lunedì 31 maggio 2021

Tre mosse per avventurarci di nuovo fuori - Arthur C. Brooks

 

Molti anni fa ho conosciuto una donna che aveva vissuto quel genere di esperienza tipica di un romanzo fantastico. Da giovane aveva avuto un grave incidente d’auto, che le aveva provocato una lesione alla testa. Aveva poi trascorso un periodo di totale amnesia, seguito da mesi di convalescenza. Dopo essersi ripresa, non è stata più la stessa. I rapporti con la sua famiglia si sono indeboliti; ha tagliato i ponti con alcuni vecchi amici, facendosene di nuovi; ha viaggiato per mezzo mondo; i suoi interessi e i suoi gusti sono cambiati; è diventata più estroversa e meno timida; e ha smesso di dare troppo peso a quello che gli altri pensavano di lei.

I suoi genitori hanno sempre attribuito questi importanti cambiamenti alla sua “botta in testa”. Ma lei mi ha spiegato che no, la sua lesione non c’entrava niente. È stato semmai nel momento della convalescenza, lontana dalla solita routine, che ha messo la parola fine a una lunga fase della sua vita. Ha avuto un’opportunità unica di stabilire le sue priorità. Ha promesso di non dare niente per scontato, nella sua nuova vita. Ha fatto a pezzi le sue convinzioni e i suoi valori, e li ha ricostruiti. E facendolo, mi ha detto, si è sentita felice per la prima volta in vita sua.

Oggi molti di noi hanno la possibilità di fare qualcosa di simile. Gli Stati Uniti stanno forse entrando nella fase di declino della pandemia di covid-19, che per oltre un anno ha interrotto la routine dell’esistenza di milioni di persone. Nell’attesa, di settimane o mesi, che ritorni qualcosa di simile alla normalità, dovremmo chiederci come vogliamo che sia la “normalità”. Poi potremo prepararci a una normalità nuova e migliore di quella che avevamo dato per scontata fino a un anno fa.

Tutto allaria
Quando le persone parlano della vita prima del virus, lo fanno per lo più esprimendo nostalgia per “i bei vecchi tempi” e per ciò che gli manca. In un 
recente sondaggio gli intervistati hanno dichiarato che le cose per le quali si struggono di più sono i viaggi (24 per cento), gli incontri con i familiari (19 per cento) e quelli con gli amici (16 per cento).

Non ho trovato sondaggi relativi a cosa ci manca di meno, ma alcune ricerche ci offrono dei suggerimenti. Gli studi hanno dimostrato che diamo meno valore alla vita se trascorriamo del tempo con persone, o in attività, demoralizzanti. Passare dei brutti momenti con i capi, i clienti o i colleghi diminuisce il nostro benessere.

È possibile che prima della pandemia vi siate detti “amo il mio lavoro” e “amo la mia vita sociale”. Magari eravate sinceri, o forse no. I sociologi hanno dimostrato da tempo che tantissime persone mentono in continuazione, e ancor più spesso mentono a se stesse.

Comunque, di sicuro vi pareva opportuno dire di essere felici della vostra vita. O no? I ricercatori hanno scoperto che se le persone hanno opinioni minoritarie spesso le tengono per sé o si adeguano alla maggioranza per evitare conflitti. Probabilmente anche voi vi mentivate per quieto vivere, prima della pandemia. Ma poi il covid-19 ha mandato tutto all’aria.

Tutti noi desideriamo la fine delle sofferenze umane provocate dalla pandemia. E in molti, anzi in gran parte, non vediamo l’ora di farla finita con le limitazioni e i disagi che ha portato con sé. Ma nel profondo, ci sono probabilmente alcune cose che vi spaventano. Ciascuno di noi, a voler essere spietatamente onesti, potrebbe fare una lista di attività e relazioni sgradevoli della vita prepandemia, che abbiamo accettato mentendoci, per semplice inerzia o per la necessità di andare avanti e d’accordo con gli altri.

Se le vostre relazioni, il vostro lavoro e la vostra vita sono state sconvolte dalla pandemia, non dovreste sprecare le settimane e i mesi che vi separano dal momento in cui rientrerete pienamente nel mondo. Avete un’opportunità unica nella vita di essere totalmente sinceri con voi stessi e di ammettere che prima non era tutto perfetto. Ecco come potete fare un piano per non tornare a quella normalità.

Raccogliete i vostri dati personali
Disegnate su un pezzo di carta una griglia di quattro quadrati disposti su due colonne e su due righe: nella prima colonna scrivete cosa vi piace e nella seconda cosa non vi piace; nella prima riga indicate il periodo prepandemico, nella riga sotto il periodo della pandemia.

Molti di noi hanno cominciato a chiedersi, nel corso dell’ultimo anno, cosa ci manchi del periodo precedente e cosa odiamo di questo attuale. Ma per quanto riguarda la vostra felicità, le domande più pertinenti sono: “Cosa non mi piaceva di prima della pandemia e non mi manca?” e “Cosa mi piace dei tempi di pandemia, e mi mancherà in seguito?”.

Riflettete seriamente sui risultati che escono incrociando il cosa e il quando dei diversi quadrati, e promettete di essere completamente onesti, specialmente per quanto riguarda ciò che non vi manca del prepandemia. Indicate tutte le interazioni quotidiane malsane, le relazioni improduttive e le abitudini di vita che vi rendevano infelici. Non accontentatevi delle cose facili, come rimanere bloccato nel traffico. Andate più a fondo, come per esempio gli amici con cui andavate sempre a bere, ma che erano inesorabilmente arroganti e negativi.

Fate una lista di cose da lasciarvi alle spalle
Alcune delle cose che non vi piacevano prima della pandemia potrebbero essere immutabili, per esempio fare il pendolare. Cominciate a scrivere una lista di cose del genere, e ragionate sul vostro margine di autonomia. Magari per alcuni di voi potrebbe avere senso cominciare a cercare un nuovo lavoro dove vi piacerebbe vivere – magari trasferendovi in una città che amate – lasciando il luogo dove vivevate prima della pandemia.

Lasciarsi alle spalle le persone può essere più difficile. Ma in realtà tutti noi abbiamo relazioni che, in fondo, non sono vantaggiose per nessuno. Al lavoro e in altri contesti, ci sono persone che tirano fuori il peggio di noi, ci offendono, o ci demoralizzano. Se la pandemia è stata una pausa gradita, dovreste chiedervi se possa diventare definitiva. Questo momento è il migliore per farlo.

Fate una lista di cose da conservare
Questo esercizio non dovrebbe riguardare solo gli aspetti negativi. Ricordatevi della seconda colonna: le cose che vi piacciono della vita durante la pandemia, e che vi mancheranno quando non ci saranno più. Pensate a come potreste integrarle nella vostra vita in futuro. Forse avete smesso di viaggiare per lavoro e vi è piaciuto passare il vostro tempo a casa. Se è così, cominciate a pensare ora a come riorganizzarvi per diminuire gli spostamenti, prevedendo in futuro di coniugare incontri di persona e virtuali. Forse avete sviluppato la vostra dimensione spirituale, state leggendo molto, o avete cominciato a cucinare, e vorreste continuare a farlo. È possibile, ma tocca a voi impegnarvi perché ciò accada. Frequentate regolarmente un luogo di culto; organizzate un gruppo di lettura; fissate in agenda delle serate in cui invitare delle persone a cena.

Nella sua Poesia delle partenze (Poetry of departures), il poeta britannico Philip Larkin parla di un uomo che ha lasciato una vita che non gli piaceva.

Qualche volta senti dire, di quinta mano, / Come un epitaffio: / Ha piantato tutto quanto /E se l’è squagliata, / E sempre la voce suona / Certa che tu approvi / Quella mossa ardimentosa, / Purificatrice, primordiale.

Questo avventuriero senza paura non deve essere una persona di cui sentite parlare di quinta mano. E neppure di seconda mano, come nel caso della mia amica. Potete scegliere: essere il soggetto di questa poesia, che compie una “mossa ardimentosa, purificatrice, primordiale”, oppure il narratore, ammirato ma per niente convinto di voler cambiare le cose. Se mai avete desiderato piantare tutto e squagliarvela, oggi è il vostro momento. Approfittatene.

 

(Traduzione di Federico Ferrone)

La traduzione della poesia di Philip Larkin è di Vanna Gentili, tratta da Poesia moderna e contemporanea (Le Pagine 2002)

 

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domenica 30 maggio 2021

Solo il 3% della Terra è rimasto intatto - Enrico Franceschini

 

Viviamo nell’Antropocene, l'epoca geologica attuale, in cui l’ambiente terrestre, nell'insieme delle sue caratteristiche fisiche, chimiche e biologiche, viene fortemente condizionato su scala sia locale sia globale dagli effetti dell’azione umana: questo è ormai noto. Ma un nuovo studio rivela quanto sia stato devastante tale effetto: solo il 3% delle terre del globo rimane ecologicamente intatto, con una popolazione sana di tutti i suoi animali originali e un habitat non violato.

Questa minuscola porzione di natura incontaminata dall’invasione dell’uomo si trova principalmente nelle foreste tropicali dell’Amazzonia e del Congo, nella Siberia orientale russa, nella tundra canadese e nel deserto del Sahara, vale a dire nelle zone più inaccessibili della terra.

 

Ricerche precedenti, effettuate in larga parte attraverso immagini prese via satellite, calcolavano che tra il 20% e il 40% della superficie del nostro Pianeta fosse ancora incontaminato dall’intervento umano. L'indagine, pubblicata sulla rivista Frontiers in Forests and Global Change è andata più in profondità, confrontando mappe dei danni all’habitat naturale con quelle sulla scomparsa o forte diminuzione di specie animali necessarie a mantenere un equilibrio dell’ecosistema.

Gli scienziati autori dello studio affermano che foreste, savana e tundra possono apparire intatte dall’alto, ma sul terreno possono non esserci più animali di importanza vitale, come per esempio gli elefanti, che spargono semi e creano varchi nelle foreste, o i lupi, che tengono sotto controllo la popolazione di cervi e alci.

 

Vari studiosi ammoniscono che siamo all’inizio di una sesta estinzione di massa della vita sulla Terra, con gravi conseguenze per il cibo, l’acqua e l’aria da cui dipende l’umanità, e lo studio pubblicato ora sembra confermare tale allarme. "E’ un quadro spaventoso" afferma il professor Andrew Plumptre, del Key Biodiversity Area Secretariat dell’univesità di Cambridge, co-autore del rapporto. “Molte delle aree considerate intatte sono in realtà già stata deprivate di specie fondamentali, vittime della caccia o di invasione di altre specie”.

Non tutti concordano: "Questo studio minimizza gli sforzi già fatti per salvare luoghi ecologicamente sani in tutto il mondo", obietta il professor James Watson dell’University of Queensland in Australia. Pur riconoscendo che la stima del 3% di aree intatte è una "cifra approssimata", il professor Plumptre è convinto che la minaccia sia più grave di quanto si credeva. Ma pensa che ci sia ancora tempo di recuperare altri paradisi terrestri, reintroducendo anche soltanto piccoli numeri di animali a rischio di estinzione, come appunto elefanti e lupi, una iniziativa che, secondo l’indagine, potrebbe fare risalire al 20% la quota di ecosistema protetto.

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sabato 29 maggio 2021

Se anche l’acqua diventa un affare e scatena i “cacciatori di iceberg” – Ugo Leone

Leggo: “l’acqua, elemento fondamentale per il pianeta” e mi si accende l’interesse. Poi continuo: “…caratterizza la collezione Coincasa attraverso pesci, crostacei, alghe, coralli e leggiadre meduse, con onde e trasparenze che portano in casa la freschezza del mare e dei suoi colori”. E capisco che non si tratta del mare, ma di piatti di varie dimensioni, disegni e colori che hanno anche per oggetto cose marine, ma che dell’acqua non hanno particolare interesse. Certamente non di quell’acqua “dolce” che è una minima percentuale dell’immensa quantità di questa risorsa che copre i tre quarti della Terra.

La “minima percentuale” per l’umanità

Minima percentuale? Eh sì, perché quell’H2O che ci serve per i nostri quotidiani bisogni casalinghi, industriali, agricoli, zootecnici è appena il 3% di tutta quella che esiste sul pianeta. Il resto sono mari e oceani, cioè quell’acqua nella quale all’H2O la natura ha aggiunto un 35 per mille di NaCl, cioè cloruro di sodio, cioè sale per cui, appunto, quelle acque sono salate e non ci servono per soddisfare alcuno dei nostri quotidiani bisogni.

Ma, dicevo, è una minima percentuale. Fortunatamente i conti non si fanno con le percentuali, ma in termini assoluti e così possiamo dire che l’acqua che serve per i nostri usi è la bellezza di 4,5 milioni di miliardi di metri cubi. Se ci incuriosisce sapere di quanti litri si tratta moltiplichiamo questo numero per mille e lo sappiamo. Se poi vogliamo sapere quanti litri ce ne toccano a testa dividiamo quel risultato per otto miliardi, quanti ci accingiamo a diventare sulla Terra, e abbiamo il risultato che più di ogni altro ci interessa. Soprattutto se questo risultato lo dividiamo ancora per 365 potremo sapere di quanta acqua al giorno possiamo disporre. Quanta? Tanta è la risposta più corretta.

E rimane pressoché inalterata anno dopo anno (e da una decina di migliaia di anni) grazie a quel fenomeno che si chiama ciclo dell’acqua che comincia dall’evaporazione dell’acqua di mari ed oceani e ricade al suolo con le precipitazioni atmosferiche rimpinguando fiumi, laghi, sorgenti, acque sotterranee e in tal modo ricostituendo più o meno il patrimonio consumato nel corso di un anno.

Allora l’acqua c’è? Sì e ce n’è pure dovunque anche se non tutti se ne possono approvvigionare allo stesso modo nelle case tramite le reti acquedottistiche. Reti che mancano dove la popolazione non se ne può permettere il costo generalmente stabilito dalle multinazionali dell’alimentazione che da tempo hanno messo le mani nell’acqua e ne controllano la distribuzione a chi se la può pagare.

Tuttavia, cinicamente, numeri alla mano c’è e ce n’è abbastanza per tutti e anche più di quanti siamo. Specialmente se si considera che il fabbisogno quotidiano viene stimato intorno ai 400 litri a testa.
Allora qual è il problema? Il problema è il solito: il 
mutamento climatico che può drasticamente interferire nel ciclo che annualmente ci restituisce l’acqua che abbiamo consumato.

C’è chi compromette il ciclo naturale

Quindi l’umanità – la parte più ricca – non solo spreca e inquina l’acqua di cui dispone, ma ne compromette anche il ciclo. Lo sappiamo da almeno quindici anni con il rapporto delle Nazioni Unite del 22 marzo 2006 (giornata dell’acqua) sul progressivo assottigliamento della portata dei maggiori fiumi della Terra. In esso, tra l’altro si diceva che “le carte degli atlanti non corrispondono più alla realtà. Le vecchie lezioni di geografia, secondo cui i fiumi sgorgavano dalle montagne, ricevevano acqua dagli affluenti e finalmente sfociavano gonfi negli oceani sono ora una finzione”.

Di conseguenza anche se di acqua ce n’è dovunque, dovunque ce n’è sempre meno perché su tutta la Terra è stato enormemente modificato “l’ordine naturale dei fiumi” dal momento che l’umanità, – si legge ancora nel rapporto dell’Onu – “ha intrapreso un immenso progetto di ingegneria ecologica senza pensare alle conseguenze e al momento senza conoscerle”. Evidentemente anche il ciclo dell’acqua ne risente perché meno acqua evapora, meno ne ricade sulla Terra e aumenta la desertificazione.

Dunque ce ne sarà di meno e per una popolazione che, per quanto in crescita rallentata, aumenterà ancora di numero e ne domanderà sempre di più. Di conseguenza, come sempre avviene per i beni di prima necessità ancorché bene comune come l’acqua, ne aumenterà il prezzo e se ne potranno dotare a sufficienza solo i Paesi ricchi. E se ne potranno avvantaggiare le multinazionali; anche le “sette sorelle” che non potendo più vendere petrolio venderanno acqua. Non solo l’acqua dei rubinetti ma perfino quella dei ghiacciai opportunamente imbottigliata. Già. Perché uno degli effetti dell’aumento delle temperature è lo scioglimento dei ghiacciai polari dai quali si staccano gli iceberg.

Queste enormi montagne di ghiaccio sono immensi “giacimenti” di acqua in forma solida che non può andare perduta. Nasce così il nuovo mestiere dei cacciatori di iceberg che, una volta ridotti in blocchi, sono in grado di offrire centinaia di migliaia di litri di acqua da imbottigliare al prezzo di dieci dollari a bottiglia o 99,50 euro per un cartone di sei lussuose bottiglie da 750cc. Ed è così che la purissima acqua degli iceberg è diventata un grosso affare. Perché purissima? Perché è stata “naturalmente” congelata centinaia e migliaia di anni prima della rivoluzione industriale e dell’inquinamento atmosferico.

Ormai è sempre più evidente che possedere e gestire l’acqua è un grosso affare: economico, sociale e politico. Possesso e gestione sono azioni in netto contrasto con la definizione di acqua come bene comune. Invece la costruzione di dighe con lo sbarramento dei fiumi a vantaggio di chi ne governa la parte superiore del corso; la costruzione e gestione degli impianti di raccolta e distribuzione delle acque a chi ne può pagare il consumo; la possibilità di dissalare l’acqua dei mari; la produzione e gestione della vendita delle acque minerali, sono ulteriori motivi di discriminazione tra chi può accedere a questa vitale risorsa e chi non ne ha le possibilità economiche.

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venerdì 28 maggio 2021

L’umanità è condannata a un aumento del livello dei mari di almeno 6 metri. E' ancora possibile porvi rimedio? - Harold R. Wanless

  

L’emergenza climatica è molto più grave di quanto si rendano conto molti esperti, autorità elette e attivisti. Le emissioni di gas serra dovute alle attività umane hanno surriscaldato l’atmosfera terrestre, provocando oppressive ondate di calore, uragani e altri fenomeni metereologici estremi. E, fin qui, la situazione perlopiù è evidente. Il problema più grave è che l’atmosfera surriscaldata a sua volta ha riscaldato gli oceani, garantendo in futuro un innalzamento catastrofico del livello dei mari.
 

Quando gli oceani si riscaldano, il loro livello sale in parte perché l’acqua più tiepida si espande, ma in parte anche perché essa provoca lo scioglimento di ampie porzioni delle calotte polari. Di conseguenza, è ormai pressoché sicuro che i livelli dei mari saliranno in media di almeno 6-9 metri. Si tratta di un livello tale da mettere in serio pericolo molte città costiere, abitate da centinaia di milioni di persone, che saranno sommerse dalle acque. 
 

Il problema principale adesso è capire tra quanto si verificherà questo innalzamento del livello dei mari e se gli esseri umani riusciranno a raffreddare l’atmosfera e gli oceani abbastanza rapidamente da scongiurare questo cataclisma almeno in parte. 

 

Se nei prossimi duemila anni i mari si dovessero alzare di 6 metri, i nostri figli e i loro discendenti potrebbero trovare vari modi per adattarsi. Se invece l’innalzamento di 6 metri o più dovesse verificarsi nei prossimi cento-duecento anni – come sembra probabile, in base alle tendenze odierne – le prospettive sono assai cupe. In quest’ultimo scenario, infatti, entro il 2040 potrebbe verificarsi un aumento medio del livello dei mari di 60 centimetri, di 91 entro il 2050 e di molti di più negli anni a venire. 
 

Sessanta o novanta centimetri in più possono non sembrare tanti, ma trasformeranno le società umane di tutto il mondo. In Florida del sud, dove vivo, i residenti perderanno ogni accesso all’acqua dolce. Gli impianti di trattamento delle acque nere soccomberanno. Vaste regioni saranno alluvionate in permanenza e Miami Beach e altre isole della barriera verranno abbandonate. In Cina, India, Egitto e altri Paesi caratterizzate da grandi delta di fiumi, un aumento di 60-90 centimetri del livello dei mari costringerà a evacuare dalle coste milioni di persone e comporterà la perdita di immensi terreni destinati oggi a uso agricolo. 

 

Contenere l’aumento del livello dei mari, pertanto, deve diventare una priorità assoluta urgente, un obbligo per ognuno dei leader mondiali che il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha invitato al vertice sul clima del 22 aprile, il Giorno della Terra. È indispensabile ricontestualizzare una volta per tutte in che modo è percepita l’emergenza climatica e definire che cosa voglia dire contrastarla. Di certo, è fondamentale rispettare l’obiettivo degli Accordi di Parigi e limitare l’aumento della temperatura a 1,5-2 gradi Celsius. Tuttavia, potrebbe non essere sufficiente. 


La soluzione al rapido innalzamento del livello dei mari è duplice: gli uomini devono smetterla di rilasciare nell’atmosfera sempre più gas serra e anche riuscire a smaltire buona parte di quanti ve ne sono già. Dalla Rivoluzione Industriale di 250 anni fa, la quantità di CO2 nell’atmosfera è aumentata a dismisura in conseguenza delle attività umane, perlopiù per l’uso di combustibili fossili a base di carbonio. Per ridurre drasticamente l’aumento in futuro del livello dei mari, dovremo fare in modo da abbassare quella quantità dalle odierne 417 parti per milione a 280, come prima dell’industrializzazione. 

 


Per porre fine alle emissioni di gas serra che intrappolano il calore, è indispensabile che l’economia prenda le distanze dai combustibili fossili e si orienti verso le energie rinnovabili, fermando la deforestazione, passando a tecniche agricole più rispettose del clima, piantando foreste che trattengano il terreno, e altro ancora. Nel caso in cui riuscissimo in tutto questo – finora, tuttavia, ne siamo ancora molto lontani – soltanto l’atmosfera smetterebbe di surriscaldarsi. 

Raffreddare gli oceani sarà molto più complicato: ci si potrà riuscire soltanto eliminando quantità ingenti di CO2 sia dall’atmosfera sia agli oceani ed immagazzinandola dove non potrà più fuoriuscire.  Esistono prototipi di queste tecnologie a “impronta di carbonio negativa”. Alcuni metodi, come incorporare lava basaltica polverizzata nei fertilizzanti, possono portare alla rimozione di CO2; è indispensabile però mettere a punto altri metodi più incisivi ancora. È indispensabile, infatti, perseguire entrambe queste strategie: porre fine alle emissioni di CO2e rimuoverla dove è già stata emessa. Fare una cosa e non l’altra non può più essere una scusa. In caso contrario, falliremo. 

Mose, così entra in azione il gigante d'acciaio che frena l'alta marea


Il dilemma che dobbiamo risolvere è radicato nella fisica di base. Una volta emessa, la CO2 resta nell’atmosfera per millenni, intrappolando il calore e riscaldando la Terra come una coperta fa con il corpo umano. Quello che è difficile comprendere è che la maggior parte di questo calore – in quantità superiori al 93 per cento – è trasferito agli oceani e ne riscalda in maniera significativa i seicento metri più in superficie. Questo fenomeno sta accelerando lo scioglimento delle calotte polari e l’innalzamento globale del livello dei mari e continuerà a farlo per i secoli a venire. 

L’innalzamento del livello del mare sta accelerando a ritmi pericolosi. Nel 1900, i livelli globali dei mari si alzavano di circa 0,6 millimetri l’anno. Dopo il 1930, quando il riscaldamento degli oceani e l’espansione dell’acqua sono aumentati, il ritmo di innalzamento del livello del mare è raddoppiato due volte, raggiungendo nel 1990 i 3,1 millimetri l’anno. Da allora, da quando oceani sempre più caldi hanno iniziato a provocare lo scioglimento dei ghiacci polari, il ritmo si è accelerato ancor più. Oggi gli oceani si innalzano di 6 millimetri l’anno (pari a circa 5 centimetri ogni dieci anni), ma il ritmo continua ad accelerare in modo drammatico. 


Cinque centimetri ogni dieci anni può sembrare un’inezia, ma ricordate: questo è appena l’inizio dell’accelerazione. Nel 2017 l’US National Oceanic and Atmospheric Administration ha calcolato che entro il 2100 l’innalzamento del livello dei mari potrebbe arrivare a ben due metri e mezzo. A quattro anni di distanza, è lecito immaginare che due metri e mezzo fosse una previsione prudenziale. Oltre a ciò, le influenze regionali – come la subsidenza delle coste, il cambiamento delle correnti oceaniche e la ridistribuzione della massa terrestre mentre i ghiacciai si sciolgono – provocherà alcuni innalzamenti locali dei livelli dei mari superiori del 20-70 per cento alle medie globali. 

Un innalzamento di due metri e mezzo del livello dei mari sarebbe catastrofico. In mancanza di interventi e provvedimenti su vasta scala e molto costosi, questo fenomeno provocherebbe l’affondamento per New York e Washington, Shanghai e Bangkok, Lagos e Alessandria d’Egitto e innumerevoli altre città costiere. La Florida del Sud sarebbe sommersa e costruirvi paratie oceaniche non servirebbe a nulla: la terra, infatti, poggia su uno strato di pietra calcarea porosa, e quindi l’acqua del mare penetrerebbe da sotto. Perfino i Paesi Bassi e New Orleans, protette al momento da dighe e alti argini, sarebbero in una situazione molto grave. 

Ma c’è di peggio. Qualora i trend attuali proseguissero, saremmo fortunati se i livelli del mare salissero “soltanto” di due metri e mezzo da qui al 2100. Ciò è dovuto al fatto che i modelli matematici usati dal NOAA e altri non riflettono quello che sappiamo su come i mari si sono sollevati in passato. Questi modelli presumono che l’innalzamento del livello del mare si verifichi poco alla volta, mentre i registri geologici documentano che in verità possono accadere a scatti. Le temperature più miti subentrate alle precedenti ere glaciali provocarono la disintegrazione di un’area polare dopo l’altra, che determinò un innalzamento brusco del livello delle acque compreso tra un metro e nove metri per secolo. Oggi quasi certamente l’accelerazione dello scioglimento dei ghiacci in Groenlandia e in Antartide segnala l’inizio di un nuovo brusco innalzamento rapido del livello delle acque. 


È improrogabile che il genere umano passi alle energie rinnovabili, smetta di bruciare combustibili fossili e metta a punto e in uso tecnologie atte a estrarre la CO2 dall’aria e dal mare. Dobbiamo anche essere più realistici in tema di adattamento all’innalzamento del livello dei mari, che non può più essere evitato. Invece di continuare a edificare in regioni e terreni situati in basso e a spendere soldi pubblici per la difesa delle are costiere destinate in ogni caso a essere sommerse, dovremmo prepararci a coadiuvare l’eventuale ricollocazione dei popoli e delle infrastrutture dalle aree maggiormente a rischio (e a ripulire i terreni prima che questi siano sommersi dalle acque). 
 

Senza questi provvedimenti, arriverà un momento – molto prima rispetto a quanto molti ipotizzano – in cui la civiltà come la conosciamo sarà gravemente indebolita o andrà del tutto in rovina. Potremo scongiurare questo scenario soltanto iniziando a pianificare, finanziare e agire seriamente. I nostri figli, e i loro figli, meritano molto più di quello che stiamo facendo al momento.
 

Adapted from an article for the Florida Climate Reporting Network’s project “The Invading Sea,” story is part of Covering Climate Now from the Florida Climate Reporting Network’s project, a global journalism collaboration strengthening coverage of the climate story.
 

Traduzione di Anna Bissanti  
© 2021, THE NATION

 

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giovedì 27 maggio 2021

scrive Mauro Armanino, il nostro (di tutti) informatore/inviato dal Sahel

 Una vita scappando. I fuggitivi del Sahel e noi

Un gruppo di cristiani, scappando dal villaggio di Dolbel, sono arrivati ieri a Niamey. Il motivo della fuga è da trovarsi nel massacro di sei persone, di mattina presto, perpetrato nel villaggio di Fangio, non lontano dal loro. Come in altri villaggi della zona e altrove, il messaggio dei Gruppi Armati Terroristi è lo stesso: scappare per salvare se stessi e la la propria famiglia. Si uniscono alle altre migliaia di persone che, per vivere e sperare, devono fuggire dalla loro terre e lasciare la casa e i beni che costituiscono la loro povera ricchezza. Una vita scappando, appare come una delle metafore del nostro e di altri tempi storici. Una drammatica parabola della nostra condizione umana. Ancora prima di far scappare gli altri c’è la fuga da se stessi e da ciò che costituisce la propria umana identità. Chi fugge da sé prima o poi farà fuggire gli altri dalla propria terra.

La prima volta di questa fuga mi vide testimone a Monrovia, in Liberia. Fu la conclusione della guerra civile durata una quindicina d’anni. La gente, per migliaia, si ammassava sulle strade della capitale terrorizzata per l’annunciato arrivo dei ribelli del LURD (Liberiani Uniti per la Riconciliazione e la Democrazia). Sotto la pioggia battente di stagione scappava, portando sul capo o su mezzi di fortuna, il salvabile in quella circostanza. Un materasso, qualche coperta, il necessario per cucinare, le zanzariere e gli immancabili bambini appesi alle spalle dei genitori. Una scena da apocalisse e dunque da rivelazione unica e decisiva del vero volto della guerra, di ogni guerra. Le guerre sono i morti, i feriti, gli abbandonati e soprattutto loro, quelli che fuggono per salvarsi e sperare un’altra parte. Dove andate, si chiedeva loro : non sappiamo, dicevano, lontano.

Il vicino Burkina Faso, patria di Thomas Sankara e del giornalista bruciato dai sicari del potere Norbert Zongo, è vittima di attacchi terroristi da cinque anni. Ciò sta causando, oltre le numerose vittime, migliaia di sfollati e dunque una crisi umanitaria senza proporzioni nella storia recente del Paese. Il loro numero è passato da 560 mila del dicembre 2019 a oltre un milione nel dicembre dell’anno scorso. Sui 300 comuni che conta il Paese almeno 266 accolgono una parte degli sfollati. Il 54 per cento di questi ha meno di 15 anni. La scelta principale è stata finora la fuga dal loro luogo di nascita. Dopo aver vissuto il trauma della marcia forzata, della paura di attacchi, rappresaglie, regolamenti di conti e conflitti etnici ereditati o provocati, sarà difficile vivere una vita ‘normale’. D’altra parte la così chiamata ‘normalità’ è ciò dal quale sono scaturiti i drammi di cui si parla.

La povertà endemica, il cambiamento climatico, la violenza armata, l’insicurezza alimentare e la malnutrizione continuano a mantenere il Sahel in una estrema fragilità. Nelle regioni toccate dai conflitti armati i civili sono confrontati a una crisi di protezione e hanno dovuto fuggire altrove. I servizi di base, la salute e l’educazione, sono seriamente bloccati. Circa 5 mila scuole sono chiuse e così pure oltre 130 dispensari con disagi evidenti per le donne in stato di gravidanza . Quest’anno circa 29 milioni di Saheliani avranno bisogno di assistenza e di protezione, cinque in più dell’anno scorso. Nel Niger, infine, nell’ultimo rapporto dell’ Alto Commissariato per i Rifugiati, vengono rilevati oltre 234 mila rifugiati, circa 300 mila sfollati interni e più di 3 mila richiedenti asilo. Ciò senza contare le migliaia di migranti di passaggio e gli ospiti delle case dell’OIM.

I fuggitivi del Sahel non sono numeri o accidenti di percorso ma uno dei volti e simboli del nostro tempo che scappa da sé senza sapere dove andare. Prima di trovarsi, forse, c’è da andare lontano.

                                                                     Mauro Armanino, Niamey, 16 maggio 2021

 

 Schiavi, servi e liberi. Appunti dal Sahel

C’è stata la tratta atlantica ma prima ancora quella araba verso il Nord Africa e la costa orientale. Gli schiavi sono coloro che, spossessati della loro dignità umana, sono ridotti a cose o strumenti senza volontà propria. Le guerre, le razzie, le violenze generazionali hanno reso la schiavitù parte della configurazione delle società. Ad ogni epoca i propri schiavi. La nostra non è da meno di quelle che ci hanno preceduto e di cui abbiamo raccolto e sovente perfezionato l’eredità. La schiavitù dei corpi è particolarmente violenta perché si iscrive nelle fibre che ci costituiscono e si diffonde allo spirito, alle relazioni e a tutto ciò che costituisce la complessità della vita. Schiavi nelle menti e nelle parole che della schiavitù diventano espressione grammaticale. Schiavi della violenza armata che traduce la violenza ideologica, la peggiore delle violenze, perché generatrice del più grande tradimento, quello della realtà. La perversione della realtà e dei volti umani che la costituiscono genera la riduzione dell’altro a oggetto, simbolo o rappresentazione del nemico da abbattere o eliminare. Schiavi della paura di pensare, parlare, scegliere, manifestare o semplicemente vivere da umani. Schiavi del potere, del successo, della Grande Divisione tra l’apparire e l’essere, tra la menzogna e la verità, tra il pensiero e la parola. Schiavi bambini nelle miniere che permettono all’economia del numerico di funzionare e all’energia ‘verde’ di prosperare. Schiave sessuali sulle strade delle città europee che arrivano dal continente africano e da altre parti del mondo. Promesse, illusioni, pressioni famigliari, competizioni economiche, ignoranza, sete di guadagno facile, reti criminali e complicità politiche. Questo e altro riproducono le moderne schiavitù che attualizzano quelle antiche. Le schiavitù sul lavoro, vero e proprio terreno di sfruttamento che evidenzia la sudditanza di classe. Le schiavitù etniche, culturali, famigliari e identitarie che sono funzionali al mantenimento delle relazioni di potere.

Le servitù, invece, hanno qualcosa di particolare. Ad appena sedici anni Etienne de la Boetie, scrive uno dei testi più radicali sui meccanismi della dominazione politica. Secondo lui, se il popolo è oppresso, la colpa non è dei tiranni ma del popolo stesso. Questo meccanismo porta un nome: la servitù volontaria. Si abdica alla propria e innata sovranità per paura, convenienza, interesse o forse perché, nella propria vita, non si è conosciuto altro che la servitù, trasformatasi poi in ‘abitudine’ (habitus). Si vive da servi, si pensa da servi, si agisce da servi, si sogna da servi e ci si accontenta di quanto la servitù possa offrire di meglio. Il pensiero addomesticato, il politicamente corretto, la strategia della bandiera che cambia direzione col vento, nascono da un pensiero e una vita gregaria. Servi del sistema, del potere, della moda di contraffare la storia quotidiana, l’attitudine a ‘strisciare’ per evitare di prendere posizione, la codardia di mettersi dal lato dei vincitori, l’adesione a precetti religiosi per addomesticare l’insurrezione disarmata. Questo e altro addestrano il soggetto alla servitù volontaria. L’obbedienza cieca al capo ne diviene il segno rivelatore.

La libertà comincia con un no. Il rifiuto ha sempre costituito un gesto essenziale. I santi, gli eremiti ma anche gli intellettuali, il piccolo numero di persone che hanno fatto la Storia, sono coloro che hanno detto no, mai i cortigiani o i valletti dei cardinali. Per essere efficace, il rifiuto dev’essere grande e non piccolo, totale e non su questo o un altro punto. Questo scriveva Pier paolo Pasolini sulla ‘Stampa’ nel 1975, un millennio differente dal quello nel quale ci troviamo oggi. Appena dopo il rifiuto arriva però il sì nuziale alla vita intesa come straordinaria avventura dell’impossibile. Il sì alle scelte di parte degli oppressi e al camminare accanto e dentro ai poveri, per fare strada assieme. Il si all’eresia che solo dalla debolezza e dalle periferie scaturirà l’unica speranza possibile per l’umano. Un sì migrante che attraversa frontiere e crea inediti percorsi di umana convivialità. Un sì alla mani nude, ai volti scoperti, alla parole vere che spuntano come fiori nel mare, alla follia delle sconfitte che trasformano il pianto in risurrezione, al silenzio che accarezza il vento, amaro, della libertà.

 

Mauro Armanino, Niamey, 9 maggio 2021

 

 

Mercenari, mercanti e militanti nel Sahel - Mauro Armanino

Niamey, 25 aprile, la liberazione. Si trovano dappertutto e forse sono la maggioranza. I mercenari compongono e infiltrano praticamente tutti gli ambiti della società. Sono coloro che lavorano, agiscono e combattono solo in cambio di una remunerazione. Li troviamo nelle piccole, medie o grandi agenzie umanitarie e, visto come vanno le cose nel Sahel e dintorni, hanno davanti a loro un un futuro assicurato. Li scopriamo nel mondo della politica intesa come interessata amministrazione dell’esistente. Si rivelano in modo comico e indecente nelle periodiche e nevralgiche competizioni elettorali. Si scambiano gli schieramenti e le ‘maglie’ esattamente come in ambito sportivo odierno. Persino nello sport, che di una società è uno degli specchi fedeli, il mercenariato è non solo accettato ma anche imposto per contratto bilaterale. In ambito educativo i mercenari costituiscono l’assoluta garanzia di continuità di un sistema che alla fine non cerca altro che di riprodurre se stesso. Nell’orbita religiosa, considerata come una delle espressioni dell’assoluto divino, questa categoria di persone trova il proprio spazio di manovra e di rilevanza.

Sfruttando l’umana fragilità, lo sradicamento sociale, la perdita di riferimenti etici e la globalizzazione della miseria, crescono i mercenari di consolazione, successo, prestigio e progresso sociale. Si fanno un nome, una carriera e un futuro. Colmano con promesse di felicità futura e di guarigioni immediate, il vuoto creato dalla inutile corsa all’accumulazione di denaro che, non da oggi, si rivela come l’unico dio a cui sacrificare la vita. I mercenari si trovano anche nelle relazioni umane, spesso rivestite di un’aura di quasi sacralità, come la la famiglia, le amicizie e le relazioni intime di cui la prostituzione assume un ruolo emblematico. Non parliamo, infine, dello spazio militare che, ormai da tempo e per scelta, ha promosso i mercenari al ruolo riconosciuto di ‘Contractors’, i quali, senza leggi o limiti legati alla deontologia del mestiere, hanno le strade aperte ad ogni tipo di abuso.

A loro assomigliano i mercanti che, in certo modo, ne assicurano la perpetuità. Comprano, acquistano e soprattutto SI vendono. Gli acquirenti non mancano. Le banche, i partiti, i sindacati, le organizzazioni non governative, i religiosi in cerca di clienti, le multinazionali che vanno dove si paga meno la mano d’opera o le leggi sono favorevoli agli investimenti. Oggigiorno nulla si crea e nulla si distrugge ma tutto si vende a partire dai corpi umani e dal tempo, mercanzia rara come la salute. Si vendono assieme alle paure, i vaccini, i test dell’indotta pandemia dei nostri tempi, il passaporto sanitario, le parole, le verità e i brandelli di futuro appesi ad un filo come panni stesi ad asciugare. Tutto si mercanteggia a partire dalla giustizia che si modella a seconda di chi è indagato e dovrebbe rendere conto dei suoi atti. Quando il mondo si trasforma in un solo e grande mercato non rimane altro che sperare che arrivino loro, i militanti.

Fortuna esistono anche e soprattutto qui. I militanti che, fedeli alla definizione che li rende così preziosi, lavorano attivamente alla difesa o alla propazione di un’idea, di una dottrina, di una convinzione che li supera e per la quale sono disposti a dare la vita. Per i diritti umani, per la dignità della donna, contro ogni tentativo di asservimento o schiavitù delle creature più fragili, per un’ecologia integrale, perche giustizia sia fatta, contro la dimenticanza o lo stravolgimento della storia, per la libertà di espressione, per il rispetto delle parole, per la decenza del lavoro e per una pace disarmata. Nel Sahel, come altrove in Africa, sono da contare a centinaia i militanti che fanno esperienza della repressione e della persecuzione. Sono uccisi, rapiti, presi come ostaggi, censurati e soprattutto si trovano ospiti nelle diverse prigioni di stato che si contraddistinguono per crudele inadempienza del proprio ruolo a servizio della giustizia. Si trovano uomini, donne, giovani e adulti che stanno pagando di persona la convinzione che le ragioni per cui si vive sono più importanti e decisive della vita stessa. A loro non basta la ‘nuda vita’ per sentirsi pienamente umani. Ci sono tra loro i santi, i profeti, i poeti, i partigiani, gli innamorati, i migranti in cerca di utopie che malgrado tutto esistono ancora. Ed è grazie a loro che la storia avanza con un senso e una direzione. Sono semplicemente imprescindibili.

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Confinamenti, sconfinamenti e tre giocattoli nel Sahel

Li ha posti con un gesto naturale sulla tomba di terra di Aliya morta a due mesi. Un pesciolino, una trombetta e un uccellino. Questi i giochi da bambini che Johnson, lui stesso malato, ha deposto sulla terra ancora fresca di sepoltura. Un gesto di sconfinata tenerezza perché Aliya, ovunque essa si trovi in questo momento, possa imparare a giocare ciò che, nella sua troppo breve esistenza, non ha potuto fare prima. Accanto ai giochetti colorati di plastica, una croce di ferro piantata nella terra, sconfinata come tutte le croci dei cimiteri e della storia umana. Saranno per sempre assieme, i giochetti e la croce, nel leggero strato di cemento buttato sulla terra come un secondo grembo in attesa di germoglio. I fiori e i rami piantati accanto al momento della sepoltura già erano secchi di vento che soffia in questi giorni su Niamey, la capitale. Altrettanto sconfinata appare l’avventura di Patrick originario dalla Repubblica Democratica del Congo che ha abbandonato nel 2005 per andare altrove a cercare la sua vita smarrita in patria. Qualcosa come quindici anni in Algeria, prima studiando poi lavorando e cercando infine di attraversare il mare per raggiungere l’Europa di tutti i sogni. Arrestato, espulso e deportato si trova adesso nella capitale, ospite dell’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni, da tre mesi in attesa di rimpatrio. Non rimpiange il vissuto e afferma la ferma volontà di ‘ricostruirsi’ dopo tutto questo tempo. I tentativi falliti di viaggio in Occidente e il ‘razzismo’ di vari algerini che gli hanno portato via tutto. Si stupisce che l’Unione Africana non dica nulla ai governanti dell’Algeria sull’iniquo trattamento riservato ai migranti e ai rifugiati , in seguito alle loro disposizioni. ‘Con nulla sei arrivato e con nulla devi partire’, questa la logica che giustifica la confisca dei beni che migranti e rifugiati hanno messo da parte in anni di duro e spesso sfruttato lavoro nel Paese. Ingiustizie sconfinate che gridano nel deserto dell’indifferenza di politici e società civile.

Chi la fa l’aspetti, verrebbe voglia di dire, con la saggezza di un tempo. Abbiamo giocato a confinare popoli, migranti, desideri di trasformazione, aneliti di giustizia e fragili tentativi di riappropriazione di dignità. Abbiamo moltiplicato muri, cancelli, sistemi di controllo, radar, tracciamenti di esseri umani ‘clandestini’, reclusioni dietro reticolati di cartone, inventato biometrie e armi ogni volta più numeriche. Abbiamo, per decenni, scavato fosse, tracciato trincee, creato abissi, progettato voragini, disegnato mari e deserti come recinzioni per fintamente proteggerci e adesso tocca a noi. Confinati fisicamente, mentalmente, socialmente, economicamente e soprattutto umanamente da scelte politiche al soldo di interessi ideologici e monetari. Doveva capitarci perché potessimo provare ciò che nel frattempo avevamo dimenticato. Che, in questa vita e forse pure nell’altra, siamo tutti migranti e che la vita stessa è migrazione e che il mondo e la terra sono di tutti e in particolare dei poveri. Abbiamo dimenticato che siamo creature di sabbia, nude, fragili, mortali, precarie, provvisorie ed eterne solo quando accettiamo la nostra identità di frontiera, tra terra e soffio, amante, di vita. Fa sorridere che qui, in mancanza di meglio, come riporta un giornale locale, ad essere confinate sono…le galline. Il giornale in questione cita il Punto focale dell’Organizzazione Mondiale della Salute Animale che rileva l’esistenza di due focolai di influenza aviaria a Niamey. Il primo in un cortile con circa 40 volatili e il secondo in un allevamento con varie migliaia di galline per la produzione di uova. I gesti barriera sono stati subito introdotti, riporta il giornale, assieme ad una stretta quarantena dei malcapitati animali e l’isolamento degli stessi da ogni contatto esterno. Il settimanale conclude con una nota di solidarietà nei confronti del pollame in questione e desidera ricordare agli animali che dovrebbero sentirsi privilegiati perché, nel 2006, erano state freddamente abbattuti almeno 17 mila volatili.

Johnson, senza chiedere a nessuno, ha delicatamente deposto sulla terra della tomba di Aliya tre giochetti come regalo. Una trombetta multicolore per suonare, un pesciolino rosso per un mare che ancora non c’è e un uccellino giallo polvere di vento , per volare lontano.

Mauro Armanino, Niamey, 13 marzo 2021

 

 

Disobbedienze e divieti nel Sahel e in altre parti del mondo - Mauro Armanino

Niamey, 21 marzo 2021. La manifestazione dell’opposizione, annunciata da due settimane e prevista per il sabato 20 marzo, è stata vietata da un’ordinanza un paio di giorni prima della data. Troppo tardi per reagire e organizzarsi in altro modo. A giustificazione del divieto il timore di disordini in città, dopo quanto accaduto alla rapida e anticipata pubblicazione dei risultati delle elezioni presidenziali. L’uso del net è stato sospeso nel Paese per una decina di giorni, vietando il diritto alla comunicazione. Profittando dell’epidemia, la cui diffusione è stata qui e in genere nel Sahel estremamente ridotta, sono state vietate manifestazioni, assemblee numerose e chiuse a tratti scuole, moschee e chiese. E’ stata vietata la circolazione perché si son chiuse le frontiere tra i Paesi dell’Africa Occidentale. Per chi viaggia in aereo non ci sono divieti se si passa il test di controllo Covid alla partenza e all’arrivo. Quanto al passaggio delle frontiere tra questi Paesi, pur ufficialmente vietato, con un poco di incoscienza e di soldi a doganieri e altri addetti ai lavori, si transita.

E’ vietata la mobilità verso il nord dell’Africa perché, com’è risaputo, le frontiere dell’Europa hanno migrato fin qui e c’è da giurare che scenderanno ancora, verso la costa e fino all’Atlantico. Anche la mobilità sociale, seppur insinuata dalla Costituzione delle Settima Repubblica è, a tutti gli effetti, vietata. I figli dei possidenti studiano nei licei e nelle università private, possono persino andare all’estero e godere delle migliori condizioni di soggiorno. Saranno le ‘élite’ al potere la prossima tornata. Di padre in figlio e di madre in figlia, secondo la dinastia e le mutevoli alleanze politiche. I contadini contadini, gli allevatori allevatori, i mendicanti mendicanti e i politici, c’è da giurarlo, politici. Il conto torna sempre per chi si trova in cima alla classifica dei redditi. Pierre-Joseph Proudhon, filosofo e economista anarchico, diceva che la proprietà è un furto ma oggi si fa del furto la proprietà e chi è povero, dicono gli economisti d’oggi, se lo merita o se lo è cercato. Si vieta il futuro per la categoria sociale più numerosa nel Sahel: i giovani, che rappresentano lo specchio di ciò che saremo, un giorno, senza neppure accorgercene. Vietato sognare un mondo nuovo che non sia già sotto controllo dei poteri dominanti del sistema. Vietato credere in un Dio altro che non corrisponda a quello che la maggioranza ha deciso quello che debba essere. Potente tra i potenti e comunque in grado di regolare le cose in modo che tutto cambi perché nulla cambi. C’è il divieto formale di dire e raccontare ciò che ad uno sembri essere la verità delle cose, il divieto di dire e usare le parole di quanto si vede e si sperimenta, il divieto di evidenziare la realtà del tempo, il divieto formale di riconoscere e gridare, come nella nota fiaba di Hans Christian Andersen, ‘I vestiti dell’imperatore’, che il re è nudo. Vietato mostrare il viso, il cuore, i pensieri e le mani, vietato protestare, pubblicare, difendere i poveri dai soprusi della giustizia, vietato provare a cambiare la rotta della storia, vietato immaginare un mondo libero e trasparente, vietato trasgredire il disordine stabilito e garantito dalla continuità della violenza legittima di chi ne possiede il monopolio. E’ vietato sovvertire ciò che è politicamente corretto, vietato dissentire, se non nelle condizioni e le modalità previste dalla legge e purché ciò non vada a discapito della quiete pubblica. Vietato fare silenzio, meditare, contemplare, ascoltare, camminare e perdere il sentiero battuto. E’ formalmente vietato cantare e giocare senza voler vincere, zufolare e passeggiare sotto la pioggia, sedersi sulla panchina davanti al mare, rincorrere una nuvola con il pensiero e immaginare di trovarsi come il guardiano del faro prima della tempesta e del naufragio delle promesse della vita.

Per fortuna nel Sahel non ci mancano le occasioni per disobbedire. La sabbia, per cominciare, è disobbediente per natura e da lei abbiamo imparato a non lasciarci facilmente organizzare dal potere costituito. Come lei ci spostiamo a piacimento del vento e delle situazioni. Arriviamo tardi perché nel frattempo c’è stato un decesso, una crisi di malaria, la visita imprevista di uno straniero, l’elettricità che manca senza preavviso, la maestra ancora in congedo di maternità, l’impiegato statale appena uscito a cercare i figli, la signora della banca assente per fare acquisti , il meccanico che non trova gli utensili giusti e tutto aggiusta con la preghiera finale per riparare la macchina, i semafori che non funzionano e il traffico è più scorrevole, le elezioni che diventano battaglie campali, i bambini che scrivono il loro nome col gesso e sono orgogliosi di indossare il vestito che la mamma ha regalato per il compleanno che hanno dimenticato.

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martedì 25 maggio 2021

Infrastrutture coloniali fra Italia e Israele - Collettivo Gastivists

 


 

[Oggi che l’occupazione israeliana dimostra ancora una volta agli occhi del mondo tutta la sua violenza, giova ricordare la complicità dell’Unione Europea e di paesi quali Grecia, Cipro e Italia con le autorità israeliane, in merito al loro coinvolgimento nel progetto EastMed, un gasdotto che porterà sulle coste del Salento il gas dei giacimenti al largo di Israele e Gaza.
Il 12 dicembre 2020 il governo italiano ha aderito all’ East Mediterranean Gas Forum (Emgf), il braccio operativo del progetto EastMed con status di organizzazione internazionale, che vanta il sostegno della Commissione europea e della Banca Mondiale.

Riportiamo, di seguito, alcuni testi tratti dal dossier del Collettivo Gastivists contro la costruzione di questa ennesima infrastruttura di supporto ad una potenza coloniale, impattante per i territori e i mari che vuole attraversare, e votata a vincolarci ancora per anni a quell’economia fossile che ci sta portando al disastro climatico.

Ricordiamo infine che fra i Progetti di Interesse Comune dell’Unione Europea a favore dello Stato di Israele, oltre all'EastMed vi è anche l’EuroAsia Interconnector, un progetto infrastrutturale che prevede di collegare le reti elettriche di Israele, Cipro e Grecia attraverso un cavo sottomarino di 1.208 km. L’infrastruttura sarà a servizio anche delle colonie israeliane nei territori palestinesi occupati. Per approfondire il tema rimandiamo al dossier del Palestinian Human Rights Organizations Council. Ecor.Network.]

 

I gasdotti alimentano il conflitto. Come il gas fossile sta accrescendo le tensioni nel Mediterraneo Orientale. Il caso del gasdotto EastMed – Poseidon

In tutto il mondo, l'industria dei combustibili fossili si sta aggrappando al gas fossile come sua ancora di salvezza, sostenendo erroneamente che si tratti di una "soluzione" per la crisi climatica e cercando di aumentare rapidamente la costruzione di nuove infrastrutture di gas fossile. Come l'industria del gas ha preso slancio negli ultimi decenni, così anche i conflitti geopolitici intorno ai progetti sul gas.

Ciò avviene dopo una lunga storia di conflitti petroliferi e di politiche neocoloniali ed estrattiviste innescate dalla prospettiva della prospezione del petrolio e del gas. I governi e le istituzioni intergovernative come l'Unione Europea promuovono falsamente il gas fossile come fonte di energia pulita e come soluzione per la sicurezza energetica e alcuni governi propongono addirittura il gas fossile come soluzione per la pace nella regione.

Lo sfruttamento dei giacimenti di gas non solo scatena e alimenta la militarizzazione, ma minaccia la salute e il sostentamento delle comunità che vivono vicino alle grandi opere e accelera il collasso climatico, che a sua volta minaccia la sicurezza alimentare e la sicurezza abitativa e aumenta il rischio di eventi eteorologici estremi e altri pericoli ancora. Questi impatti danneggiano in modo sproporzionato le comunità di colore e le persone che vivono nei Paesi del Sud.

Un esempio pertinente e contemporaneo è l'Eastmed-Poseidon, la più recente grande opera per il trasporto di gas sostenuta dall'UE e vero e proprio campo minato geopolitico. È progettata per trasportare il gas fossile sotto le acque contese tra Israele e Cipro all'Italia, passando per Cipro e la Grecia. La sua destinazione finale è la rete del gas della stessa UE. Oltre ad essere - come già detto - un campo minato geopolitico, sta alimentando la militarizzazione, i conflitti e l'oppressione nell’area del Mediterraneo orientale. Specialmente nel contesto della crisi sanitaria pubblica di Covid-19 e della recessione economica, questo progetto di gasdotto sarebbe uno sperpero di denaro pubblico e di risorse politiche da parte dell'UE, in un momento in cui quelle stesse risorse sono urgentemente necessarie altrove.

Il governo israeliano è uno dei più entusiasti sostenitori del gasdotto Eastmed, in quanto garantirebbe un mercato europeo di esportazione per le riserve di gas israeliane. Nell'ultimo decennio ha sfruttato le riserve di gas sottomarine nel Mediterraneo, investendo in un boom di infrastrutture per il gas (seguendo l’andamento globale) e continuando al contempo una brutale occupazione e oppressione dei territori palestinesi sia in terra che in mare.

Va notato che ogni attività regionale si situa nel contesto di decenni di violazioni dei diritti umani nei territori palestinesi occupati, che si sono ulteriormente intensificate nel 2020 con il piano di annessione illegale di Israele. Uno dei modi in cui Israele sopprime il diritto dei palestinesi alla loro terra e all'autodeterminazione è attraverso il controllo delle risorse nei territori palestinesi: il giacimento di gas marino di Gaza ne è un esempio patente.

Nonostante sia di proprietà palestinese, il regime israeliano non permette alla Palestina di sfruttare le sue riserve di gas al fine di ridurre il suo potere economico e politico. A seguito delle pressioni del governo israeliano, aziende come la Shell, che hanno licenze rilasciate dall'Autorità palestinese nelle acque al largo di Gaza, hanno abbandonato le loro operazioni. Il sostegno dell'UE ai gasdotti Eastmed e Poseidon dimostra la sua complicità alle continue violazioni dei diritti umani del popolo palestinese da parte di Israele. Legare la dipendenza energetica dell'UE a Israele legittima le politiche del Paese e le sue azioni, come l'attuale annessione della Palestina, e allo stesso tempo finanzia ulteriormente il governo israeliano.

Il dossier completo è liberamente scaricabile dal portale della campagna Stop EastMed!

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lunedì 24 maggio 2021

Perchè l’Eni ama le foreste? - Luca Manes

 

I progetti di conservazione delle foreste sono uno dei temi su cui Eni gioca ormai da anni per rivendicare la sua presunta sostenibilità ambientale.

Durante l’assemblea degli azionisti del 2019, l’ultima a porte aperte, l’amministratore delegato Claudio Descalzi rivendicò addirittura l’intenzione dell’azienda di piantare alberi su una superficie di 8,1 milioni di ettari in tutto il Pianeta, salvo poi correggere il tiro e parlando di “tutela” – ovvero, niente alberi “nuovi”, ma protezione di quelli esistenti.

Di fatto smentendo il contenuto di un’intervista rilasciata al Financial Times appena due mesi prima.

Il cane a sei zampe ha annunciato di aver siglato accordi per progetti REDD+ in vari Paesi del Sud del mondo, soprattutto in Africa: Zambia, Mozambico, Ghana, Repubblica Democratica del Congo, Angola, Vietnam e Messico. L’unico attivo è il Luangwa Community Forests Project (LCFP), in Zambia.

La credibilità degli schemi di compensazione risulta però compromessa dal fatto che si basano su un assunto impossibile da verificare: si presumono riduzioni di emissioni sulla scorta di ciò che sarebbe accaduto se tali progetti non fossero stati realizzati.

Stime aleatorie, che si rivelano di importanza fondamentale per tenere in vita ancora per decenni il modello dell’estrazione dei combustibili fossili.

”Acquistando crediti sul mercato del carbonio o investendo direttamente in presunti progetti di conservazione, aziende come Eni possono presentarsi come protettrici della biodiversità, nonostante le loro attività estrattive continuino a causare la distruzione degli ecosistemi su cui ricadono le loro concessioni, come per esempio nel Delta del Niger o in Mozambico” ha dichiarato Alessandro Runci di ReCommon.

Grazie a questa tipologia di progetti, l’Eni – ovvero l’azienda italiana con il più alto livello di emissioni di gas serra – è in grado di scrivere nel suo piano di decarbonizzazione che il gas fossile costituirà una parte centrale del proprio business persino oltre il 2050, affermando al contempo che, per quell’anno, la società avrà raggiunto l’obiettivo di emissioni nette zero.

Alla base di questo paradosso c’è proprio il controverso meccanismo di compensazione della CO2, che consente alle multinazionali del fossile di riportare un volume di emissioni molto inferiore rispetto a quello di cui è effettivamente responsabile.

 

Malgrado sia noto che l’efficacia di questo meccanismo in termini di riduzione delle emissioni sia alquanto discutibile, specialmente se utilizzato a compensazione di emissioni generate, in numerose occasioni il REDD+ si è rivelato estremamente efficace nel ripulire l’immagine delle industrie più inquinanti, consentendo loro di nascondere il proprio impatto climatico.

Nel frattempo, spesso accade che comunità locali, tradizionali e popoli indigeni interessati dai REDD+ non vedano riconosciuto il proprio diritto alla terra e, anzi, vengano rappresentati come una minaccia per la biodiversità e per le foreste, a causa di pratiche culturali o di sussistenza.

Oltre al danno la beffa, dal momento che spesso sono invece proprio queste comunità a difendere le foreste dagli attacchi della grande industria estrattiva e agro-alimentare, anche a costo della vita.

“Ancora una volta ENI cerca di gettarci fumo negli occhi provando a farci credere di aver intrapreso una seria svolta green”, è il commento di Martina Borghi di Greenpeace Italia. “

Ma la verità è un’altra: investirà solo lo 0,8% del suo profitto lordo in progetti che non vanno alla radice del problema della deforestazione, riducendo le emissioni solo sulla carta e per di più con cifre che appaiono gonfiate.

Il tutto mentre, nei prossimi quattro anni, prevede di aumentare le estrazioni di gas e petrolio. Siamo insomma di fronte all’ennesimo atto di greenwashing da parte dell’azienda”.

Per la Borghi e per Greenpeace l’unico atto concreto da compiere da parte dell’Eni per tutelare il clima consisterebbe nell’abbandono totale dei combustibili fossili. Difficile che con queste strategie societarie ciò avvenga a breve, specialmente se si potrà “vantare” di aver salvato l’Africa dalla deforestazione.

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domenica 23 maggio 2021

La rivoluzione ecosostenibile passa attraverso un nuovo concetto di lavoro - Roberto Paracchini

 

Oggi si inizia a parlare, finalmente, di ecosostenibilità; le riflessioni che seguono riprendono il problema con un taglio orientato ad avanzare alcune ipotesi esplicative su che cosa significherebbe se la si applicasse, l’ecosostenibilità, in specifico anche agli esseri umani. 

“Un pianeta migliore è un sogno che inizia a realizzarsi quando ognuno di noi decide di migliorare se stesso”. Questa frase, attribuita a Gandhi, è ricca di suggestioni. Una di queste racconta di un rapporto strettissimo tra noi e il pianeta. Come dire che noi non solo viviamo in questo pianeta ma ne siamo parte e insieme agli altri esseri viventi ne siamo costruiti e lo costruiamo. E ancora: se il nostro diventare esseri migliori aiuta il pianeta allora, non solo possiamo, ma dobbiamo diventare migliori perché dal nostro star bene dipende anche il benessere del mondo in cui viviamo. Più terra terra: se io sto male, stai male anche tu e viceversa. E se tu stai bene, sto bene anch’io e viceversa.

Proviamo a pensare un attimo a una persona a noi cara: se sta bene, in qualche modo ci sentiamo meglio anche noi. A questo punto proviamo a vederci come di fatto siamo, persone che hanno – chi più, chi meno – parenti, familiari, colleghi, amici, conoscenti e altro ancora. E ora proviamo un esperimento mentale in cui ognuna di queste persone con cui abbiamo alcuni dei rapporti accennati, ne abbia a sua volta altrettanti, di rapporti. Il risultato sarà una rete, una rete quasi infinita di relazioni e collegamenti.

Ma non c’è collegamento alcuno senza il trasferimento dall’uno all’altro di un qualcosa in un circolo di dare-avere e avere-dare: fosse anche solo un sorriso, uno sguardo, una smorfia, una chiacchiera, un saluto, un pettegolezzo, una sensazione, un’intesa e via di seguito. In pratica avremmo un numero enorme di persone che si trasferiscono l’un l’altro lo star bene o lo star male nelle infinite gradazioni e sfumature che una vita può rendere possibile. Dalla storia alla psicologia, dalla fisica alle neuroscienze, dalla sociologia alla chimica, dall’antropologia all’archeologia, dalla letteratura alla filosofia non esiste ormai settore del sapere che non sottolinei l’inscindibile interrelazione che lega tra loro gli esseri viventi, e non solo, che vivono e dimorano su questa Terra.

A questo punto viene spontaneo chiedersi se esiste un qualcosa o un modus vivendi che potrebbe far sì che questo reciproco trasferirsi qualcosa, ovvero il risultato di qualsiasi interrelazione, aiuti tutti gli esseri viventi a stare meglio. 

Detto questo, e tornando alla frase di Gandhi, si aprono i due problemi su cui stiamo riflettendo: il primo riguarda l’ambiente e l’ecosostenibilità, il secondo il lavoro. Due ambiti apparentemente distanti, in realtà inscindibilmente connessi. Vediamo.

Gli scienziati affermano che i cambiamenti climatici hanno visto il susseguirsi di diverse fasi; sottolineano anche che oggi questo cambiamento è fortemente accelerato dall’opera degli esseri umani, dal modo aggressivo di intendere il rapporto con l’ambiente, che viene visto come una entità non solo e non tanto da conoscere, ma soprattutto da controllarepianificare e dominare, consumando senza criterio le sue risorse.

A monte di questo modo di rapportarsi con l’ambiente, che tanti danni sta facendo e continua a fare, c’è un’idea, su che cosa sia quel qualcosa che chiamiamo ambiente, decisamente datata ed errata.

Per molto tempo con il termine “ambiente” si è indicato il risultato di una serie di processi essenzialmente legati ad una ipotetica idea di natura, pre-intervento umano, considerata all’origine di tutto ciò che è, e che si trova attorno agli esseri umani, come se noi potessimo esserne fuori. Anche l’origine etimologica della parola indica questo “vizio” d’origine. Il termine “ambiente” deriva infatti dal latino ambiens, che significa circondare. Lo stesso prefisso amb (in greco amphi) indica “intorno, da ambo i lati”. In questa prospettiva – che possiamo chiamare dualistica – l’essere umano non è considerato parte integrante della biosfera (o ecosfera), ma come entità che, pur ponendosi al centro del mondo, ne risulta in realtà esterno in quanto l’ambiente è ciò che sta intorno, mentre lui resta al centro.

Un passaggio importante, non solo perché propulsore di atteggiamenti antropocentrici, ma anche in quanto inserisce le basi di quel dualismo accennato che ha posto l’essere umano come un qualcosa di qualitativamente differente e, in quanto tale, concettualmente al centro di comando; di contro, ha messo l’ambiente e/o la realtà esterna dall’altrodi lato, ai margini si potrebbe dire, quindi come altro da sé. Questa impostazione ha caratterizzato gran parte del pensiero occidentale…

Considerare l’ambiente altro da sé ha contribuito a far ignorare che gli esseri umani sono essi stessi un prodotto dell’ambiente, a pieno diritto e umilmente in tutto e per tutto interni alla biosfera, ovvero a quella parte della terra in cui si riscontrano le condizioni per la vita animale e vegetale; e che comprende la parte bassa dell’atmosfera, tutta l’idrosfera e la parte superficiale della litosfera fino a due chilometri di profondità.

In parallelo questa visione dualistica (proveniente anche da Cartesio: res cogitans, gli esseri umani; e res extensa, tutto il resto) ha spianato la strada alla trasformazione della conoscenza da curiosità e necessità, per rapportarsi meglio con l’ambiente, a controllo sempre più pianificante, sino a diventare dominio incondizionato. Il che non significa affatto, sia chiaro, che le scienze abbiamo perso il loro valore conoscitivo; tutt’altro, ma che alcuni suoi aspetti sono stati strumentalizzati in alcune applicazioni pratiche. Un quadro che ha condotto, pian piano, anche a uno sviluppo economico fuori controllo e spesso subordinato agli interessi più rapaci del capitalismo contemporaneo, compreso quello più recente, detto della sorveglianza, ovveroun sistema di potere fondato sulla “schedatura dei movimenti” delle persone all’interno della rete (Amazon, Facebook e Google per citare le corporation più grandi). 

Uno sviluppo fuori controllo, si è detto, che ha determinato una rapina sconsiderata delle risorse naturali col rischio reale di una catastrofe ecologica in quanto ha compromessol’equilibrio di autoregolazione che interessa i vari attori del teatro della biosfera. Il tutto, schematizzando, è stato implicitamente (e interessatamente) considerato come un’evoluzione eticamente accettabile in quanto l’essere umano è pensante, animato (dal latino animus, soffio vitale), mentre l’altro da sé, l’ambiente, la res extensa, no, è non pensante, senza soffio vitale; quindi senz’anima. In pratica è materia bruta, dominabile e sfruttabile senza vincolo e limite alcuno. E i disastri ambientali, di cui il riscaldamento globale è l’effetto più macroscopico, si cominciano a vedere in qualunque parte del mondo.

Negli ultimi decenni, però, grazie alla crescita della ricerca scientifica, alle parallele sollecitazioni dei movimenti ambientalisti e alla spinta dei giovani stimolati da Greta Thunberg, si sta sempre più consolidando la consapevolezza che la vita su questo pianeta, e soprattutto quella degli esseri umani, è e sarà sempre più strettamente legata alla salute dell’ambiente, ovvero all’ecosostenibilità delle nostre azioni…

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