martedì 18 maggio 2021

Perché il bio della grande distribuzione non basta - Giovanni Costantini

 

I prodotti biologici sono gli unici che forniscono un minimo di garanzia sulla qualità di quello che si mangia, inizia a raccontarci Riccardo Bocci, direttore tecnico della Rete Semi Rurali. Questo perché, mentre nell’agricoltura convenzionale non è obbligatoria alcuna certificazione di qualità e alcun controllo sui pesticidi, in quella biologica è necessario rispettare una serie di regole previste dalla normativa europea.

Nonostante il cibo sia arrivato al grande pubblico con i vari programmi televisivi, in quella che Bocci definisce «la versione pornografica del cibo», nella realtà i consumatori fanno ancora fatica a leggere un’etichetta e a capire cosa c’è dietro quello che stiamo mangiando. Le conseguenze di queste difficoltà sono evidenti, e gravi: l’Italia ha la percentuale di obesità infantile tra le più elevate in Europa: il 20,4% dei nostri bambini sono sovrappeso; di questi il 9,4% sono obesi, compresi i gravemente obesi che rappresentano il 2,4% (Ministero della Salute, Stili di vita e obesità nei bambini). Fortunatamente, a fronte di questi dati, inizia a diffondersi la consapevolezza di una dieta più sana ed equilibrata: e la crescita del consumo di bio, anche in tempo di pandemia, ne è una conferma (Rapporto BioBank 2020).

Questa crescita, peraltro, è da imputare esclusivamente alla grande distribuzione, mentre continua a diminuire la fetta di mercato dei piccoli negozi. E con i negozi, pionieri vent’anni fa del biologico, scompaiono anche le motivazioni di fondo del bio delle origini, che non era interessato soltanto alla qualità del prodotto ma ‒ ci ricorda Bocci ‒ si faceva promotore di una spinta etica e sociale a cambiare l’agricoltura convenzionale.

In effetti il biologico che troviamo nei supermercati è molto diverso rispetto a quello che vorremmo. Quello della grande distribuzione organizzata è un biologico che non si preoccupa del corretto trattamento dei lavoratori e di eventuali situazioni di caporalato. Non si cura dell’impatto in termini di CO2: per cui distribuisce pomodori che arrivano dall’Argentina oppure fragole fuori stagione. Non è interessato a sostenere gli agricoltori, sui quali quindi ricade interamente il rischio di impresa. A tal proposito Bocci ricorda un’esperienza diretta. Mentre nel passato le aziende per la lavorazione dei piselli stipulavano degli accordi con i quali si impegnavano ad acquistare il raccolto degli agricoltori, adesso questo non accade più: se la grande distribuzione decide, per qualunque motivo, di non acquistare più quei prodotti ecco che l’agricoltore si ritrova nell’impossibilità di vendere il suo raccolto. La filiera produttiva ha assunto una forma a clessidra il cui snodo fondamentale è rappresentato proprio dalla grande distribuzione, che oramai detta le regole a tutti, non solo ai consumatori o ai piccoli produttori, ma anche alla stessa agro-industria.

Allora che fare? La parola d’ordine è, secondo Bocci, diversificazione. «Ci siamo accorti ‒ sottolinea ‒ che quel concetto di diversificazione dei semi, di cui la Rete Semi Rurali si è fatta promotrice, quindi l’idea di avere semi differenti per diversi contesti, va portata ed estesa a tutti gli ambiti. Non c’è un’unica soluzione ma tante misure che vanno messe in campo in una visione organica e coerente». Abbiamo bisogno pertanto di una diversificazione del modello distributivo e logistico. Che permetta di ripristinare un’alleanza tra consumatori e agricoltori, consentendo, ad esempio, di condividere il rischio di impresa di questi ultimi. Abbiamo bisogno al contempo di un modello che non poggi esclusivamente sul volontariato, come nel caso dei gruppi di acquisto solidale, ma che sperimenti più soluzioni e che soprattutto abbia una forza economica intrinseca. Abbiamo bisogno di una politica economica che indirizzi e privilegi un certo modello economico.

Ma la diversificazione la dobbiamo portare anche negli stili di vita di noi cittadini. Abbiamo bisogno di diversificazione della dieta alimentare, da realizzare dando priorità a quell’educazione alimentare che ‒ sottolinea Bocci ‒ andrebbe trattata come un diritto di cittadinanza. Perché non possiamo delegare tutto alla politica e al Ministero della Transizione Economica: «L’educazione alimentare è importante perché soltanto se si capisce la fatica che c’è dietro la produzione di un bene, sono disposto a pagare il giusto prezzo. Adesso nessuno lavora più i campi. Se tutto si riduce al prezzo, allora le dinamiche sociali legate al cibo vengono dimenticate».

Concludiamo l’intervista con l’invito di Bocci a leggere, informarsi, essere curiosi. Perché non è con la delega ma diventando cittadini protagonisti che possiamo costruire un mondo diverso.

 

L’intervista è pubblicata anche su z3xmi.it

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