Il World
Inequality Report 2026 del World Inequality Lab, co-diretto da Thomas Piketty
con Emmanuel Saez e Gabriel Zucman alla guida scientifica, conferma che quando
i governi rinunciano alla progressività fiscale e alla redistribuzione i divari
tra ricchi e poveri si allargano. E rilancia la proposta di una tassa minima
per i miliardari
La lotta
alla disuguaglianza, ormai un’emergenza globale, non può e non
deve essere solo materia su cui si esercitano think tank e
convegni accademici. È una scelta politica ed è la politica a doversene
assumere la responsabilità. È il messaggio che arriva dal World
Inequality Report 2026, la nuova indagine del World Inequality
Lab, osservatorio co-diretto da Lucas Chancel, Thomas
Piketty e Rowaida Moshrif, con Facundo Alvaredo, Emmanuel
Saez e Gabriel Zucman alla guida scientifica: il
gotha mondiale della ricerca sul tema. La loro analisi aggiornata conferma
ancora una volta che quando i governi rinunciano alla progressività fiscale e
alla redistribuzione, i divari tra ricchi e poveri
si allargano. E oggi i sistemi di
tassazione di gran parte dei Paesi avanzati contribuiscono a quell’allargamento,
perché consentono a chi si
piazza in cima alla piramide dei redditi di pagare molto meno degli
altri.
“La storia,
l’esperienza dei diversi Paesi e la teoria mostrano che l’attuale livello
estremo di disuguaglianza non è inevitabile. Una fiscalità
progressiva, forti investimenti sociali, standard di lavoro equi e istituzioni
democratiche hanno ridotto i divari in passato e possono farlo di nuovo”,
scrivono nella prefazione l’economista Jayati Ghosh e il
premio Nobel Joseph Stiglitz, tra gli esperti a loro volta
incaricati dalla presidenza sudafricana del G20 di stilare un rapporto ad hoc.
“Il World Inequality Report fornisce la base empirica e la cornice
intellettuale per capire come intervenire”.
Il 37% della ricchezza globale all’1% più ricco
Oggi,
calcola il World Inequality Lab nel suo terzo rapporto basato sul lavoro di 200
accademici, il 10% più ricco della popolazione mondiale
incassa il 53% del reddito totale e detiene il 75%
della ricchezza mentre la metà più povera si ferma rispettivamente
all’8% e al 2%. Non è una “legge naturale dell’economia”. Sono le
conseguenze cumulative di scelte politiche: riduzione dell’imposizione sui più
abbienti, tagli al welfare, arretramento dello Stato come garante
di servizi e investimenti collettivi. È il punto di caduta di
un trentennio (1995-2025) durante il quale il 50% più indigente ha intercettato
appena l’1,1% dell’incremento totale della ricchezza globale a fronte del 37% che
è finito in tasca all’1% più ricco. E in Italia? La disuguaglianza
risulta in aumento lento ma costante. Negli ultimi dieci anni il rapporto tra
il reddito medio del top 10% e quello della metà più povera è salito da 14 a
15. Oggi il 10% più ricco assorbe circa il 32% del reddito totale, mentre il
50% più povero si ferma al 21%. Sul fronte patrimoniale le distanze sono molto
più accentuate: il top 10% possiede il 56% della ricchezza nazionale e l’1%
supera da solo il 22%.
Il fisco iniquo
Il fisco ha
fatto la sua parte: in molti Paesi i miliardari finiscono per pagare aliquote
effettive quasi nulle grazie a elusione e strutture societarie che
permettono di posticipare o evitare la distribuzione di dividendi e
la realizzazione di plusvalenze in modo da non generare
reddito tassabile. In media, a livello globale versano circa il 20%, ben al di
sotto rispetto alla pressione fiscale subita da contribuenti con redditi medi.
Anche quando sono soggetti a imposizione, del resto, i guadagni in conto
capitale sono tassati meno del lavoro. Il risultato è che dagli anni Novanta la
ricchezza dei multi-milionari è triplicata e lo 0,001% – circa 60mila persone, che
starebbero comodamente in uno stadio – controllano tre volte
più denaro della metà più povera dell’umanità, composta da 2,8 miliardi di
persone.
I divari tra regioni
Un adulto
medio in Nord America e Oceania dispone di un reddito pari al 290%
della media mondiale e di un patrimonio che arriva al 338% della
media. In Europa le percentuali sono più basse (215 e 224%
rispettivamente) ma comunque abbondantemente sopra la media globale.
All’estremo opposto, in Africa subsahariana l’adulto medio
sopravvive con un reddito pari al 30% del livello mondiale e una ricchezza che
non arriva al 20%. In concreto, ogni giorno un cittadino statunitense dispone
di circa 125 euro, contro i 10 euro di un abitante dell’Africa subsahariana.
Anche all’interno di ciascun continente la frattura tra ricchi e poveri è
estrema: in Russia e Asia centrale il top 10% guadagna 141
volte il reddito medio della metà più povera, in Nord America e
Oceania il rapporto è 72 a 1 e in Europa, il continente più egualitario, il
divario è comunque 19 a 1. Quanto alla ricchezza, in tutte le regioni il 10%
più abbiente controlla ben oltre la metà di quella complessiva.
La disuguaglianza come scelta politica
“La
disuguaglianza non è un destino, ma una scelta”, ribadiscono Ghosh e Stiglitz
nella chiusa della loro introduzione. Dove i sistemi pubblici restano più
robusti, infatti, tasse e trasferimenti riescono a ridurre le disuguaglianze in
modo significativo. Vale a dire che se il gap aumenta è perché la politica ha
deciso di stare a guardare, invece di adottare misure per affrontare il
problema. Le vie per farlo sono numerose: investimenti pubblici in
istruzione e salute, che secondo gli autori sono “tra i più potenti
strumenti di riequilibrio”, trasferimenti monetari e sussidi di disoccupazione
insieme a supporti mirati ai nuclei vulnerabili, riduzione dei gap di genere. E
ovviamente politiche fiscali.
Perché serve una tassa minima globale sui miliardari
Una tassa minima
globale su miliardari e centimiliardari sul modello di quella proposta da Gabriel
Zucman ed elaborata dal suo Eu Tax Observatory, discussa anche dai
leader del G20, sarebbe
“tecnicamente realizzabile, gestibile sul piano amministrativo e politicamente
trasformativa”. Fissando l’aliquota al 2% la regressività al vertice verrebbe
neutralizzata e portandola al 3% il sistema tornerebbe progressivo. Al tempo
stesso i governi potrebbero raccogliere cifre pari rispettivamente allo 0,45% o
allo 0,67% del pil mondiale con cui finanziare investimenti decisivi in
istruzione, sanità e adattamento climatico, settori penalizzati dai bilanci
pubblici “magri” dei Paesi occidentali e sottofinanziati da sempre in quelli
più poveri. Basti dire che nel 2025 la spesa pubblica per istruzione per ogni
giovane tra 0 e 24 anni è stata di 220 euro in Africa
subsahariana, contro i 7.430 euro dell’Europa e i
9.020 del Nord America.
I ricchi responsabili della crisi climatica
Il tema
climatico è un’altra bomba politica. Il 10% più ricco
del mondo è responsabile del 77% delle emissioni legate alla proprietà di
capitale e del 47% di quelle da consumo. La metà più povera non supera il 3% e
il 10%, rispettivamente. Ma chi contribuisce meno alla crisi climatica è anche
chi ne paga il prezzo più alto: secondo il rapporto, le famiglie a basso
reddito sopportano il 75% delle perdite economiche globali
legate al riscaldamento. Anche in questo caso, le soluzioni – se c’è la volontà
politica – non mancano. Sovvenzioni climatiche mirate, combinate con una
tassazione progressiva, possono accelerare l’adozione di tecnologie a basse
emissioni. E tasse ad hoc accompagnate a paletti sui consumi di lusso e sugli
investimenti ad alta intensità di carbonio possono contribuire a ridurre le
emissioni dei Paperoni.
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