sabato 29 febbraio 2020

Parole che uccidono - Alessandro Ghebreigziabiher



Si dice che la penna ne uccida più che la spada.
Probabilmente è vero, anche se oggigiorno abbiamo un po’ perso l’uso della famosa penna Bic o di quella a sfera. Nel nostro tempo ci limitiamo a digitare dei tasti, prestando più o meno attenzione a quel che scriviamo. Spesso dimenticandoci un secondo dopo di ciò che abbiamo detto.
Tuttavia, tale epocale mutamento non diminuisce affatto il potere delle parole. Anzi, paradossalmente ci ha portato a sottovalutarne il peso e le conseguenze, a breve e lungo termine. Ma la responsabilità, ovvero la colpa, rimane e qualcuno dovrà risponderne, prima o poi.
Perché le parole uccidono, ripeto. Letteralmente. Traducono folli pensieri e terrificanti intenzioni.
Come quando Tobias Rathien, l’uomo che ha lordato le sue mani con il sangue di undici persone, ferendone gravemente altre quattro ad Hanau, in Germania, ha dichiarato che alcuni popoli che non si riescono a espellere vanno sterminati.
Ma le parole sono come i granelli della sabbia sui cui corriamo d’estate per non scottarci. Le condividiamo sciaguratamente distratti come ogni atomo della terra che ci ospita, dalla quale veniamo alla luce e a cui, alla fine del giorno chiamato vita, faremo ritorno. Transitano leggere, o tutt’altro, in modo equo e caotico tra ciascuno di noi, dal ricco al povero, dal vecchio al giovane, dal presunto uguale al necessariamente diverso, come invisibili molecole di un’aria che facciamo di tutto per rendere anno dopo anno più irrespirabile.
Prima di arrivare a cancellare sul serio la vita altrui, sono parole che dividono feriscono, come quelle di Matteo Salvini quando afferma che ci sono troppi stranieri in campo, dalle giovanili alla Serie A, e questo è il risultato. #STOPINVASIONE e più spazio ai ragazzi italiani, anche sui campi di calcio. Quando afferma che una ricerca della Fondazione Leone Moressa rivela che il 3% degli islamici in Italia sostiene che l’ISIS sia il vero Islam, e visto che in Italia i musulmani sono un milione e mezzo, ci sarebbero quindi fra noi quasi 50.000 potenziali TERRORISTI. E quando segnala continue scosse di #terremoto in Centro Italia, neve e gelo, ma poi conclude con altro che “migranti”, che il governo aiuti subito questi italiani!
Sono parole che discriminano offendono, come
quelle di Donald Trump, il quale sostiene che (i messicani) non sono nostri amici, portano droghe e crimine, che le persone in arrivo in Usa da Haiti hanno l’Aids quelle provenienti dalla Nigeria dovrebbero tornarsene nelle loro capanne in Africa e finisce per chiedersi perché abbiamo tutta questa gente da cessi di Paesi.
Sono parole che intendono spaventare le creature più impressionabili e fomentare gli animi più vulnerabili, come quelle di Marine Le Pen quando esclama: “Diciamo no a questa immigrazione che sommerge i nostri Paesi e mette in pericolo la sicurezza dei nostri popoli, dei nostri conti, dei nostri valori di civiltà. Noi vogliamo vivere nei nostri Paesi come vogliamo noi: in Francia da francesi, in Italia da italiani.”
Sono parole, in una parola, razziste, come quelle di Viktor Orbán quando dichiara che nel paese che governa non abbiamo bisogno di migranti, ma di bambini ungheresi.
Sono parole ignoranti, ma soprattutto infami, come quelle di Boris Johnson, il quale è convinto che se dobbiamo legalizzare i matrimoni gay, allora non vedo nulla di male nel legalizzare i matrimoni tra tre uomini, o tra tre uomini e un cane. Prima di chiosare berciando che i figli di madri single sono illegittimi.
Sono parole che escludono discriminano in maniera del tutto disumana, come quelle con cui Geert Wilders si augura un’Olanda per Henk e Ingrid, non per Ahmed e Fatima.
O anche parole semplicemente idiote, ma non per questo meno pericolose, come quelle di Nigel Farage, quando senza alcuna vergogna afferma che le donne valgono meno, è giusto guadagnino meno, vanno in maternità.
Queste e moltissime altre sono parole che magari non uccidono, ma sono frutto avariato e velenoso di voci potenti, la maggior parte delle quali guidano nazioni intere e seminano odio e alimentano disagi in milioni di persone.
Sono parte fondante del medesimo discorso ignobile che conduce allo sterminio di vite innocenti.
Sai qual è l’aspetto più grottesco e inquietante di tale scenario? Che l’abbiamo già visto nei secoli passati, a cominciare da quello scorso…

giovedì 27 febbraio 2020

La nuova maledizione biblica - Aldo Morrone



“La malattia è il lato notturno della vita,
una cittadinanza più onerosa.
Tutti quelli che nascono hanno una doppia cittadinanza,
nel regno dello star bene e in quello dello star male.
Preferiremmo tutti servirci soltanto del passaporto buono,
ma prima o poi ognuno viene costretto,
almeno per un certo periodo,
a riconoscersi cittadino di quell’altro paese”.
(Susan Sontag, 1977)

Siamo tornati stanchissimi e ricoperti di polvere dalla testa ai piedi. In bocca, in gola e negli occhi. Si tossiva e starnutiva, non era il coronavirus, ma la mancanza di strade. Solo piste per asini e dromedari. Ma siamo riusciti a raggiungere Semema e a incontrare la popolazione locale con cui da anni lavoriamo per garantire la salute e la dignità alle donne incinte perché nessun neonato e nessuna donna debba più morire di parto. 
Insieme a Carmen a Giulia, a Luca, accompagnati da Esayas e da Hagos, ci siamo commossi a vedere e sentire la gioia di creature che “ai confini” del mondo ci abbracciavano e cantavano. Il desiderio di vivere è più forte della paura di morire. Non conoscono il COVID-19, per fortuna, ma temono di più la malaria, la diarrea infantile, il morbillo e il tetano. Ci chiedono cosa faremo per contrastare gli sciami di locuste che da mesi li sta portando alla carestia e fame. Per loro e per quel po’ di bestiame che cercano di allevare. Questo oggi li spaventa e hanno paura che il resto del mondo non comprenda questa “maledizione” biblica

Ma per un giorno si festeggiava. C’erano nuovi strumenti diagnostici, per evitare di morire per un’emorragia “post partum” o per una banale infezione. Con i medici e gli infermieri dell’Università di Aksum, abbiamo avviato l’ennesimo screening per le “Tropical Neglected Diseases”, se riusciamo a diagnosticarle subito, si possono salvare migliaia di vite. E noi utilizziamo la conoscenza delle lesioni cutanee che spesso compaiono molto prima di tutti gli altri sintomi. 
Stanchi, stanchi da morire, ma felici perché tocchiamo con mano che si può e si deve lottare per la salute di tutti, sotto casa e a migliaia di chilometri di distanza. Non fa nessuna differenza. Proprio con l’epidemia del COVID-19 l’abbiamo imparato a nostre spese. 
Il sole al tramonto è stato dolce con noi e stanotte le stelle ci sorridevano. Domani un altro villaggio, un’altra woreda, con altre donne e bambini

mercoledì 26 febbraio 2020

Decalogo contro la paura - Franco Arminio


1. Le passioni, quelle intime e quelle civili, aumentano le difese immunitarie. Essere entusiasti per qualcuno o per qualcosa ci difende da molte malattie.
2. Leggere un libro piuttosto che andare al centro commerciale.
3. Fare l’amore piuttosto che andare in pizzeria.
4. Camminare in campagna o in paesi quasi vuoti.
5. Capire che noi siamo immersi nell’universo e che non potremmo vivere senza le piante mentre le piante resterebbero al mondo anche senza di noi. Stare un poco di tempo lontani dai luoghi affollati può essere un’occasione per ritrovare un rapporto con la natura, a partire da quella che è in noi.
6. Viaggiare nei dintorni. Il turismo è una peste molto più grande del coronavirus. È assurdo inquinare il pianeta coi voli aerei solo per il fatto che non sappiamo più stare fermi.
7. Sapere che la vita commerciale non è l’unica vita possibile, esiste anche la vita lirica. La crisi economica è grave, ma assai meno della crisi teologica: perdere un’azienda è meno grave che perdere il senso del sacro.
8. La vita è pericolosa, sarà sempre pericolosa, ognuno di noi può morire per un motivo qualsiasi nei prossimi dieci minuti, non esiste nessuna possibilità di non morire.
9. Lavarsi le mani molto spesso, informarsi ma senza esagerare. Sapere che abbiamo anche una brama di paura e subito si trova qualcuno che ce la vende. La nostra vocazione al consumo ora ci rende consumatori di paura. C’è il rischio che il panico diventi una forma di intrattenimento.
10. Stare zitti ogni tanto, guardare più che parlare. Sapere che la cura prima che dalla medicina viene dalla forma che diamo alla nostra vita. Per sfuggire alla dittatura dell’epoca e ai suoi mali bisogna essere attenti, rapidi e leggeri, esatti e plurali.

martedì 25 febbraio 2020

In Australia la fortuna ci vede benissimo - Annamaria Testa (9)



Continua il racconto di un viaggio intorno al mondo che ho di recente fatto con mio figlio.

Alla fine siamo arrivati in Australia. Ci staremo pochi giorni e riusciremo a farci appena un’idea di com’è.
Comunque, sempre meglio degli scarsi stereotipi che, quando si dice “Australia”, vengono in mente a chiunque. I canguri. Ragazzoni biondi con la tavola da surf. Mr. Crocodile Dundee col cappellaccio da cui pendono turaccioli (se uno ha visto il film omonimo). Le vie dei canti (se uno ha letto Chatwin). Le Olimpiadi a Sydney. E poi: gli spazi immensi. Gli spazi immensi e gli aborigeni in salsa zuccherosa (se uno ha visto il film Australia). La grande barriera corallina.
Dico subito che i turaccioli sul cappello di Mr. Crocodile Dundee non sono un vezzo decorativo ma servono a tener lontani gli stuoli di moschini che ti ronzano intorno, di preferenza sulla faccia, non appena ti allontani dalla città, e anche nei posti più remoti e aridi. Sottolineo che questo non è poi un gran problema. E che di surfisti e barriera corallina non so niente perché siamo stati altrove.
Prima di raccontare dove siamo stati, però, aggiungo un paio di notiziole più generali. L’Australia è grande più di 25 volte l’Italia (è il sesto paese più grande al mondo). Ma la popolazione è appena un po’ più di un terzo di quella italiana: solo 25 e rotti milioni di abitanti, che risiedono quasi tutti lungo le coste e per la maggior parte si addensano sulla rigogliosa costa a sudest dove, per intenderci, c’è Sydney. La parte centrale dell’Australia (l’outback), è arida ed è rossa. O rosso-rosato. O rosso-mattone. Oppure rosso ocra.
La generazione rubata
L’Australia è stata scoperta dagli europei poco più di 300 anni fa, agli inizi del 1600, e colonizzata a partire del 1788 in poi. Dico “colonizzazione”, ma all’inizio si è trattato di una colonia penale, e di galeotti trasportati via nave dal Regno Unito. Poi si è trattato di pastori e agricoltori. Poi di cercatori d’oro.
L’Australia è abitata da circa 50mila anni (alcuni studi suggeriscono datazioni assai anteriori). Gli antenati di quelle che oggi chiamiamo popolazioni aborigene sono arrivati dal sudest asiatico, in diverse ondate migratorie. Forse hanno navigato di isola in isola. Forse si sono mossi camminando sul ponte di terra che durante le ere glaciali (l’ultima, il pleistocene, risale a 18mila anni fa) univa Australia, Nuova Guinea e isole Aru in un supercontinente chiamato Sahul. Poi, con il crescere del livello del mare, per l’Australia è cominciato un isolamento durato millenni.
Si stima che gli aborigeni fossero almeno 300mila (ma alcune fonti dicono 700mila) ai tempi della prima colonizzazione europea. Erano piccole comunità di cacciatori-raccoglitori, sparse su un territorio vastissimo, divise in almeno 300 gruppi linguistici (ma alcune fonti danno numeri superiori).
Ai primi del novecento gli aborigeni erano ridotti a poche decine di migliaia.
A partire dal 1869 e fino al 1970, con varie regolamentazioni nelle diverse aree, le autorità preposte alla “protezione” (sic) degli aborigeni hanno creato riserve per segregare la popolazione autoctona e hanno sistematicamente sottratto alle loro famiglie i bambini aborigeni, e specialmente i bambini meticci, per affidarli a missioni religiose ed educarli secondo lo stile di vita bianco. È la storia terribile della stolen generation, la generazione rubata: si parla di almeno centomila bambini portati via.
La cittadinanza australiana è stata conferita agli aborigeni, insieme al diritto di voto, solo nel 1967. A quei tempi, però, non gli era stato riconosciuto alcun titolo di proprietà della terra. Si è cominciato ad affrontare il problema solo nel 1976, con l’Aboriginal land rights act. Il governo ha chiesto scusa per la generazione rubata il 13 febbraio 2008.
Oggi il 90 per cento circa della popolazione australiana è di origine europea. Un 8 per cento circa è di origine asiatica. Una quota tra il 2 e il 3 per cento è aborigena o ha ascendenze aborigene. Per dire: nel continente c’è una percentuale maggiore di individui (il 3,8 per cento circa) che vanta origini italiane. Quella italiana è la terza comunità del paese, e l’Australia ospita il maggior numero al mondo di studenti di italiano come seconda lingua.
Mi è capitato di parlare a lungo con persone che lavorano alle dipendenze dei nativi australiani. Mi hanno detto che loro preferiscono definirsi aborigeni (dal latino ab origine, cioè: dalle origini) e che considerano rispettoso il termine. Quindi, userò questo.
A Sydney, ai primi di settembre, è già primavera. Il clima è mite, il cielo è limpido e sugli alberi si vedono le prime gemme. L’Opera House si staglia candida contro l’azzurro e sembra progettata ieri, per quanto appare armoniosa, audace e contemporanea. Invece è stata disegnata alla metà degli anni cinquanta da un architetto danese, Jørn Oberg Utzon, e ci sono voluti vent’anni per costruirla, tra mille difficoltà, cambiamenti e controversie per via dei costi crescenti. Utzon è stato forzato ad abbandonare il progetto prima che fosse completato. Non l’hanno neppure invitato all’inaugurazione.
A un primo sguardo
Solo in seguito a Sydney ci si è accorti che quella costruzione aveva tutti i requisiti per diventare l’emblema della città. Molti ci vedono un insieme di vele che dialogano con quelle che si muovono sull’acqua della baia su cui l’Opera House si affaccia, ma sembra invece che la forma definitiva del complesso sia stata ispirata da un’arancia sbucciata.
A un primo sguardo Sydney appare linda e ordinata, piacevole e benestante: un posto dove si vive bene. La gente per strada è mediamente giovane, e l’atmosfera è rilassata ma non sfaccendata.
Nell’area accanto all’arco di ferro dell’Harbour bridge, l’altra costruzione-simbolo della città, i rimanenti edifici ottocenteschi di mattoni dialogano con i nuovi grattacieli del quartiere degli affari.
Camminiamo verso sud per intercettare un po’ di edifici storici, inclusa la Town hall e la cattedrale di St. Andrew, fino all’Anzac memorial: ricorda i militari australiani morti nel corso della prima guerra mondiale, ed è collocato in un sito dove in precedenza i guerrieri aborigeni – o almeno, quelli sopravvissuti all’epidemia di vaiolo portata dai primi coloni – svolgevano prove di combattimento cerimoniali per dimostrare il proprio valore.
Risaliamo passando da Hyde park, il più antico giardino pubblico del continente, e procediamo lungo la catena di parchi, uno adiacente all’altro, che si affacciano sulla baia. Ci sorprende la quantità di nomi italiani che campeggiano sulle pareti della Sydney art gallery, dorate nel tramonto: Andrea del Sarto, Botticelli, Bellini, Cimabue, Correggio, Leonardo da Vinci, Tintoretto, Donatello, e, in bella vista, Michael Angelo.
Hyde park non è l’unico toponimo britannico in cui ci imbattiamo. Per dire: c’è una Bond street, e ci sono i Royal botanic gardens, un Queen Victoria building e una Queen square, a cui si accede da Prince Albert road. Senza contare che siamo nel New South Wales, il Nuovo Galles del Sud, e che in Australia esistono una regione chiamata Queensland e un’altra chiamata Victoria.
La cosa mi sembra curiosa: come se ci fosse una volontà esplicita di tenersi ben stretta una parte delle ascendenze e del passato più recente, quella britannica e imperiale, cancellando o minimizzando tutto il resto.
Questa volta sono io a poter vantare un contatto locale, e mi pavoneggio un po’ con mio figlio (anch’io conosco gente in parti lontane del mondo).
Dunque, usciamo a cena con Lucia, un’amica italiana che abita e insegna a Sydney da anni, con il suo bel bambino ricciuto e sveglissimo, a riprova del fatto che sperimentare già da piccoli lingue e culture diverse apre la mente, e con un’altra simpatica collega italiana della mia amica.
Una storia diversa
Ceniamo in un ristorante cinese: l’Australia non ha una propria tradizione gastronomica, mi dice Lucia, e cenare al cinese è, a suo modo, un classico. La sera successiva mi proporrà, invece, un altro classico: pizza (napoletana, ottima) e ottimo gelato.
Senza ingredienti autentici non c’è cucina autentica. Per questo l’innamoramento australiano per il cibo italiano è partito, prima ancora che dai ristoranti, dai piccoli deli di frutta e verdura. Qui, a partire dal secondo dopoguerra, i negozianti provenienti dal meridione d’Italia hanno fatto conoscere agli aussie (è il modo in cui gli australiani definiscono se stessi) broccoli e ricotta, aglio, olio d’oliva e pane croccante.
Chiedo come si vive a Sydney, e in Australia. “La vita è confortevole”, dice Lucia, “ma si sta come in una bolla. Tutti continuano a raccontarsi la storia del lucky country, il paese fortunato. Le cose non sono esattamente così. E non lo sono per tutti”.
In sostanza, dice Lucia, in un contesto che rimane comunque profondamente conservatore persiste anche una contraddizione non sanata tra sistema economico neoliberale e sistema politico di stampo neocoloniale.
L’Australia può vantare il record mondiale di espansione economica, con 27 anni di crescita non interrotta da alcuna fase recessiva.
Oggi, anche se l’economia sta cominciando a rallentare, gli aussie amano pensare di vivere in un paese fatto di grandi spazi e gente amichevole, democratico e dotato di un ottimo sistema sanitario. Un paese aperto, multiculturale e ricco di opportunità. Non hanno per niente torto.
Ma multiculturalismo e apertura non riguardano tutti nello stesso modo. In altre parole, se capisco bene, in Australia la fortuna ci vede benissimo. E ti bacia solo se sei uno skilled worker (un operaio specializzato o un professionista) e se sei bianco.
Per i profughi e richiedenti asilo, per esempio, le opportunità sono pari a zero: le politiche locali sono ancora più dure di quelle statunitensi, e le persone (bambini compresi) provenienti da paesi in guerra come l’Afghanistan o la Siria vengono, di fatto, deportate e tenute prigioniere in due isolette lontane dal continente. Sembra che ora, per accoglierli, si stia muovendo la Nuova Zelanda. Si stima che dal 2012 l’Australia abbia speso 8,5 miliardi di dollari per tenere lontani i rifugiati.
Peraltro, impiega il termine “bolla” usato da Lucia anche un recente articolo del New York Times, che commenta la recente, inedita e clamorosa iniziativa di tutti i quotidiani nazionali australiani, nessuno escluso, di uscire con la prima pagina totalmente cancellata. L’iniziativa è stata ripresa da tutte le reti televisive. L’obiettivo è segnalare la tendenza governativa a limitare drasticamente o a sopprimere, con la scusa della sicurezza nazionale, la libertà di parola e d’informazione a proposito di temi scomodi, dai maltrattamenti agli anziani in alcuni istituti di cura alle condizioni dei profughi rinchiusi nei campi di detenzione.
Un altro indizio delle complessità australiane è che oggi, e nonostante tutto, gli intellettuali più interessanti – me lo conferma Lucia – sono aborigeni.
Un ulteriore indizio ancora è la quantità di emissioni di Co2 prodotte: secondo la Banca mondiale, l’Australia è la seconda nazione al mondo per emissioni pro capite, dopo l’Arabia Saudita e prima degli Stati Uniti (la Cina è dodicesima). Un primato poco comprensibile in un paese sommamente esposto ai rischi della crisi climatica. Certo, gli australiani sono pochi, e dunque l’impatto al livello globale non è rilevante. Ma questo forse non è un buon motivo per disinteressarsi del tema.
Andiamo a vedere il campus dell’università di Sydney: fondata nel 1850, è stata la prima università in Australia, è situata in un luogo ameno e immerso nel verde e ovviamente è anch’essa molto british.
Un altro luogo assai ameno, molto frequentato dai locali, è la passeggiata costiera (sei chilometri di lunghezza) che unisce le località di Bondi e di Coogee, poco fuori città: una successione di bellissime spiagge, intervallate da tratti di costa rocciosa e tratti di lungomare pavimentato.
Qui si trovano alcune delle ville più lussuose e costose dei dintorni, e diverse ocean pool: sono vere e proprie piscine artificiali, ritagliate nel mare da muri di protezione sui quali però la sommità delle onde riesce a passare. Sono un’invenzione ottocentesca, e servono a fare il bagno senza preoccuparsi degli squali.
Prima di ripartire, facciamo un giro in barca per la baia: c’è un vento teso, forte, che spazza il cielo e rende brillanti i colori e scintillante ogni superficie. Dal mare è possibile apprezzare l’ampiezza del paesaggio, la bellezza dei nuovi edifici del centro direzionale e l’imponenza di quelli ancora in costruzione, le numerose aree verdi. Vele e piccole barche a motore si incrociano al largo e, vista da lontano, Sydney sembra la città perfetta: moderna e vibrante, ma a misura umana. Certo: anche vista da vicino la città resta così, perfetta. Ma non per tutti.
La mattina seguente partiremo per il Northern Territory, e per Uluru. Ci aspettiamo di trovare un posto molto diverso da qualunque altro visto prima. Ma non abbiamo ancora la più pallida idea di quanto ci apparirà diverso.

lunedì 24 febbraio 2020

Tunita gioca a pallone



Ha “invaso” letteralmente il campo e il cuore di tutti questi giocatori, tanto da essere adottata a mascotte di tutta la squadra. Loro sono i calciatori messicani dell’Atlético de San Luis e questa è la storia della piccola Tunita, il cagnolino randagio che ha rubato i riflettori durante un’importante partita.
Era lo scorso venerdì 17 quando l’Atlético San Luis si scontrava con il Cruz Azul Fútbol Club. Nel bel mezzo del macht, l’ala destra Germán Berterame nota la presenza di un cane in campo. Lo prende dunque delicatamente in braccio e lo porta fuori dal terreno di gioco.
Ma la storia non finisce qui. Il sabato successivo, il club messicano lancia un messaggio sulla sua pagina Facebook per chiedere informazioni su dove si trovasse il cucciolo, già denominato il “più grande fan” della squadra.
In un batter d’occhio, dopo una grande mobilitazione da parte dei fan, il San Luis ha ritrovato Tunita e lo ha adottato!
Questo lunedì, il club ha pubblicato un video che mostra tutta la storia di Tunita con San Luis:
Vi presentiamo il nostro nuovo rinforzo”, scrivono sul profilo. E, insomma, benvenuto nuovo peloso!

domenica 23 febbraio 2020

Abbracciarsi - Lorenzo Pedrazzi



Una volta ho abbracciato una mia amica per sette minuti consecutivi. Eravamo a Pordenone per un festival letterario, in un tiepido week-end di fine settembre, e ci siamo stretti l’uno all’altra sul prato del nostro bed and breakfast, scalzi. Stavamo facendo un esperimento: volevamo verificare se il corpo riceva davvero del benessere fisico da un abbraccio di almeno venti secondi, attraverso il rilascio di ossitocina e la diminuzione della pressione sanguigna. Invece di tenere il conto, però, siamo rimasti immobili sull’erba fresca, separandoci solo quando entrambi lo abbiamo ritenuto opportuno. È durato per circa sette minuti, che nella percezione soggettiva del tempo sono un’infinità.

Esiste tutto un rituale, nell’abbraccio, che replichiamo ogni volta senza rendercene conto: è un linguaggio che sperimentiamo fin da piccoli, lasciandoci guidare dagli automatismi del nostro corpo e dalle regole dell’ordinamento sociale in cui viviamo. Basta trascorrere qualche momento fra gli spettri boccioniani di una stazione ferroviaria – o all’ingresso di un aeroporto – per osservarne le coreografie. Di recente, in largo anticipo per un volo che da Boston mi avrebbe riportato a Milano, ho sostato alcuni minuti sulla banchina delle partenze internazionali, dove taxi, pullman e auto private scaricavano passeggeri ingombri di bagagli. La diversa gradazione dei rapporti sentimentali influenzava la danza degli addii: due giovani amiche si salutavano con un abbraccio colmo di risate, oscillando a destra e sinistra come l’asta di un metronomo, simili a ballerine intente a darsi il ritmo; un ragazzo e una ragazza tenevano le mani posate sui rispettivi avambracci, parlando a brevissima distanza, poi si sono congiunti in una stretta fugace, accompagnata da leggere pacche sulla schiena; un bambino sfuggiva all’abbraccio di una signora canuta, forse troppo acerbo per suggellare il commiato con una dimostrazione d’affetto; un uomo e una donna si avvicinavano cautamente l’uno all’altra, reggendosi per i gomiti e poi sfiorandosi le guance con le labbra, segno di un rapporto cortese ma non intimo; una coppia, all’opposto, si abbracciava forte prima di baciarsi con passione, mentre le mani di entrambi scivolavano sulla schiena dell’altro fino al principio delle natiche, vezzeggiandole con le dita.

Per tutti loro – come ci insegna quel romanticone di Prévert – l’abbraccio è valso un “minuscolo secondo d’eternità” la cui vera estensione non si potrebbe comunicare nemmeno in “migliaia e migliaia di anni”, secondo un paradosso che si ricollega alla nostra percezione del tempo. L’intensità dell’abbraccio rivela la natura dei legami affettivi, rallentando di conseguenza il flusso dei secondi: quante volte, durante un abbraccio, abbiamo rivisto davanti ai nostri occhi tutti i momenti appena passati in compagnia di quella persona? E quante volte ci siamo stretti a lei come se i nostri corpi volessero compenetrarsi, fondersi, fino a diventare una singola entità? Non a caso, l’abbraccio più memorabile è sempre un’eufonia di tepori che si scambiano, odori che si mescolano e respiri che dialogano fra loro. Durante il mio soggiorno americano mi è capitato di riceverne alcuni di tal genere, e sono quelli che restano più a lungo sulla pelle. Mentre i due corpi si amalgamano l’uno con l’altro, le mani si incontrano sulla schiena e prendono ad accarezzarla lievemente, come per dare conforto nell’istante dei saluti; le teste rimangono affiancate, le narici respirano gli umori del collo e dei capelli, le labbra sono piegate teneramente all’insù. Come una creatura bicefala, viviamo quel momento eterno in assoluta sincronia, sperando che le nostre menti vaghino nella stessa direzione.

Di nuovo, le parole dei grandi vengono in nostro soccorso per chiarirci le idee. Roland Barthes, nei suoi Frammenti di un discorso amoroso, cita proprio questo tipo di abbraccio, “una stretta immobile” nella quale restiamo “ammaliati, stregati: siamo nel sonno, senza dormire; siamo nella voluttà infantile dell'addormentamento: è il momento delle storie raccontate, della voce che giunge a ipnotizzarmi, a straniarmi, è il ritorno alla madre (…). In questo incesto rinnovato, tutto rimane sospeso: il tempo, la legge, la proibizione: niente si esaurisce, niente si desidera: tutti i desideri sono aboliti perché sembrano essere definitivamente appagati”. Se riusciamo a cogliere questo barlume di quiete, scopriamo di aver sottratto un frammento della persona abbracciata, e di averlo barattato con una piccola parte di noi stessi: la speranza è che sia lì ad aspettarci, quando finalmente la rivedremo.

A tal proposito, l’assenza del desiderio resta circoscritta all’istante perpetuo dell’abbraccio, quando l’unione fisica ed emotiva con la persona amata (non necessariamente in senso romantico, ma anche familiare o amicale) è pienamente realizzata. In quel momento non c’è nient’altro che potremmo desiderare, poiché l’idea di prolungare l’unione all’infinito – vero cruccio di ogni addio – si manifesta solo dopo, con la separazione forzata dei corpi. È lì che sorge la malinconia, la sensazione di vuoto che accompagna la nostra partenza; ed è esattamente ciò che ho provato io stesso quando mi sono separato dai miei affetti americani, o dall’amica che ha sostenuto con me lo sconfinato abbraccio di sette minuti: uno shock d’improvvisa solitudine, uno straniamento dal mondo esterno che ti fa venire voglia di rifugiarti ancora in quell’abbraccio, in quella comunione di corpi sincronici. D’altra parte, un abbraccio è la massima espressione delle esigenze umane più basilari, che ci guidano istintivamente verso la socialità e il confronto relazionale: ne sentiamo il bisogno, così come spesso avvertiamo l’urgenza di partire, e di esplorare un “altrove” a noi ignoto. Curioso che queste due necessità, per certi aspetti antitetiche, siano anche indissolubilmente correlate.

Eppure, l’abbraccio ha in sé anche una connotazione stereotipata. Essendo la forma più essenziale tra le dimostrazioni d’affetto (ancora più del bacio, che ha meno sfumature di senso e di scopo), l’abbraccio si presta alla corruzione della routine, al deterioramento dell’abitudine; e, non appena succede, disperde tutta la sua energia. Molte volte ci capita di chiudere un messaggio testuale con “un abbraccio”, e il fine è indubbiamente nobile (ovvero, dare calore a una comunicazione che altrimenti suonerebbe algida), ma il concetto stesso ne risulta logorato per l’eccessivo utilizzo, e il nostro interlocutore quasi non se ne accorge: l’abbraccio diventa così un orpello formale, come le chiose suggerite dai libri di testo per concludere una lettera in lingua straniera. Basta poco a tradire la purezza del gesto, soprattutto quando smette le sue vesti originarie – quelle, per l’appunto, di un gesto fisico – e cade nelle trappole della retorica. Se esistesse un generatore automatico di tweet, ed esso potesse reagire alle notizie di cronaca grazie a un algoritmo nemmeno tanto complesso, verosimilmente partorirebbe frasi vuote, di pura circostanza, come quelle pubblicate da Salvini in seguito al crollo del ponte Morandi: “Un abbraccio ai Genovesi, tutti” (dove la precisazione finale – “tutti” – non fa che aumentare la retorica a livelli esponenziali, anche sul piano dell’enunciazione). In questi termini, l’abbraccio non è molto diverso dai «thoughts and prayers» che i personaggi pubblici americani dedicano alle vittime delle stragi, come ci ricorda un geniale episodio di Bojack Horseman.

Per quanto mi riguarda, ho appreso del crollo mentre mi trovavo in Massachusetts, ascoltando una radio locale di Cape Cod, dove la notizia è stata ovviamente riportata con lo stesso distacco che permea i nostri giornalisti quando segnalano una tragedia avvenuta dall’altra parte del mondo. Di ritorno in Italia, ho trovato un profluvio di abbracci rivolti alla città e ai familiari delle vittime, com’è giusto che sia: davanti alla tragedia, nel terrore di suonare cinici o inopportuni, ci si rifugia sempre nelle espressioni rituali, che troppi danni non possono fare. E allora, anche quando è puro, accade che il gesto sia svenduto per suscitare la commozione dei lettori, e aumentare le visualizzazioni di un articolo o di un contenuto audiovisivo: le telecamere sono leste a cogliere “l’abbraccio di un pompiere alla mamma di una vittima” durante i funerali, perché sanno che in quell’abbraccio si coagula un sentimento condiviso dalla popolazione, proprio all’altezza della “pancia”, dove siamo tutti più vulnerabili. Non è più l’abbraccio dei saluti, bensì quello del conforto e dell’accoglienza, intesa sia come accoglienza concreta (pensiamo alle polemiche quotidiane sui migranti) sia come accoglienza psico-emotiva, di compartecipazione a un dolore: riconosco la tua sofferenza, e me ne assumo una parte del peso. La sciagurata politica dei respingimenti non fa che negare questo amplesso, fisico o metaforico che sia, ed è un comportamento paradossale da parte di una classe dirigente che sulla retorica degli abbracci costruisce molta della sua popolarità, elemosinando like e follower prima ancora che elettori.

Lo stesso Salvini, ad esempio, usa l’abbraccio come strumento “social” per deflettere le critiche e ostentare una serenità perenne, incrollabile persino di fronte agli insulti più brutali… un po’ come fa Gianni Morandi quando risponde ai troll su internet, ma senza la genuinità serafica di quest’ultimo, che con i suoi abbracci pare voler sinceramente redimere i detrattori. L’effetto che ne consegue non è molto distante dalla mercificazione crossmediale del gesto, poiché lo depotenzia e impoverisce, lo svuota di significato. In questi abbracci dichiarati, urlati, elargiti dalle cariche pubbliche a favore di telecamera, non c’è alcuna sospensione del tempo soggettivo; al contrario, si verifica un’accelerazione da catena di montaggio, dove l’abbraccio non può mai soffermarsi su se stesso e godere dell’umana empatia: scorre veloce al ritmo dello zapping, sottraendosi all’attenzione di un pubblico svagato che, ormai, ne è totalmente assuefatto. Questo accade perché l’insistita reiterazione mediatica del gesto ne svilisce la sostanza, ma non è tutto: come ulteriore beffa, sparisce anche il secondo elemento imprescindibile nel rituale dell’abbraccio, ovvero l’unione dei corpi in una singola entità. Come può esserci unione, se l’amplesso non è paritario? Si tratta infatti di abbracci concessi (da un’istituzione, un ente, un personaggio pubblico, in ogni caso “dall’alto”) e non scambiati, come invece dovrebbe essere. Quando viene meno il fattore egualitario, l’abbraccio diventa una formalità da archiviare il più in fretta possibile, anche un po’ goffa e imbarazzante nel suo tentativo di emulare un sentimento reale.

Se ripenso agli abbracci cui ho assistito sulla banchina del Logan International Airport, o a quelli che ho ricevuto io stesso in uno dei congedi più sofferti della mia vita recente, la differenza è palese. Il vero abbraccio non è mai programmato, e non è nemmeno dichiarato; è un’azione spontanea che risponde a un’esigenza istintiva, ed è proprio l’istinto a guidarne i movimenti, cercando un’armonia con quelli dell’altro nella danza degli addii. Quando il gesto non è deturpato da influenze esterne (come la consapevolezza della presenza di una telecamera), esso raggiunge il massimo dell’autenticità, trascendendo i suoi limiti fisici per sublimarsi nella memoria: diviene quindi un ricordo cui chiedere asilo di fronte alle asperità, testimonianza di un momento in cui ci siamo sentiti accolti, consolati, riconosciuti nella nostra interezza. Mette radici nell’esperienza concreta, determinando la costruzione dell’identità personale. È tempo che resta, contrapposto al tempo che va.

Un pizzico curcuma per combattere il raffreddore - Irma d'Aria



Come e anzi più di un morbido maglione di lana, per scaldarsi si possono sfruttare anche le proprietà di alcune spezie. E non solo perchè le si mette in tazza sotto forma di tisana bollente. Alcune erbe e spezie, infatti, hanno un vero e proprio potere riscaldante e ci aiutano persino ad ‘attrezzare’ il sistema immunitario contro i virus influenzali. Si possono assumere sotto forma di decotti e tisane, ma anche per preparare colluttori, suffumigi o un mix da mettere nella vasca da bagno. «Zenzero, cannella, curcuma ma anche chiodi di garofano e timo - spiega Fabio Firenzuoli, responsabile del centro di ricerca e innovazione in fitoterapia e medicina integrata (Cerfit) dell’azienda ospedaliero-universitaria Careggi di Firenze - contengono sostanze riscaldanti che hanno un’azione vasodilatatrice e agevolano la termogenesi, cioè la produzione e la conservazione del calore da parte del corpo». Queste spezie sono anche ricche di molecole che stimolano la produzione di catarro più fluido e che svolgono un’azione balsamica, anti-batterica o anti-infiammatoria.

Tra quelle più studiate negli ultimi anni c’è la curcuma, nota anche come lo ‘zafferano dei poveri’. Uno studio condotto dai ricercatori della Oregon State University e pubblicato sul Journal of Nutrition Biochemistry, ha dimostrato che è in grado di rafforzare il sistema immunitario proteggendo il nostro organismo dalle infezioni. Il rizoma della curcuma contiene anche sostanze con effetto anti-infiammatorio che funzionano soprattutto quando c’è una patologia cronica come, per esempio, i dolori reumatici che in questa stagione sono più frequenti a causa delle temperature rigide e dell’umidità. «La curcumina, però, ha una bassa biodisponibilità, cioè a livello epatico e intestinale viene trasformata in sostanze che hanno un’ attività biologica più blanda» avverte Valeria Severi, biologa nutrizionista e collaboratrice del Cerfit. «Perciò, per potenziarne l’assorbimento, consigliamo di assumerla insieme al pepe nero magari su pietanze di carne e pesce oppure si può aggiungere al latte, al succo di pompelmo e ananas oppure inserirla in un pasto con condimenti grassi come olio o latticini come yogurt». Tra le spezie ad effetto termico c’è lo zenzero ricco di gingerolo e altre sostanze con una forte azione anti-infiammatoria…

sabato 22 febbraio 2020

Convinti a sproposito - Annamaria Testa


Noi valutiamo le cose (la loro gravità, la loro importanza, la loro verità) in base a quello che ne sappiamo. E poi decidiamo di conseguenza.
Negli ultimi anni, per fortuna, molte persone sono diventate consapevoli di quanto siano diffuse, pervasive e pericolose le fake news. Di quanto spesso sia difficile distinguere il falso dal vero (non illudiamoci: con la diffusione dei video falsi – i deep fake – lo sarà sempre di più). E di quanto sia faticoso, ma necessario, verificare le fonti e controllare i dati. Questo aiuta a non farsi manipolare e a decidere a ragion veduta.
Ma contrastare le fake news non basta.

Rapporti non lineari
È anche indispensabile fare un esercizio di pensiero critico per quanto riguarda, per esempio, le relazioni di causa-effetto. Per dire: se, un attimo dopo che Tizio ha premuto l’interruttore del soggiorno, si accende il lampadario e contemporaneamente lui riceve una telefonata dal figlio che sta a Detroit, Tizio può ragionevolmente pensare che il suo gesto sia causa del primo effetto, e non del secondo.
Purtroppo, però, i rapporti di causa-effetto non sempre sono così trasparenti e lineari. D’altra parte la nostra mente ha la tendenza a cercare schemi e correlazioni tra i fatti. La ricerca ossessiva di schemi, al di là di ogni evidenza o ragionevolezza ha un nome, patternicity (online lo trovo tradotto con “schemicità”).
In sostanza, noi tendiamo a vedere cause anche là dove ci sono solamente casualità o coincidenze. Se, per puro caso, una seconda volta che Tizio accende la luce gli ritelefona il figlio da Detroit, Tizio potrebbe cominciare a pensare che ci sia qualche sorta di legame tra i due eventi. E potrebbe perfino, il giorno dopo, accendere nuovamente la luce perché così, vedi mai, magari il figlio gli ritelefona.
Certo, questo della telefonata è un esempio estremo. Ma sta di fatto che noi cerchiamo sempre cause per gli eventi virtuosi che vorremmo favorire e per quelli dannosi che vorremmo sfavorire. E sta di fatto che il fenomeno della ricerca spasmodica di relazioni di causa-effetto (causal illusion, o illusion of causality) dà luogo a ragionamenti di carattere superstizioso o pseudoscientifico.
In molti ambiti, da quello medico a quello economico e sociale, può portarci ad avere percezioni fallaci e quindi a prendere decisioni sbagliate. Può anche spingerci a esprimere giudizi avventati o a condividere teorie complottiste. Ad accettare e promuovere stereotipi perversi , giusto per esorcizzare gli effetti dannosi che a quello stereotipo abbiamo ingiustamente collegato.
Basti ricordare, tra i tanti, il feroce stigma di essere madri-frigorifero (nel senso di gelide e perfezioniste) che per decenni ha ingiustamente perseguitato le mamme di figli con disturbi dello spettro autistico, accusate di essere causa primaria della condizione delle loro creature.
Una volta che ci siamo convinti di qualcosa facciamo fatica a rimetterlo in discussione
Sui falsi rapporti di causa-effetto c’è un’amplissima letteratura, e qui mi limito solo a citare un fatto curioso: sembra che pensare in una lingua straniera (non importa di quale lingua si tratti) aiuti a essere più razionali e meticolosi, a stabilire in modo meno automatico rapporti di causa-effetto e a esprimere giudizi più equilibrati.
Tra i possibili motivi: riduzione dell’impatto emotivo, incremento della capacità di pensiero astratto, necessità di pensare più lentamente e quindi in modo più accurato. In ogni caso, questa potrebbe essere una buona strategia per prendere decisioni migliori. Oltre che un ottimo incentivo per studiare una lingua straniera.
Ma anche stare attenti ai falsi rapporti di causa-effetto non basta.

Distorsione percettiva
Una volta che ci siamo convinti di qualcosa, e perfino se molte evidenze ci dicono che si tratta di un convincimento discutibile o del tutto infondato, facciamo fatica a rimetterlo in discussione. Da una parte, tendiamo a cercare conferme di ciò di cui siamo convinti. Dall’altra, tendiamo a sottovalutare o a ignorare tutto ciò che contraddice la nostra convinzione.
È il bias di conferma (confirmation bias) che, per esempio, quando siamo in rete ci porta a isolarci in una echo chamber: una camera dell’eco in cui risuonano solo notizie che sono conformi alla nostre attese, opinioni che sono simili alle nostre e che noi siamo felici di condividere, commenti che risuonano con le nostre posizioni. E che proprio in quanto tali ci appaiono ragionevoli, apprezzabili, logici e perfino più simpatici.
C’è un ulteriore elemento fuorviante a cui stare attenti.
Ed è forse il più insidioso.
Noi tendiamo a sovrastimare in termini di importanza e di rilevanza i fatti e i dati a cui siamo esposti più di frequente o con maggior enfasi e intensità.
In sostanza, tendiamo a farci condizionare, nei nostri giudizi, dalle ultime notizie (sono quelle di cui abbiamo una memoria più fresca e dettagliata), o dalle notizie che vengono date con maggior rilievo, o da quelle a cui siamo esposti più spesso. Così può succedere che (ne ha parlato ampiamente il premio Nobel Daniel Kahneman) tendiamo a giudicare la probabilità di un evento in base a quanti esempi di quell’evento ci vengono in mente. È il bias della disponibilità.
Per esempio: i disastri aerei sono ampiamente ripresi e narrati dai mass media proprio perché sono molto rari e molto drammatici. Gli incidenti stradali, molto più frequenti e con meno vittime, di solito suscitano un’attenzione assai più limitata e meno prolungata nel tempo.
Il risultato è però una distorsione percettiva, che porta molte persone a essere terrorizzate dai viaggi in aereo. Eppure, il rischio di morire in un incidente aereo è enormemente inferiore a quello di morire guidando un’auto, e anche a quello di essere travolti da un’auto come pedoni.

Confrontare le opinioni
Può anche succedere che giudichiamo la gravità di una situazione in base al tono allarmato e drammatico e alla frequenza con cui i mezzi d’informazione ci parlano di quella situazione.
È esattamente quanto può avvenire con la percezione della criminalità. Come ricorda Milena Gabanelli, “nel 2017 il tema ‘criminalità’ è comparso nel 17,2 per cento dei programmi della principale tv francese, nel 26,3 per cento di quella britannica, nel 18,2 per cento di quella tedesca e nel 36,4 per cento dei cinque principali telegiornali italiani”.
Risultato: “Il 78 per cento degli intervistati in un’indagine degli stessi mesi ritiene che la criminalità in Italia sia cresciuta rispetto a cinque anni prima”.
Naturalmente non è vero, e di fatto l’Italia continua a essere uno dei paesi più sicuri dell’Unione europea.
In sintesi: va bene se stiamo attenti alle fake news. Va meglio se stiamo anche attenti al falsi rapporti causa-effetto, specie quando si tratta di dar la colpa di qualcosa a qualcuno.
Va meglio ancora se ci ricordiamo che le prime cose che ci vengono in mente perché continuano a girare sui mass media non sono necessariamente le più drammatiche o le più importanti. E va benissimo se ci manteniamo disposti a confrontare le nostre opinioni, e non pretendiamo di aver ragione a ogni costo, e contro ogni evidenza.


Tutti a casa. Janet, Mohammed e il ristorante - Mauro Armanino



Janet, liberiana di origine, aveva soggiornato a Niamey per qualche tempo prima di raggiungere l’Algeria con alcune connazionali. Erano passati almeno cinque anni dalla sua partenza per Algeri. Nel viaggio una sua amica, incinta, aveva perso il figlio nel deserto perché, per dargli un futuro, voleva nascesse in Algeria. Forse avrebbero avuto pietà d’ella e delle altre donne que l’accompagnavano fino alla capitale Algeri. Janet si era trovata un posto in un quartiere alla periferia della città. Cucinava e vendeva bevande agli altri migranti che, come lei, cercavano fortuna in Algeria. Aveva avuto lei stessa un figlio che, per evitargli problemi vista la società nella quale era ospite, aveva chiamato Mohammed, deceduto prima di raggiungere i due anni di età. In verità la malattia del bimbo era facilmente guaribile ed è stata tutta una questione di tempo. Quand Janet ha raggiunto la clinica Moustafa, che offre cure gratuite ai migranti, suo figlio era tornato in fretta nella città dei bambini che si trova adiacente ad ogni deserto che si rispetti.
Le espulsioni dei migranti, rifugiati, richiedenti asilo, mendicanti, lavoratori edili clandestini, irregolari e regolari, accomunati dalla povertà e spesso senza documenti apprezzati dalla autorità, erano iniziate ormai da anni.
Ben prima delle marcie rivoluzionarie che avrebbero occupato le prime pagine dei giornali. Centinaia di migliaia di persone hanno occupato piazze e strade della capitale e delle altre città dell’Algeria. Il longevo e malato presidente della repubblica è stato obbligato a ritirare la sua candidatura e, malgrado la contestata elezione di un nuovo militare come presidente, le marce di protesta continuano. Questo venerdi 17 gennaio si è celebrata la manifestazione settimanale numero 48. Nel frattempo l’Algeria ha stipulato accordi di espulsione e rimpatrio con alcuni paesi limitrofi, tra cui il Niger. Lo stesso governo ha confermato, nel 2018, di avere condotto l’espulsione di circa 25 mila migranti nel corso degli ultimi cinque anni. L’accusa, nel caso dei nigerini, era quella di esercitare il delitto di mendicare coi bimbi, e di prostituzione per le signore. Nel 2019 ogni mese ha registrato espulsioni di persone indesiderabili. Secondo l’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni OIM, che registra gli arrivi nel nord del Niger, circa 11 mila persone sono state espulse da gennaio a novembre. Naturalmente le autorità hanno negato ogni accusa di mancato rispetto dei diritti umani. Un rapporto circostanziato di Amnesty International smentisce questa versione. Le rivoluzioni settimanali non sembrano interessarsi dei migranti e della deportazione dei poveri.
Janet è stata arrestata in strada dalla polizia e, senza poter tornare a casa per mettere insieme i suoi averi, è stata condotta con altre persone straniere come lei, in un centro per un paio di settimane. Quando il numero di passeggeri ha raggiunto quanto le autorità avevano previsto, attraverso camion e bus i migranti dopo un lungo viaggio, sono stati abbandonati presso la frontiera del Niger, chiamato punto zero. Ci sono una ventina di kilometri da percorrere nel deserto prima di raggiungere la città di Assamaca e poi Arlit, che oltre all’uranio, possiede i campi di accoglienza dell’OIM. Janet raccontava che era difficile camminare nella sabbia, per le donne coi bambini, con la paura di cadere per strada e di perdersi nel deserto. Janet diceva di essere stata colpita alla guancia da un agente di sicurezza dell’OIM, perché accausata di non rispettare la fila per accedere al cibo quotidiano offerto ai migranti. Janet ricorda che lei e gli altri erano trattati come animali, senza nessun rispetto e senza umanità. Né l’acqua né il cibo erano sufficienti visto il numero di persone espulse dal Paese negli ultimi mesi. Janet ha 42 anni e si è fatta volontaria per tornare in Liberia, Paese che ha lasciato ormai da molti anni. Il suo compagno è ancora ad Arlit e dice che, se Dio vuole, si incontreranno. Sa che nel suo paese l’ex calciatore Geoge Weah, unico pallone d’oro africano e diventato presidente della repubblica, non riesce a raddrizzare la barca dell’economia dopo anni di guerra civile ed una corruzione endemica. Lunedì ha l’appuntamento con l’impiegato dell’OIM e spera di essere ammessa nella lista dei prossimi partenti.
Ad Algeri Janet aveva un figlio, un ristorante e vendeva bibite e lattine di birra ai migranti di tante nazionalità differenti. Dice che gli affari andavano molto bene ed era contenta del poco che aveva. Ringrazia per la vita.
Niamey, gennaio 2020

giovedì 20 febbraio 2020

I problemi dell’auto sostenibile - Francesco Gesualdi



I paesi a ricchezza avanzata sono all’affannosa ricerca di modi per mantenere il livello di consumi raggiunto e nel contempo rispettare i limiti del pianeta. Ma il compito si presenta piuttosto arduo e rischia di condurci ad una sostenibilità dell’apartehid, costruita, cioè, su disuguaglianze ancora più marcate di quelle che abbiamo conosciuto fin qui. Un mondo verde dove pochi eletti usano le poche risorse esistenti  mentre una massa di esclusi è tenuta fuori dal banchetto. Tutto il contrario del modello di ecologia integrale proposto da Papa Francesco dove sostenibilità ed equità si tengono per mano.
L’automobile descrive meglio di tutti le contraddizioni in cui ci dibattiamo. Con l’emergere dei cambiamenti climatici il nostro obiettivo è diventato la riduzione delle emissioni di anidride carbonica ed è alla tecnologia che ci siamo affidati,  con un doppio mandato.  Uno di lunga durata che metta fine alla dipendenza dal petrolio. L’altro, più immediato, che ci procuri un combustibile meno inquinante.  Entrambi presentano criticità.
Fino a qualche anno fa, la pista che inseguivamo per ottenere auto  sganciate dal petrolio era  l’idrogeno. Poi, ragioni di tipo energetico, di sicurezza e di rete distributiva hanno raffreddato le aspettative ed oggi  si insegue piuttosto l’auto elettrica. Un progetto che da un punto di vista tecnico è già realtà, ma che riapre vecchi problemi quando pretende di diventare consumo di massa. Nell’auto elettrica la funzione di serbatoio è svolta dalla batteria,  rispetto alla quale va precisato che può renderci veramente indipendenti dal petrolio solo se la corrente elettrica utilizzata per ricaricarla proviene da sole, vento e altre energie rinnovabili. Ad oggi solo il 26% dell’energia elettrica mondiale è di tipo rinnovabile. Ma questo è solo uno degli aspetti critici.
L’altro è che per produrre le batterie serve litio e cobalto, due minerali che oltre a essere fonte di preoccupazione sociale presentano problemi di quantità. Da un punto di vista sociale, il cobalto è diventato sinonimo di corruzione, evasione fiscale, lavoro minorile,  dal momento che è ottenuto per il 60% dalla Repubblica Democratica del Congo, un paese dominato da assenza di legge, mancanza di senso dello stato, violazione  dei diritti umani. Quanto al litio, il 65% dei depositi si trovano in un triangolo che si estende fra Cile, Argentina e Bolivia, una zona abitata da popolazioni che non sorridono all’idea di vedere il loro territorio trivellato di miniere. La preoccupazione principale è per l’acqua, di cui le imprese minerarie necessitano in gran  quantità in una zona in cui ce n’è poca. In Cile, nel Salar de Atacama, dove l’estrazione del litio ormai avviene da anni, la carenza di acqua si è fatta così acuta da avere messo le popolazioni in uno stato di conflitto permanente con le imprese minerarie.
Sul fronte quantitativo i geologi ci informano che il litio costituisce circa lo 0.006 % della crosta terrestre,  qualcosa di   meno  dello zinco, del rame, del tungsteno e qualcosa di più del cobalto, dello stagno, del piombo. Ma ai fini estrattivi contano i depositi ad alta concentrazione e secondo il Geological Survey degli Stati Uniti le riserve fruibili di litio non andrebbero oltre i 40 milioni di tonnellate.  Una quantità che si mostra molto limitata qualora l’industria dell’auto elettrica dovesse avere lo sviluppo che si paventa. In totale le principali case automobilistiche prevedono di produrre  20 milioni di auto elettriche all’anno a partire dal 2025, per passare a 25 milioni nel 2030 e addirittura a 60 milioni dopo il 2040.  Se consideriamo che secondo la tecnologia attuale per  ogni auto  servono dai 40 agli 80 chili di litio, si fa presto a calcolare un fabbisogno   di circa 100.000 tonnellate all’anno a partire dal 2025 che salirebbe a   300.000 tonnellate dopo il 2040.  In altre parole i depositi attualmente conosciuti potrebbero esaurirsi nel giro di pochi decenni. Analogo destino per   il cobalto che pur giocando un ruolo minore potrebbe esaurirsi in tempi altrettanto rapidi a cause delle minori riserve stimate in appena 25 milioni di tonnellate.

Ad oggi, le auto in circolazione a livello mondiale sono quasi un miliardo. Per rimpiazzarle tutte con auto elettriche servirebbe la metà delle riserve di litio oggi conosciute. E tuttavia le auto non sono gli unici strumenti a utilizzare batterie. Ad esse si aggiungono i cellulari, i tablet, i computer, gli accumulatori per pannelli solari. Il futuro, insomma, si presenta come la società della batteria e la domanda di litio e cobalto potrebbe diventare così  alta da spingere i loro prezzi a livelli proibitivi per le classi meno abbienti. Il solito vecchio meccanismo di mercato che ristabilisce l’equilibrio fra domanda e offerta a detrimento dei più poveri.
E mentre l’industria dell’automobile si sta organizzando per tagliare il cordone ombelicale dal petrolio, gli stati stanno cercando di ridurre le emissioni inquinanti spingendo l’acceleratore sulla produzione di carburanti di origine vegetale che risultano meno impattanti. Uno dei primi paesi che si è buttato in questa avventura è stato il Brasile, trasformando la canna da zucchero in bioetanolo, un alcool che può essere utilizzato tal quale in auto con motori apposti o che può essere utilizzato come additivo delle normali benzine. Il Brasile produce il 23% di tutto il bioetanolo prodotto a livello mondiale, ma è superato di gran lunga dagli Stati Uniti che ne produce il 49%.  E non utilizzando masse vegetali inadatte all’alimentazione, ma il mais di cui è primo produttore mondiale. Ben il 38% di tutto il mais prodotto negli Stati Uniti  è destinato al bioetanolo. Altrove si privilegiano il grano, l’orzo, la segale, sicché la Fao calcola che  il 14% di tutte le granaglie raccolte a livello mondiale sono bruciate nei motori. L’Unione Europea è un basso produttore di bioetanolo che comunque ottiene principalmente dalla barbietola da zucchero e in secondo ordine dal mais. Ma ha molto sviluppato la produzione di biodiesel di cui è il primo produttore mondiale con una quota del 37%.  Il biodiesel si ottiene da oli vegetali provenienti da tre semi principali: olio di palma (31%), soia (21%), colza (20%). Complessivamente il 16% di tutto l’olio vegetale prodotto a livello mondiale è destinato alla produzione di biodiesel.
Cercare ogni strada per ridurre le emissioni di anidride carbonica è sacrosanto, ma bisogna farlo evitando di creare problemi su altri fronti. Parlando di biocombustibili, tre punti interrogativi si affacciano alla mente. Il primo: quanto sia giusto e opportuno destinare cibo ai trasporti in un mondo dove il 12% della popolazione non mangia a sufficienza e in cui le bocche da sfamare sono in crescita. Il secondo: quanto sia sensato avvelenare la terra con pesticidi e fertilizzanti per ottenere più derrate agricole da destinare ai trasporti. Il terzo: quanto sia logico sottrarre terra ai boschi in un momento in cui abbiamo bisogno di più vegetazione per abbattere l’anidride carbonica. I biocarburanti rischiano di diventare diretti antagonisti delle foreste non solo perché si contrappongono alla riforestazione, ma peggio ancora perché promuovono la deforestazione. E’ noto,  ad esempio, che  la crescita esponenziale della produzione di olio di palma ottenuta negli ultimi anni si è accompagnata a una distruzione massiva di foresta non solo in Asia, ma anche in Africa e America Latina. Per cui dobbiamo chiederci se non sia arrivato il tempo di cercare di arrestare i problemi generati dai nostri eccessi,  concentrandoci non solo sulla tecnologia ma anche sugli stili di vita. Parlando di trasporti è arrivato il tempo di chiederci se non dobbiamo ridurre la nostra produzione di anidride carbonica, accettando di viaggiare meno, più lentamente e in forma più collettiva, capendo che il noi è più efficiente dell’io.

(Articolo pubblicato anche sul quotidiano l’Avvenire)