ecologica alterata è la stessa che vediamo sulle Alpi francesi per i Giochi Olimpici Invernali 2030, anch’essi soggetti a grandi spese e prospettive incerte.

Se quindi il problema è tanto ecologico quanto sociale e culturale, non è un caso che sia l’ecofemminismo a darci strumenti preziosi, tra cui l’idea di partire dalle domande, e non dalle risposte. Come facciamo a risolvere il problema per cui tante persone giovani sentono di abitare in “paesi dormitorio” (in attesa di andare altrove)? 

In Appennino bolognese, da qualche anno, è nato il progetto “Rete Appenninica” (https://reteappenninica.it/), e di domande ce ne siamo fatte tante. Anche quelle più elementari ci hanno fatto riflettere parecchio: “Chi siamo? Come è fatto il luogo che abitiamo? Che problemi abbiamo, e come vogliamo risolverli? Quali sperimentazioni sono già in atto?”. Da qui sono nate tante riflessioni, ma in particolare una è stata quella che condividevamo maggiormente. Quale modello economico è sostenibile in Appennino (bolognese), oggi? Come possiamo sostenerlo, farne parte, farlo nostro?

 

Economie di comunità

Da queste domande è emerso una volontà comune: quella di trovare nuovi modi di vivere e lavorare in Appennino, di uscire dalle dinamiche dell’imprenditoria estrattiva, di esplorare nozioni di economia comunitaria. Tutto questo integrando da subito la sostenibilità, invece di subordinarla alla crescita economica. Problema: i modelli scarseggiano. Ci sono tante iniziative valide e tanti fondi disponibili per lo sviluppo delle aree interne, e questo sicuramente è un fatto positivo: ma rimangono tutte fermamente ancorate all’idea di portare crescita e lo sviluppo ad una “regione dimenticata”. Forse dimenticandosi, a loro volta, che è stata proprio la corsa al progresso a rendere queste aree sconnesse, a lasciarle indietro, a rendere l’economia familiare e di sussistenza un ricordo del passato.

Quello che sentiamo, di conseguenza, è che servono passi avanti più decisi, che serve coraggio e tanto lavoro per creare qualcosa che non riproduca, in piccolo, le dinamiche di esclusione e precarietà che vediamo altrove. Anche se risulta molto più difficile, anche se significa trovare molti meno riferimenti, c’è tanta voglia di capire come fare economia nelle zone interne, ma di farla assieme.

In questo ambito è nato un percorso sul tema “economia comunitaria”, con l’idea di affrontare temi importanti: capire quali forme legali si possono usare per fare comunità che “genera lavoro”, ripensare il rapporto con il denaro e la finanza (che non significa abolirli, ma riappropriarsene), studiare casi esistenti di economie comunitarie legate all’abitare collettivo e alla gestione dei beni comuni. In una serie di incontri, tenutisi nel 2023 e 2024, sono stati affrontati i temi delle cooperative di comunità, del lavoro volontario in rapporto a quello salariato, della gestione economica delle comunità abitative – occasione in cui abbiamo incontrato le comuni di Bagnaia, Urupia e dell’Alvador, e gli ecovillaggi Corricelli e Meraki – dei beni comuni (storia, rilevanza, forme giuridiche). Durante questo percorso è stata avviata anche una collaborazione con Mag6 per formarsi sullo strumento del bilancio. Da più di trent’anni Mag6 sperimenta nell’ambito della finanza mutualistica e solidale, esplorando la connessione tra la sfera economica (il denaro) e quella sociale (le relazioni) della dimensione umana.

Non ci siamo fissati con l’economia e la finanza (etica) per rimanere nella teoria dei massimi sistemi, ma perché abbiamo capito di avere bisogno di questi strumenti e di poterli applicare alle nostre concrete esigenze. Queste esigenze riguardano la vita quotidiana in Appennino bolognese, e per citarne alcune:

§  Nonostante ci troviamo in una zona rurale e di produzione alimentare, non esiste una rete di distribuzione locale, e il cibo che spesso consumiamo proviene dalla grande distribuzione (e quindi spesso da altre regioni, da altri paesi).

§  I centri più grandi (come Vergato o Marzabotto) hanno accesso a luoghi dedicati alla cultura e all’incontro; nei paesini e nelle frazioni bisogna darsi da fare per creare quegli spazi. Nei centri più piccoli inoltre i servizi di base (come i presidi medici, i consultori, gli uffici postali…) scarseggiano, essendo questi luoghi assoggettati ad una visione che li considera unicamente funzionali al turismo stagionale.

§  La realtà geografica montana rende difficile spostarsi senza un veicolo proprio. Il trasporto pubblico c’è, ma è molto essenziale

§  Pur essendo in zone scarsamente popolate, è difficile accedere alla casa. Molte abitazioni sono fatiscenti, inabitabili (soprattutto nelle stagioni invernali), abbandonate, o vittima di logiche speculative (eh sì, anche qui!); gli affitti scarseggiano. È difficile trovare soluzioni abitative per chi non può permettersi di comperare (e spesso ristrutturare). 

Per affrontare questi temi, abbiamo capito che dobbiamo attivarci oltre che chiedere alle istituzioni di intervenire, e che dobbiamo trovare un modo di finanziarci. Non ci aspettiamo di generare un classico lavoro a “tempo pieno”: da un lato riconosciamo che il cambiamento non può avvenire unicamente tramite il lavoro volontario, dall’altro stiamo imparando a pensare in termini di mutualismo piuttosto che alla verticalità “datore di lavoro-impiegato”.

L’importanza dei luoghi

Il lavoro è tanto, ma quello che appare subito chiaro è che anche iniziative relativamente piccole possono dare veramente tanto. A Montasico, dal 2020, la Bisaboga è diventata un punto di ritrovo fondamentale per tutte queste correnti, ha fatto conoscere tante persone, ha reso possibili le connessioni che hanno poi dato vita al progetto della Rete Appenninica. La Bisaboga è uno spazio autogestito che ha sempre dimostrato molta generosità a chiunque volesse farne uso, rispettosamente. In apparenza, la Bisaboga è poco più che una vecchia osteria di paese in disuso. Di fatto era un luogo come tanti altri qui in Appennino, un edificio destinato a diventare vittima del tempo. L’intervento di un gruppo di persone ben affiatate e decise (ad avere un proprio spazio culturale di riferimento) è bastato per renderlo un luogo aperto, infinitamente più accogliente, generativo di nuove iniziative. In Bisaboga ci sono stati spettacoli, concerti, mercati, incontri, discussioni, proiezioni, laboratori artistici ed artigianali. Tutto questo grazie alla presenza di persone sia del luogo, sia che arrivate da altre città, regioni, spesso anche altri paesi. Dire che ciò è avvenuto a costo zero significa di nuovo cadere nell’idea che tutto va misurato in termini monetari: costruire la Bisaboga così come costruire la Rete Appenninica ha richiesto impegno, energie, risorse. Questo lavoro non è stato “gratis”, ma non è nemmeno “costato” nel senso più comune del termine. Quello che emerge è la necessità di imparare a riconoscere questo valore, senza necessariamente metterci un prezzo: questo tipo di valorizzazione e di ragionamenti rientrano nel discorso sui beni comuni, che non sono un’astrazione né un’idea buonista campata in aria, quanto piuttosto entità specifiche che meritano di essere sviluppate come vere e proprie istituzioni. Come scrive il giornalista britannico George Monbiot (nel libro Out of the wreckage, in Italia “Riprendere il controllo”), la cultura della partecipazione non è pura utopia: una solida rete di partecipazione dal basso è in grado di soddisfare quei bisogni che le istituzioni faticano a coprire con i servizi (in particolare in zone geografiche “difficili” come quelle montane), ma con un costo decisamente più basso. In uno studio a Lambeth, a Londra, la spesa necessaria per sostenere una rete di partecipazione dal basso è stata stimata a 400.000 sterline (circa mezzo milione di euro) per 50.000 abitanti, una piccola frazione del budget pubblico. Questo non significa sostituirsi alle istituzioni, quanto piuttosto chiedere un impegno a sostegno dei diritti di tutti.

Quello che vogliamo non è semplicemente “farci finanziare”, né di trarre profitto dal nostro “investimento”, quanto di potere trasformare questo piccolo capitale sociale in qualcosa di stabile, riconosciuto, valorizzato. Trovare i modi di creare o potenziare luoghi di produzione, di scambio, di collaborazione; di creare lavoro e opportunità (oltre il volontariato), rimanendo però fermamente ancorati nella cultura dei beni comuni, della condivisione e dell’orizzontalità. Facendo questa scelta, abbiamo capito quanti pochi esempi funzionanti di questo tipo ci siano, e quanto siano preziosi. Preziosi non solo perché esistono e resistono, ma perché hanno condiviso tanto con noi, hanno dimostrato nei fatti che l’informazione può e deve essere libera. Di fatto, hanno reso possibile il ciclo di incontri in Appennino bolognese, spesso venendo da lontano per un semplice rimborso spese (e, a volte, nemmeno quello).

Rimane ora la necessità di portare avanti questo percorso. Ci rendiamo conto che creare opportunità economiche in Appennino è difficile: tanto più se si sceglie di farlo al di fuori delle logiche del profitto privato. Può essere che siano proprio le aree interne, dimenticate perché poco “redditizie”, a essere i luoghi da dove ripartire? Per questo continueremo a mettercela tutta, a ri-condividere il più possibile quello che ci arriva e ad accogliere quello che arriva. Per chi volesse darci una mano, siamo raggiungibili online qui, ma quello che consigliamo è di venire a trovarci di persona durante gli incontri, a condividere un po’ di aria fresca, una serata davanti al fuoco, un bel piatto di zuppa calda.

da qui

mercoledì 12 febbraio 2025

La Cina respinge i mangimi brasiliani - Antonio Lupo

Pechino sospende l’import di mangimi, provenienti dal Brasile, coltivati con pesticidi proibiti. I paesi UE, dove si utilizzano questi mangimi brasiliani negli allevamenti intensivi (come quelli che devastano l’aria nella Pianura padana), restano in silenzio perché i pesticidi, anche quelli vietati in UE ma utilizzati nelle monoculture brasiliane e argentine, vengono prodotti e venduti da multinazionali europee come le tedesche Bayer-Monsanto e BASF e la svizzera-cinese Syngenta

Due settimane fa Brasil de Fato, un giornale molto vicino al MST (Movimento Senza Terra) e ad altri movimenti popolari dell’America Latina, ha diffuso la notizia secondo la quale la Cina ha deciso di sospendere le importazioni di soia da cinque aziende brasiliane a causa della contaminazione da pesticidi. La notizia, purtroppo, non è ancora circolata sui grandi media italiani, ma su web si trova il lancio dalla Reuters su molti siti brasiliani e anche su qualche sito inglese e francese (e anche su uno italiano). Secondo quanto riportato da Reuters le spedizioni delle aziende Cargill Agrícola SA, ADM do Brasil, Terra Roxa Comércio de Cereais, Olam Brasil e C.Vale sarebbero state interessate dalla misura.

La questione è fondamentale perché riguarda non solo la Cina, ma tutti i paesi che utilizzano mangimi provenienti dal Brasile per i loro allevamenti, soprattutto gli orribili allevamenti intensivi, quindi certamente anche l’Italia e gli altri paesi UE, che sono del tutto mangimi-tossico-dipendenti dal Brasile (e Argentina in misura minore).

Nell’articolo di Brasil de Fato, tra l’altro, si legge: “Per Diana Chaib, economista e ricercatrice delle relazioni cino-brasiliane presso l’Università Federale del Minas Gerais (UFMG), la decisione della Cina di sospendere le importazioni di una parte della soia brasiliana può essere interpretata come un avvertimento all’agroindustria brasiliana, soprattutto per quanto riguarda le preoccupazioni relative al necessità di migliorare i controlli di qualità e rivedere le pratiche relative all’uso dei pesticidi…”.

Una prima considerazione: la Cina finora ha prodotto pochissima soia e mais OGM, il popolo cinese è un po’ diffidente, il governo finora (ma sta cambiando l’orientamento) ha preferito importarli da Paesi in “perenne via di Sviluppo”, come il Brasile (ma anche l’Argentina), che è diventato il maggior produttore di soia OGM tramite la deforestazione dell’Amazzonia, avendo superato gli Usa. Il Brasile è ormai anche il maggior esportatore mondiale di soia OGM. L’articolo specifica che “La Cina è il maggiore consumatore di soia al mondo, rappresentando oltre il 60% del commercio mondiale di questo cereale… Per quanto riguarda il Brasile, due terzi di tutta la soia prodotta nel Paese vengono spediti al gigante asiatico”.

Insomma forse il governo della Cina ha aperto gli occhi, non vuole più farsi fregare e far ammalare i suoi cittadini, che pure vogliono mangiare carne, anche se per ora ne mangiano abbastanza meno degli statunitensi: i cinesi ne consumano poco più della metà (74 kg procapite anno contro 126 kg, mentre la media mondiale è di 43 kg). Nel 2016 il governo della Cina ha delineato un piano per ridurre il consumo di carne dei suoi abitanti del 50%, ma non pare che il piano stia funzionando molto.

Invece la UE e l’Italia, in cui arrivano e si utilizzano questi mangimi brasiliani avvelenati e infetti, continuano a star zitti, perché i pesticidi, anche quelli vietati in UE, ma utilizzati nelle monoculture brasiliane e argentine, vengono prodotti e venduti da aziende europee, le tedesche Bayer-Monsanto, BASF e la svizzera-cinese Syngenta.

Sempre nell’articolo si legge: “In una nota, il ministero Agricoltura e Allevamento del Brasile (Mapa) ha affermato che ‘le altre unità delle società notificate continuano a esportare normalmente in Cina, con le sospensioni valide solo per le 5 unità ufficialmente notificate’. Pertanto, prosegue il ministero, ‘i volumi scambiati dal Brasile non saranno interessati da questa sospensione temporanea di queste 5 unità notificate’. Ma non è vero: ‘le cinque unità sospese fanno parte di operazioni che hanno rappresentato oltre il 30% degli oltre 73 milioni di tonnellate di soia esportate dal Brasile in Cina nel 2024″.

Alan Tygel, della Campagna permanente contro i pesticidi e per la vita, ricorda “che da anni i movimenti agroecologici mettono in guardia sulla qualità dei prodotti agricoli brasiliani, basati sull’uso di prodotti chimici altamente tossici e dannosi per l’ambiente… L’impegno del Brasile negli ultimi decenni nell’investire tutte le sue risorse nell’agroalimentare, ha generato questo tipo di dipendenza, rendendo il nostro paese vulnerabile a crisi catastrofiche se i principali importatori decidessero per qualche motivo di vendicarsi del Brasile…”.

Chaib dice che l’impatto di questa misura potrà essere misurato in base alla durata dell’embargo o alle nuove restrizioni su altri prodotti brasiliani. “Ciò potrebbe influire sui prezzi nazionali della soia in Brasile e aumentare i costi dei mangimi per il bestiame, il che potrebbe rendere la carne bovina brasiliana meno competitiva sul mercato internazionale. Ma questo impatto sul commercio di carne bovina dipenderà dall’entità e dalla durata della sospensione della soia che la Cina attuerà. Il Brasile è il maggiore consumatore di pesticidi al mondo, superando Cina e Stati Uniti messi insieme. Invece di scoraggiare l’uso di questi agenti chimici nella produzione agricola, lo stato brasiliano offre miliardi di reais in esenzioni fiscali alle aziende del mercato dell’agrobusiness chimico del Paese, incoraggiandone l’uso (nel 2019 Bolsonaro ha autorizzato 152 nuovi pesticidi, ndr).

Sempre in questo articolo la scienziata biomedica e ricercatrice della Fondazione Oswaldo Cruz (Fiocruz), Karen Friedrich, richiama l’attenzione “sugli effetti nocivi dell’uso estensivo di pesticidi nella produzione agricola, oltre a tutte le prove dei danni alla collettività. salute e ambiente. E questo potrebbe avere a che fare con questi “incidenti” commerciali. Queste sostanze sono state utilizzate per decenni e stanno già sviluppando i propri parassiti, sviluppando resistenza. È la stessa logica degli antibiotici ospedalieri. Usandoli in modo così indiscriminato, hanno sviluppato batteri super resistenti. E in agricoltura abbiamo questi parassiti che stanno sviluppando resistenza. Quindi questo non è un bene per gli agricoltori e per l’agroindustria. Questo è un bene per le industrie, per Bayer, Basf, Monsanto, Syngenta ecc., che stanno cercando di mantenere questo prodotto sul mercato fino all’ultimo secondo”.

La crisi economica della Germania, paese ormai in recessione, con l’Italia e la Pianura Padana in coda, con la sua industria tedescodipendente, ci faranno aprire gli occhi? Nella relazione che accompagna il PDL 1760, in discussione da luglio 2024 alla Commissione Agricoltura della Camera in sede referente, si può leggere: “Secondo l’Agenzia europea dell’ambiente (AEA) queste sono state responsabili di più di 50.000 morti premature (52.300) in Italia nel solo 2020, per una stima di 462.300 anni di vita persi e di quasi 47.000 nel 2021. Dati drammatici che collocano l’Italia al primo posto per morti premature causate dall’esposizione al PM2,5 e che comportano anche enormi costi sanitari, in particolare nelle zone come la Pianura padana nelle quali si registra un’alta concentrazione di attività emissive, quali gli allevamenti intensivi. Le 50.000 morti premature, la maggior parte di abitanti nella Pianura padana, in buona parte legate alle emissioni degli allevamenti intensivi”. Il PDL N. 1760 “Disposizioni in materia di riconversione del settore zootecnico per la progressiva transizione agroecologica degli allevamenti intensivi”, che vuole una riconversione degli allevamenti intensivi, in primis il blocco di nuovi allevamenti intensivi e impedire l’aumento di capi in quelli attuali, è stato presentato da 23 deputati, tra cui anche quattro di centrodestra, era stato proposto a marzo 2024 da cinque associazioni (Greenpeace, WWF, ISDE, Lipu e Terra!).

Certamente il docufilm 2024 sugli allevamenti intensivi di Giulia Innocenzi “Food for profit”, che ha avuto un enorme successo (è stato trasmesso da Report), ha raccontato e impressionato moltissimi cittadini sui traffici mafiosi delle lobby al Parlamento europeo e di molti parlamentari europei, che sostengono il predominio di questi mostruosi allevamenti intensivi, sia in Italia che nei paesi UE. Ma noi poi mangiamo la carne che producono, con residui di pesticidi proibiti in UE e degli Antibiotici somministrati agli animali.

Sono un vecchio medico, che ha curato in ospedale anche i tumori, che sono malattie croniche, che ci arrivano soprattutto da quello che mangiamo, beviamo e respiriamo. Ci possiamo svegliare e lottare tutti insieme? Oppure alla fine ha ragione Elena Cattaneo, senatrice a vita dal 2013, la neuroscienziata proOGM, che dice da anni che noi italiani siamo degli ipocriti e stupidi, che non vogliamo coltivare (per ora) gli OGM in Italia, ma ce li mangiamo tutti i giorni (glifosato incluso)?

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martedì 11 febbraio 2025

Nat Turner, lo schiavo-profeta che mise a ferro e fuoco la Virginia

Nell’agosto 1831, la rivolta di Nat Turner in Virginia esplose come uno dei momenti più decisivi e violenti della lunga storia della schiavitù negli Stati Uniti. Turner, un predicatore schiavo, guidò un gruppo di ribelli in un attacco violento contro i proprietari di schiavi e le loro famiglie, causando la morte di decine di persone. Questo episodio non fu l’unico, ma si distinse per la sua intensità e per la sfida diretta al sistema che reggeva l’economia del Sud. Attraverso un’analisi delle fonti storiche e delle diverse interpretazioni, esploreremo le cause, lo sviluppo e le conseguenze della rivolta che segnò un punto di rottura di un ordine che sembrava invincibile.

Lo schiavismo era il fondamento economico e sociale del Sud, un sistema che si giustificava con leggi e ideologie razziste, ma che trovava anche la sua forza nel silenzioso assenso delle classi dominanti. Sebbene apparisse solido e imponente, nascondeva contraddizioni e crepe che non potevano essere ignorate.

Gli schiavi vivevano in condizioni estreme, privati di ogni diritto, sottoposti a violenze e separazioni familiari. Tuttavia, la loro risposta a questo ordine era quotidiana, fatta di gesti sottili, di tentativi di fuga, di sabotaggi, e anche di creazione di comunità di fuggitivi, le “maroon communities”.

Prima dell’episodio della rivolta di Nat Turner nel 1831, la storia dello schiavismo americano era costellata da numerose altre rivolte che, sebbene meno note, indicano la persistente resistenza degli schiavi al sistema oppressivo. Gabriel Prosser, nel 1800, organizzò una rivolta in Virginia che, sebbene fallita a causa del tradimento e delle avverse condizioni meteorologiche, dimostrò la possibilità di una resistenza organizzata. Similmente, Denmark Vesey, nel 1822, tentò di guidare una rivolta a Charleston, in Carolina del Sud, che fu scoperta prima di poter essere attuata. Questi tentativi, pur terminando in tragedie per i loro protagonisti, evidenziarono le crepe nel sistema schiavista e la determinazione degli schiavi a lottare per la propria libertà.

 

Il ruolo della madre e della fede

Nathaniel “Nat” Turner nacque in una piantagione di Southampton, in Virginia, il 2 ottobre 1800, in un contesto di oppressione e privazione di libertà. La madre di Nat, Nancy, una donna di origini africane, giocò un ruolo cruciale nella formazione del carattere e delle convinzioni del figlio. Fin dalla più tenera età, Nancy inculcò in Nat il desiderio di libertà, instillando in lui la convinzione che la vita sotto la schiavitù non fosse un destino accettabile per alcun essere umano. Questa influenza materna fu determinante nel forgiare la personalità di Turner, la sua aspirazione alla libertà e la sua resistenza all’oppressione.

Turner dimostrò fin da giovane una predisposizione per la spiritualità e una profonda fede religiosa. La sua capacità di leggere e scrivere, non comune tra gli schiavi dell’epoca, gli permise di studiare la Bibbia e di diventare un predicatore all’interno della comunità schiava. La religione divenne per Turner un rifugio spirituale e una fonte di ispirazione e guida per la sua missione. Nel corso degli anni, cominciò a sperimentare visioni e a percepire segni che interpretava come messaggi divini. Queste esperienze mistico-religiose rafforzarono la sua convinzione di essere stato scelto da Dio per compiere una missione di liberazione.

 

La rivolta

La ribellione iniziò con un attacco mirato alla famiglia Travis, i proprietari di schiavi presso cui Turner era al servizio al momento dell’insurrezione. L’attacco iniziale fu eseguito con precisione e brutalità. Turner e sei dei suoi seguaci più fidati, armati di asce e coltelli, irruppero nella casa della famiglia, uccidendo tutti i membri presenti. Tutti, anche donne e bambini. Questo atto di violenza estrema aveva un duplice scopo: eliminare una delle famiglie di proprietari di schiavi più influenti della zona e inviare un chiaro messaggio di ribellione contro l’intero sistema schiavista.

Dopo l’attacco alla famiglia Travis, il gruppo di Turner crebbe rapidamente in numero, man mano che altri schiavi si univano alla ribellione, ispirati dal suo coraggio e dalla sua determinazione. La strategia di Turner era chiara: muoversi velocemente, colpire di sorpresa e liberare il maggior numero possibile di schiavi, armarsi con le armi prese ai proprietari delle piantagioni e, infine, diffondere la rivolta in tutta la contea e, se possibile, oltre.

Nel corso delle successive 48 ore, il gruppo guidato da Nat Turner lanciò una serie di incursioni contro diverse abitazioni appartenenti a famiglie di schiavisti nella contea di Southampton, in Virginia. Questi attacchi risultarono nella morte di 55 persone, uccise da una violenza che non faceva distinzione tra adulti e bambini, uomini e donne. L’azione di Turner e dei suoi seguaci non era casuale ma frutto di una scelta deliberata e simbolica, mirata a seminare il terrore nei cuori dei proprietari di schiavi e inviare un messaggio potente e chiaro: la fine della tolleranza verso un sistema che si perpetuava sulla negazione di qualsiasi diritto fondamentale alla popolazione schiava.

L’azione era anche finalizzata a suscitare una risposta emotiva e fisica da parte di altri schiavi, spingendoli a unirsi alla rivolta e a lottare attivamente per la loro liberazione. La strategia di Turner comprendeva l’attacco a proprietà notoriamente note per la loro crudeltà verso gli schiavi, incrementando così l’impeto rivoluzionario di chi, fino a quel momento, aveva solo sognato la libertà.

Nonostante l’elevato numero di vittime e la determinazione dei rivoltosi, alcuni degli assalti non andarono a buon fine. In certi casi, gli stessi schiavi scelsero di non aderire alla ribellione e si posero in difesa dei loro padroni. Questa fedeltà può essere interpretata in diversi modi: da un lato, ciò riflette il complesso legame psicologico che si instaurava tra schiavi e padroni, noto come “sindrome di Stoccolma” negli studi psicologici moderni, ma può anche essere visto come risultato della paura di rappresaglie o della mancanza di un’alternativa concreta alla vita che questi schiavi conoscevano.

 

Il contrattacco e la repressione

Immediatamente dopo l’inizio della rivolta, le notizie degli attacchi si diffusero rapidamente tra le comunità bianche locali, generando panico e richieste di azione rapida contro i ribelli. Le autorità locali, comprendendo la potenziale portata della rivolta se lasciata incontrollata, organizzarono milizie di volontari bianchi. Questi gruppi erano spesso composti da proprietari di schiavi determinati a difendere a tutti i costi il loro modo di vita basato sulla schiavitù.

Parallelamente, il governatore della Virginia rispose inviando truppe regolari per assistere le milizie locali nella repressione della rivolta. Questa combinazione di forze locali e statali creò un fronte unito contro Turner e i suoi seguaci, determinato a ripristinare l’ordine e la supremazia bianca con ogni mezzo necessario.

La repressione che seguì fu caratterizzata da una violenza estrema. Gli scontri tra i ribelli e le forze di repressione furono spesso sanguinosi e senza quartiere. Oltre alla caccia diretta a Nat Turner e ai suoi seguaci più stretti, le milizie e le truppe regolari si resero responsabili di numerosi atti di violenza indiscriminata contro la popolazione afroamericana della zona, molti dei quali non avevano alcun legame con la rivolta.

Relazioni dell’epoca descrivono esecuzioni sommarie, torture e linciaggi compiuti dalle milizie contro gli schiavi catturati o semplicemente sospettati di simpatizzare con la causa di Turner. Questi atti di violenza avevano lo scopo di punire i ribelli e di terrorizzare la popolazione schiava, riaffermando il controllo bianco attraverso l’esibizione di potere e crudeltà.

Dopo essere stato nascosto per oltre due mesi, Turner fu trovato da Benjamin Phipps, un agricoltore locale, in un nascondiglio ricavato tra le boscaglie. La sua cattura non fu il frutto di un tradimento ma piuttosto il risultato di una meticolosa ricerca da parte delle autorità, che avevano dispiegato risorse significative per assicurarlo alla giustizia. Per incentivare la collaborazione della popolazione, il governatore della Virginia Floyd emanò persino una taglia di 500 dollari per chi consegnasse Nat Turner.

 

Il processo e l’esecuzione

Il processo a cui Turner fu sottoposto si svolse rapidamente, riflettendo il desiderio delle autorità di chiudere la vicenda e ristabilire l’ordine. Durante il processo, Turner ammise la sua responsabilità nella pianificazione e nell’esecuzione della rivolta, sostenendo di essere stato guidato da visioni divine che lo incitavano a combattere contro la schiavitù. La sua testimonianza, in cui espresse senza remore la sua convinzione di essere stato scelto da Dio per condurre la rivolta, non fece altro che aumentare l’interesse pubblico e l’attenzione mediatica sul caso. Fu perciò giudicato colpevole di cospirazione, ribellione e omicidio e condannato all’impiccagione. Aveva da poco compiuto il 31esimo anno di età.

L’esecuzione pubblica di Nat Turner fu un evento carico di simbolismo, volto a sottolineare il ripristino dell’autorità e il fallimento della rivolta. A mezzogiorno del 11 novembre 1831, Nat fu impiccato a un albero secolare nei pressi di Jerusalem, Virginia. La notizia della sua morte si diffuse rapidamente, suscitando reazioni miste tra la popolazione. Mentre alcuni videro nella sua esecuzione la necessaria conclusione di un periodo di insicurezza e terrore, altri percepirono Turner come un martire della causa abolizionista.

 

Le conseguenze della rivolta

Nei giorni e nelle settimane che seguirono l’esecuzione di Turner, la violenza nei confronti degli afroamericani, sia schiavi che liberi, non cessò. In un clima di paura e sospetto, milizie e cittadini bianchi si resero responsabili di atti di rappresaglia brutali e indiscriminati, spesso giustificati dalla volontà di prevenire future rivolte. Queste azioni non erano limitate alla contea di Southampton ma si estendevano a molte parti del Sud, creando un’atmosfera di terrore tra la popolazione afroamericana.

La repressione della rivolta di Nat Turner lasciò cicatrici profonde nella comunità afroamericana e modificò permanentemente il paesaggio politico e sociale della Virginia e del Sud più in generale. Oltre alla feroce rappresaglia che causò l’uccisione di circa 200 neri, la repressione segnò un punto di svolta nella legislazione e nelle politiche schiaviste. In risposta alla rivolta, furono approvate leggi ancora più restrittive sulla vita degli schiavi e dei neri liberi, limitando severamente la loro capacità di riunirsi, viaggiare e accedere all’istruzione.

La ferocia con cui fu repressa la rivolta di Nat Turner rivela la profonda paura che il sistema schiavista aveva della resistenza degli schiavi. La brutalità degli attacchi contro gli afroamericani, colpevoli o innocenti che fossero, dimostra la determinazione delle autorità e dei proprietari di schiavi di mantenere il loro potere e controllo a ogni costo, rivelando le profonde crepe morali e etiche su cui si fondava la società schiavista del Sud.

 

Eredità e memoria

La figura di Nat Turner rimane controversa e complessa. Per alcuni, è un eroe della resistenza contro l’oppressione e un martire della lotta per la libertà. Per altri, è un personaggio problematico a causa della violenza della rivolta. Nonostante queste divergenze di opinione, la storia di Turner è emblematica della lotta incessante per la dignità umana e la libertà. La rivolta di Nat Turner continua a essere studiata e ricordata come un momento cruciale nella storia americana, un atto di sfida estrema che mise in discussione le fondamenta stesse del sistema schiavista.

Quando consideriamo Nat Turner, e la ribellione da lui guidata, dobbiamo anche riflettere su come la memoria storica venga costruita e tramandata attraverso le generazioni. I racconti di questo evento sono stati modellati non solo dalle verità documentate ma anche dalle tensioni etniche e dalle lotte per il potere che hanno pervaso la società americana, tanto nel XIX secolo quanto nei secoli successivi. La storia di questo leader carismatico e della sua insurrezione è stata spesso minimizzata, distorta o dimenticata a seconda dei cambiamenti nei discorsi pubblici su razza e diritti civili. Ma ci pone davanti al compito di esaminare criticamente il passato riconoscendone le varie voci, anche e soprattutto quelle che sono state represse e marginalizzate.

 

Nat Turner nella cultura popolare

La rivolta di Nat Turner ha ispirato diverse opere nella cultura popolare, estendendo il suo impatto dal contesto storico a quello letterario e cinematografico. Tra queste, spiccano romanzi e film che hanno cercato di esplorare e reinterpretare la vita di Turner e le circostanze che portarono alla rivolta del 1831.

 

Libri

The Confessions of Nat Turner” di William Styron (1967): Questo romanzo, vincitore del Premio Pulitzer, offre una narrazione immaginaria della vita di Nat Turner, basandosi sulla vera “Confessione” raccolta da Thomas R. Gray. Styron immerge i lettori in una profonda introspezione del personaggio di Turner, dando vita a un dialogo immaginario che, sebbene controverso per alcune interpretazioni e rappresentazioni, ha contribuito a riaccentrare l’attenzione sulla figura storica di Turner e sulla sua rivolta.

 

Fires of Jubilee: Nat Turner’s Fierce Rebellion” di Stephen B. Oates (1975): Diversamente dal lavoro di Styron, “Fires of Jubilee” è un’opera di saggistica che si propone di raccontare la storia della rivolta di Nat Turner con un rigoroso approccio storico. Oates ricostruisce gli eventi che portarono alla ribellione, analizzando le motivazioni, il contesto e le conseguenze della rivolta, il tutto attraverso una narrazione avvincente che restituisce complessità e umanità alla figura di Turner e ai suoi seguaci.

 

Film

The Birth of a Nation” (2016), diretto e interpretato da Nate Parker: Questo film, che condivide il titolo con l’omonimo e controverso film di D.W. Griffith del 1915, si distacca completamente dal messaggio razzista del predecessore per concentrarsi sulla vita e sulla rivolta di Nat Turner. Attraverso una narrazione potente e visivamente impressionante, Parker esplora la radicalizzazione di Turner e la sua ascesa come leader della rivolta, offrendo al pubblico contemporaneo una nuova prospettiva su uno degli episodi più significativi e tragici della storia americana pre-bellica.

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