sabato 22 febbraio 2020

Convinti a sproposito - Annamaria Testa


Noi valutiamo le cose (la loro gravità, la loro importanza, la loro verità) in base a quello che ne sappiamo. E poi decidiamo di conseguenza.
Negli ultimi anni, per fortuna, molte persone sono diventate consapevoli di quanto siano diffuse, pervasive e pericolose le fake news. Di quanto spesso sia difficile distinguere il falso dal vero (non illudiamoci: con la diffusione dei video falsi – i deep fake – lo sarà sempre di più). E di quanto sia faticoso, ma necessario, verificare le fonti e controllare i dati. Questo aiuta a non farsi manipolare e a decidere a ragion veduta.
Ma contrastare le fake news non basta.

Rapporti non lineari
È anche indispensabile fare un esercizio di pensiero critico per quanto riguarda, per esempio, le relazioni di causa-effetto. Per dire: se, un attimo dopo che Tizio ha premuto l’interruttore del soggiorno, si accende il lampadario e contemporaneamente lui riceve una telefonata dal figlio che sta a Detroit, Tizio può ragionevolmente pensare che il suo gesto sia causa del primo effetto, e non del secondo.
Purtroppo, però, i rapporti di causa-effetto non sempre sono così trasparenti e lineari. D’altra parte la nostra mente ha la tendenza a cercare schemi e correlazioni tra i fatti. La ricerca ossessiva di schemi, al di là di ogni evidenza o ragionevolezza ha un nome, patternicity (online lo trovo tradotto con “schemicità”).
In sostanza, noi tendiamo a vedere cause anche là dove ci sono solamente casualità o coincidenze. Se, per puro caso, una seconda volta che Tizio accende la luce gli ritelefona il figlio da Detroit, Tizio potrebbe cominciare a pensare che ci sia qualche sorta di legame tra i due eventi. E potrebbe perfino, il giorno dopo, accendere nuovamente la luce perché così, vedi mai, magari il figlio gli ritelefona.
Certo, questo della telefonata è un esempio estremo. Ma sta di fatto che noi cerchiamo sempre cause per gli eventi virtuosi che vorremmo favorire e per quelli dannosi che vorremmo sfavorire. E sta di fatto che il fenomeno della ricerca spasmodica di relazioni di causa-effetto (causal illusion, o illusion of causality) dà luogo a ragionamenti di carattere superstizioso o pseudoscientifico.
In molti ambiti, da quello medico a quello economico e sociale, può portarci ad avere percezioni fallaci e quindi a prendere decisioni sbagliate. Può anche spingerci a esprimere giudizi avventati o a condividere teorie complottiste. Ad accettare e promuovere stereotipi perversi , giusto per esorcizzare gli effetti dannosi che a quello stereotipo abbiamo ingiustamente collegato.
Basti ricordare, tra i tanti, il feroce stigma di essere madri-frigorifero (nel senso di gelide e perfezioniste) che per decenni ha ingiustamente perseguitato le mamme di figli con disturbi dello spettro autistico, accusate di essere causa primaria della condizione delle loro creature.
Una volta che ci siamo convinti di qualcosa facciamo fatica a rimetterlo in discussione
Sui falsi rapporti di causa-effetto c’è un’amplissima letteratura, e qui mi limito solo a citare un fatto curioso: sembra che pensare in una lingua straniera (non importa di quale lingua si tratti) aiuti a essere più razionali e meticolosi, a stabilire in modo meno automatico rapporti di causa-effetto e a esprimere giudizi più equilibrati.
Tra i possibili motivi: riduzione dell’impatto emotivo, incremento della capacità di pensiero astratto, necessità di pensare più lentamente e quindi in modo più accurato. In ogni caso, questa potrebbe essere una buona strategia per prendere decisioni migliori. Oltre che un ottimo incentivo per studiare una lingua straniera.
Ma anche stare attenti ai falsi rapporti di causa-effetto non basta.

Distorsione percettiva
Una volta che ci siamo convinti di qualcosa, e perfino se molte evidenze ci dicono che si tratta di un convincimento discutibile o del tutto infondato, facciamo fatica a rimetterlo in discussione. Da una parte, tendiamo a cercare conferme di ciò di cui siamo convinti. Dall’altra, tendiamo a sottovalutare o a ignorare tutto ciò che contraddice la nostra convinzione.
È il bias di conferma (confirmation bias) che, per esempio, quando siamo in rete ci porta a isolarci in una echo chamber: una camera dell’eco in cui risuonano solo notizie che sono conformi alla nostre attese, opinioni che sono simili alle nostre e che noi siamo felici di condividere, commenti che risuonano con le nostre posizioni. E che proprio in quanto tali ci appaiono ragionevoli, apprezzabili, logici e perfino più simpatici.
C’è un ulteriore elemento fuorviante a cui stare attenti.
Ed è forse il più insidioso.
Noi tendiamo a sovrastimare in termini di importanza e di rilevanza i fatti e i dati a cui siamo esposti più di frequente o con maggior enfasi e intensità.
In sostanza, tendiamo a farci condizionare, nei nostri giudizi, dalle ultime notizie (sono quelle di cui abbiamo una memoria più fresca e dettagliata), o dalle notizie che vengono date con maggior rilievo, o da quelle a cui siamo esposti più spesso. Così può succedere che (ne ha parlato ampiamente il premio Nobel Daniel Kahneman) tendiamo a giudicare la probabilità di un evento in base a quanti esempi di quell’evento ci vengono in mente. È il bias della disponibilità.
Per esempio: i disastri aerei sono ampiamente ripresi e narrati dai mass media proprio perché sono molto rari e molto drammatici. Gli incidenti stradali, molto più frequenti e con meno vittime, di solito suscitano un’attenzione assai più limitata e meno prolungata nel tempo.
Il risultato è però una distorsione percettiva, che porta molte persone a essere terrorizzate dai viaggi in aereo. Eppure, il rischio di morire in un incidente aereo è enormemente inferiore a quello di morire guidando un’auto, e anche a quello di essere travolti da un’auto come pedoni.

Confrontare le opinioni
Può anche succedere che giudichiamo la gravità di una situazione in base al tono allarmato e drammatico e alla frequenza con cui i mezzi d’informazione ci parlano di quella situazione.
È esattamente quanto può avvenire con la percezione della criminalità. Come ricorda Milena Gabanelli, “nel 2017 il tema ‘criminalità’ è comparso nel 17,2 per cento dei programmi della principale tv francese, nel 26,3 per cento di quella britannica, nel 18,2 per cento di quella tedesca e nel 36,4 per cento dei cinque principali telegiornali italiani”.
Risultato: “Il 78 per cento degli intervistati in un’indagine degli stessi mesi ritiene che la criminalità in Italia sia cresciuta rispetto a cinque anni prima”.
Naturalmente non è vero, e di fatto l’Italia continua a essere uno dei paesi più sicuri dell’Unione europea.
In sintesi: va bene se stiamo attenti alle fake news. Va meglio se stiamo anche attenti al falsi rapporti causa-effetto, specie quando si tratta di dar la colpa di qualcosa a qualcuno.
Va meglio ancora se ci ricordiamo che le prime cose che ci vengono in mente perché continuano a girare sui mass media non sono necessariamente le più drammatiche o le più importanti. E va benissimo se ci manteniamo disposti a confrontare le nostre opinioni, e non pretendiamo di aver ragione a ogni costo, e contro ogni evidenza.


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