giovedì 31 ottobre 2019

Un clima socialmente desiderabile - Guido Viale




Di fronte all’evidenza della crisi climatica i negazionisti non negano più il cambiamento, ma ne contestano l’origine antropica. Per continuare sulla loro strada. Come ha spiegato Naomi Klein, i “Signori del petrolio” sanno bene che la CO2 ci sta portando alla catastrofe, ma hanno compreso anche che il transito a un nuovo regime energetico non è un fatto tecnico: comporta il passaggio da un sistema centralizzato, in cui potere e ricchezza sono concentrati in poche mani, a un sistema decentrato, in cui potere e risorse possono essere distribuite. Non vogliono perdere i loro privilegi, a costo di mandare l’umanità in malora; contano che per loro un modo per mettersi in salvo ci sarà sempre. Il negazionismo non va quindi confuso con l’ignoranza delle cause della crisi, che coinvolge forse la maggioranza della popolazione mondiale; a partire da coloro che quella crisi la vivono già sulla propria pelle.
Ma nel campo “interventista” affiorano subito le differenze. Da un lato, green-washing: spacciare per lotta per il clima le misure messe in cantiere ben prima dell’allarme di Greta Thunberg e dell’IPCC. Come fanno l’attuale governo italiano, confermando la vecchia SEN di Passera e Monti, o il sindaco di Milano, che fa passare il PGT messo a punto quando era il direttore della giunta Moratti per la risposta della città alla dichiarazione di emergenza climatica. Dall’altro, coloro che lavorano a una svolta si ritrovano quasi tutti i sotto un unico ombrello chiamato Green New Deal: finanziare la transizione energetica con un grande piano pluriennale di investimenti.
In questo magazzino troviamo versioni diverse, sgranate tra due polarità che, schematizzando, sono “Sviluppo sostenibile” e “conversione ecologica”. Sviluppo significa crescita e sostenibile (in francese durable) vuol dire infinita: cosa impossibile in un pianeta finito. Ma i fautori di questo indirizzo protestano: la crescita è solo quantitativa; lo sviluppo riguarda anche il “fattore umano”. Vero. Ma per loro uno sviluppo senza crescita non è possibile: questa è condizione di quello. Crescita però, dicono, non significa necessariamente continuare ad aggredire le risorse dell’ambiente e intasarlo di scarti; è possibile separare aumento del Pil e consumo di risorse fisiche (decoupling). E’ una tesi su cui si sono spese per anni le principali agenzia mondiali (OCSE, Commissione Europea, Unep, Banca Mondiale) senza trovarne alcun riscontro empirico se non per pochi settori e per periodi limitati; ma è stata affossata da molti studi e, in modo definitivo, da Decoupling debunked: metastudio dell’European Environmental Bureau su ricerche di 143 enti in 30 paesi.
A differenza di chi fa solo green-washing, questo filone di pensiero, che in Italia ha il suo principale esponente nell’Asvis presieduta da Enrico Giovannini, ritiene che una svolta ecologica sia, sì, necessaria, ma non imponga un sostanziale cambiamento di stili di vita (una “cartina al tornasole” è: abolire le auto private, anche elettriche?) e dell’organizzazione sociale. A produrre la svolta saranno infatti le imprese, sotto lo stimolo di una forte pressione popolare, ma soprattutto in vista di convenienze (leggi profitto) da creare con incentivi e penali: affidando cioè a un mercato “governato” il compito di portarci fuori dai fossili. Rientrano in un approccio simile le tesi di Jeremy Rifkin nel saggio Un Green New Deal Globale che prospetta, sì, una generale redistribuzione del potere nel passaggio dall’era fossile alla “Terza rivoluzione industriale”, ma sviluppa una visione tecnica e quasi deterministica della transizione, imposta, a suo avviso, dai quattro pilastri del futuro assetto: l’internet dell’informazione, dell’elettricità, delle cose e dei trasporti.

Ma a un Green New Deal si richiamano anche figure che si dichiarano socialiste come Bernie Sanders e Alexandra Ocasio-Cortez negli Usa e Jeremy Corbyn e Yanis Varoufakis in Europa, o movimenti e attivisti che non si connotano in tal senso, come Sunrise o Naomi Klein. L’elemento che li accomuna, assente nelle visioni precedenti, è il conflitto: per loro la lotta contro la crisi climatica ricomprende in sé obiettivi e istanze delle classi, delle comunità e dei gruppi sfruttati, emarginati, più esposti al degrado ambientale e sociale. Obiettivi che gli esponenti inseriti nei processi istituzionali riassumono in programmi di governo, sconfinando facilmente, come nel caso di Diem25, nella prospettiva di uno stato imprenditore. E che invece gli esponenti più legati ai movimenti cercano di portare alla luce a partire dai conflitti in corso, mettendo a fuoco sia il tema che accompagna in tutto il mondo occidentale l’avanzata delle destre negazioniste: la fobia e la caccia ai migranti, sia, soprattutto le ferite che le politiche estrattiviste e sviluppiste infliggono ai territori, intesi come ambiti entro cui si concretizza il rapporto che ogni comunità dovrebbe poter intrattenere con l’insieme del vivente per potersi costituire come tale. Un rapporto in cui qualità, distribuzione e origine del cibo svolgono un ruolo centrale.
Al centro di questo approccio emerge il nesso indissolubile tra giustizia sociale e giustizia ambientale, la “conversione ecologica” che Alex Langer aveva prospettato trent’anni fa, precisando che per affermarsi doveva essere “socialmente desiderabile”. Tema presente nell’enciclica Laudato sì di papa Francesco, dove la conversione ecologica è sviluppata come rovesciamento della cultura antropocentrica – quella che vede nell’uomo non il custode ma il padrone del “Creato” – per promuovere la riconquista di una sorellanza con la Madre Terra (tema al centro del sinodo sull’Amazzonia chiuso ieri): il presupposto irrinunciabile di un conflitto che permetta ai poveri di tutto il mondo di far valere i loro diritti contro la crisi climatica di cui sono le principali vittime.

La Disneyland di Israele - Francesca Merz




Ci sono argomenti di dibattito internazionale che non trovano nemmeno una riga scritta in italiano, da nessuna parte, uno di questi riguarda il futuro dello skyline di Gerusalemme. Argomento certamente di grande interesse sotto il profilo dello storico dell’arte, dell’architetto, del paesaggista, ma, soprattutto, vero e proprio grande tema politico. Nell’ambito del grande piano per la turisticizzazione di Gerusalemme, e contestualmente della necessità di controllare i flussi in arrivo, non solo nella fase di accesso al Paese, ma soprattutto negli itinerari e nei luoghi ai quali i turisti possono accedere, di lavorare col turismo di massa, e di concretizzare al massimo le entrate derivanti da un turismo facilmente indottrinabile, sono in ponte nuovi progetti: il National Infrastructure Committee (NIC) ha approvato la richiesta del piano per la costruzione di una funivia nella Città Vecchia. Il progetto, che andrà a modificare il maniera sostanziale l’aspetto della città, avrà ripercussioni economiche, culturali e politiche per la Città Vecchia e non solo.
La ratifica del progetto è avvenuta in un modo quanto mai anomalo, promossa dal Ministro del Turismo Yariv Levin e dall’Autorità per lo Sviluppo di Gerusalemme (JDA), in una prima fase sono stati stanziati 18 milioni di shekel, destinati alla pianificazione. Con un colpo di coda atto a bypassare le commissioni per la conservazione dello stesso stato israeliano, il Ministero del Turismo ha deciso di dare la precedenza a questo progetto definendolo una “priorità nazionale”, una categoria che di solito è riservata all’avanzamento di progetti infrastrutturali e costruzioni stradali, aggirando così efficacemente i comitati destinati a elaborare tali progetti. La funivia è stata definita dal National Infrastructure Committee (NIC) come un progetto di trasporto progettato per ridurre la congestione delle strade che portano alla Città Vecchia.
Nella prima fase il percorso della funivia comprenderà tre stazioni: dal sito della Prima stazione a Monte Sion, e da lì al Kedem Center all’ingresso di Silwan. Verrà inoltre costruito un grande parcheggio per lasciare autobus e auto. Il piano a lungo termine, non attualmente approvato, comprenderà invece la costruzione di stazioni sul Monte degli Ulivi e vicino alla piscina Siloam ai margini del Wadi e nel quartiere Hilweh di Silwan.
La maggior parte dei problemi di pianificazione sembrano concentrarsi tra la stazione di Sion e il centro Kedem. Al centro del dibattito, se dibattito si può chiamare la scelta di uno Stato occupante nei confronti della popolazione palestinese che vive in questi quartieri, è che la costruzione di queste nuove stazioni comporterebbe la demolizione di alcuni piani superiori di case del quartiere di Silwan.
Il Kedem Center, così come progettato andrà a diventare l’edificio più grande della Città Vecchia, con una superficie complessiva di 15.000 metri quadrati, situato a soli 20 metri dalle mura della Città Vecchia. Il fatto che questo progetto, il cui impatto sul paesaggio storico di Gerusalemme sarà drastico e irreversibile sia stato posto nei termini della “priorità nazionale” fa chiaramente intravedere gli interessi politici ed economici che ne stanno alla base, e dovrebbe, aldilà della preoccupazione per gli abitanti delle zone interessate alle demolizioni, allertare tutta la comunità internazionale.
Molti esperti di conservazione e architetti, stanno protestando contro la “Disneyfication” del bacino storico della città, tanto che è arrivato ad occuparsi del caso anche il New York Times, nella figura di Michael Kimmelman, giornalista e principale critico d’arte del quotidiano statunitense.
Kimmelman è arrivato in Israele a metà luglio sulla scia di una petizione internazionale proprio contro il piano per la costruzione della funivia: trentacinque importanti architetti e storici dell’architettura della comunità internazionale si sono uniti ai loro colleghi e alle società di conservazione dei beni culturali in Israele per esprimere la loro veemente opposizione al progetto.
Come indica in maniera assai precisa nel suo articolo, la funivia di Gerusalemme non è la soluzione di trasporto funzionale che i suoi sostenitori sostengono che sarà, ma un chiaro prodotto della realtà politica nell’Israele del 21° secolo, le ragioni che stanno alla base della “necessità nazionale”, sono come sempre politiche ed ideologiche, mascherate da necessità di sviluppo e progresso. Kimmelman ha capito che le ragioni sono soprattutto di natura politica, con lo scopo di nascondere il carattere universale della città, in modo che “curi una narrazione specificamente ebraica di Gerusalemme, promuovendo le rivendicazioni israeliane sulle parti arabe della città”.
Dal suo punto di vista, la funivia – che ignora l’esistenza del villaggio arabo di Silwan, dove verrà eretto uno dei suoi giganteschi piloni, rappresenta l’approccio generale del governo israeliano verso i palestinesi, come parte di una brutale strategia che ha lo scopo di rendere la vita difficile, impadronirsi delle proprietà dei palestinesi e infine costringerli a lasciare la città.
Un altro principio che deriva dall’articolo di Kimmelman e sul quale è necessario soffermarsi è nella stessa concezione del progresso infrastrutturale della città di Gerusalemme portato avanti dalle autorità israeliane, ovvero quello che lui stesso chiama il metodo “taglia e incolla”: le idee vengono importate in Israele in modo avventato, senza alcun riferimento ai singoli contesti locali, e in maniera specifica con la mal celata necessità di eliminare gli spazi per i cittadini, in una tensione costante verso la mercificazione e dysneyzzazione della città.
La violazione delle restrizioni sui grattacieli in tutte le parti della città, che è destinata, in parte, a trasformare l’ingresso di Gerusalemme in un enorme blocco di edifici per uffici e centri commerciali con torri di vetro a 40 piani è solo uno dei tanti esempi di pianificazione del “taglio” da Singapore o Jakarta e “incolla” a Gerusalemme. Inoltre è stata la stessa Shira Talmi Babay, pianificatore distrettuale, ad aver dichiarato a TheMarker che Singapore è il modello di pianificazione adeguato per Gerusalemme.
Dell’esperienza di Kimmelman è importante notare il fatto che l’esperto è andato anche in visita in campi profughi, e qui, uno dei più grandi esperti di urbanistica e arte internazionale, ha rilevato come in totale assenza di pianificazione si siano costituite, grazie ad un’architettura spontanea, spazi di comunità legati alla visione della cittadinanza e non orientati solo ai flussi turistici e alla mercificazione della città.
I pianificatori israeliani hanno totalmente dimenticato, come sottolinea lo stesso Kimmelman, di dover fornire non solo alloggi, ma anche “spazio comune”, al fine di evitare la sensazione di vivere in quartieri fantasma alienati, e se è vero, come è vero, che il problema è ben noto in molte città, il fatto che la repressione di spazi comunitari vada a incidere proprio sulla possibilità di riunione, manifestazione e condivisione delle comunità storiche non può non portare all’attenzione internazionale di come la pianificazione in ottica di disneyficazione della città contribuisca anche al principale scopo politico dello Stato sionista. I quartieri in difficoltà sono stati del tutto ignorati, i danni in termini sociali ed ecologici sono già incalcolabili.
Inoltre, la costruzione della funivia, avrà un ulteriore vantaggio per la narrazione, la tipologia stessa di trasporto andrà a modificare i flussi turistici e in particolare i luoghi toccati da questi flussi. E’ sentore comune e condiviso che la fruizione stessa di un complesso storico possa essere garantita al meglio entrando in una città storica attraverso le sue storiche entrate, che nel tempo, per l’appunto ne hanno caratterizzato l’evoluzione urbanistica e la fruizione, la funivia è invece destinata a “scaricare” i suoi passeggeri nel Kedem Center. L’ingresso alla Città Vecchia avverrebbe a quel punto necessariamente tramite tunnel o attraverso Dung Gate.
Va ricordato che il Kedem Center, che  diventerebbe a quel punto il luogo di accesso a tutta la città Vecchia, appartiene alla Fondazione Elad, Fondazione nazionalista ebraica. Non è difficile comprendere come la costruzione stessa della funivia si identifichi con l’acquisizione ebraica di Silwan, poiché essa sarà gestita da coloni o entità nazionaliste, e terminerà la sua corsa nel grande centro Kedem, è dunque abbastanza scontato e ragionevole supporre che pochi palestinesi useranno i servizi della funivia.
Va inoltre detto che, divenendo il Centro il principale accesso alla città Vecchia, pare allo stesso modo del tutto probabile che l’accesso alla città sarà a pagamento tramite il Kedem Center, che le guide che partiranno dal Kedem Center realizzeranno speciali visite per le carovane di turisti in arrivo con percorsi di racconto molto specifici; già ora tutti i percorsi turistici, i pannelli esplicativi in giro per la città, e il racconto della cosiddetta “Città di Davide” dimentica ad esempio di raccontare la presenza di cristiani e musulmani a Gerusalemme.
Verrà così a essere costituita una nuova rotta di trasporto turistico, con una capacità di 3.000 persone all’ora per la Città Vecchia e capace di produrre enormi profitti per i gestori che determineranno percorso e suoi contenuti. Gli organismi che trarranno vantaggio da questo progetto saranno Elad, che gestisce la città di David e il Centro Kedem, e la Western Wall Heritage Foundation, che gestisce i tunnel del Muro occidentale, inoltre sarà l’ennesima esperienza indirizzata dal nazionalismo israeliano, i visitatori non saranno più liberi di muoversi all’interno di un tessuto urbano occupato e diversificato, ma saranno “incanalati” in siti come i tunnel della città di David e del muro occidentale dove, oltre ad addebitare un vero e proprio costo d’entrata alla città, il turista sarà anche indirizzato ancor di più verso una narrazione “chiusa”, modellata secondo le opinioni nazionali e religiose, basate putativamente su reperti archeologici selezionati tra quelli trovati,  nascondendo del tutto le parti non ebraiche del passato di Gerusalemme.
La città di Gerusalemme è meta da millenni di pellegrinaggi; crogiolo di culture e di religioni, per questa stupenda città sono passate culture millenarie, e qui i popoli si sono incontrati e scontrati per secoli. Sembra una storia antica, ma quanto mai attuale.
E’ proprio questa storia, o meglio, una parte di questa storia, al centro delle nuove politiche dello stato di Israele, politiche che, negli ultimi anni, hanno visto l’apertura al turismo come una delle principali azioni e strategie. La comunicazione nell’ultimo anno è stata, come sempre accade quando c’è Israele di mezzo, del tutto vincente, un video colorato e con persone di ogni carnagione è il marchio comunicativo della campagna “Visit Israel”, con immagini mozzafiato e vedute aeree dal drone. Apertura, interculturalità, capacità di essere internazionali e aprirsi al mondo, al turismo l’immagine che Israele mostra al mondo. Ma dietro questa promozione si celano alcuni retroscena. Tentiamo di analizzarli. Il piano di sviluppo turistico dello Stato ha in sé molte motivazioni.
Uno dei piani strategici presentati dallo Stato israeliano, il piano Marom, punta a sviluppare Gerusalemme come città turistica. Solo nel 2014, il Jerusalem Institute of Israeli Studies ha condotto 14 delle sue 18 ricerche di quell’anno nel settore turistico e le ha sottoposte al Comune di Gerusalemme, al Ministero di Gerusalemme e a quello degli Affari della Diaspora e all’Autorità di Sviluppo di Gerusalemme. Legato a questo, il governo israeliano ha stanziato 42 milioni di dollari per sostenere Gerusalemme come meta turistica internazionale, mentre il Ministero del Turismo dovrebbe allocare circa 21.5 milioni di dollari per la costruzione di hotel e ricettività. L’Autorità ha anche offerto specifici incentivi agli imprenditori e alle compagnie che costruiscono o ampliano alberghi a Gerusalemme e organizzano eventi culturali per attirare visitatori, come il Jerusalem Opera Festival, o eventi per l’industria del turismo, come il Jerusalem Convention for International Tourism. Promuovere il settore turistico è anche alla base del Jerusalem 5800 Master Plan che immagina Gerusalemme come “città globale, importante centro turistico, ecologico, spirituale e culturale mondiale” che attiri 12 milioni di turisti (10 milioni di stranieri e 2 di locali) e oltre 4 milioni di residenti.
Per rendere Gerusalemme “l’attrazione turistica del Medio Oriente”, il piano punta a aumentare gli investimenti privati e la costruzione di hotel, la costruzione di giardini-terrazza e parchi e la trasformazione di aree che circondano la Città Vecchia con la costruzione di alberghi, e vietando la circolazione delle auto. Il piano prevede la costruzione di un aeroporto nella valle di Horkania, tra Gerusalemme e il Mar Morto, per servire 35 milioni di passeggeri all’anno. L’aeroporto sarà collegato con strade e ferrovie a Gerusalemme, all’aeroporto Ben Gurion e altre città. Il Jerusalem 5800 tenta di presentarsi come piano che promuove “la pace attraverso la prosperità economica” ma ha obiettivi demografici che dimostrano il contrario. Prevede infatti che i 120 miliardi di dollari di valore aggiunto dall’attuazione del piano, insieme ai 75-85mila impiegati negli alberghi e i 300mila nelle industrie dell’indotto, attireranno più israeliani ebrei a Gerusalemme, aumentandone il numero e facendo pendere la bilancia demografica ebrei-arabi a favore dei primi. Tuttavia il settore turistico non è visto solo come motore di sviluppo economico per attrarre ebrei in città. Lo sviluppo turistico porta con sé la possibilità di controllare la narrazione e garantire la proiezione di Gerusalemme all’esterno come “città ebraica” (vedi la mappa ufficiale della Città Vecchia del Ministero del Turismo). Israele ha per tale ragione irrigidito le misure per chi lavora come guida turistica: le guide non assumono come unica la narrazione israeliana e che tentano di dare un’analisi alternativa e critica della situazione possono perdere la licenza. Questi piani per promuovere l’industria del turismo israeliana vanno di pari passo con le restrizioni imposte da Israele allo sviluppo della stessa industria palestinese a Gerusalemme Est.
Tra gli ostacoli posti: l’isolamento di Gerusalemme Est dal resto dei Territori Palestinesi Occupati, specialmente dopo la costruzione del Muro, e la conseguente fortissima contrazione del turismo arabo, le alte tasse; le restrizioni nel rilascio dei permessi per la costruzione di hotel a non ebrei, o la conversione di edifici in alberghi; e le difficili procedure per ottenere licenze per gli uomini d’affari palestinesi. Questi ostacoli, insieme ai milioni di dollari che vengono versati nel mercato turistico israeliano, fanno sì che l’industria turistica palestinese non abbia speranza di competervi.
Ma lo sviluppo del settore turistico, e di un particolare tipo di turismo, come vedremo nella seconda parte dell’articolo, con il conseguente fenomeno della gentrificazione della città, o meglio della sua mummificazione, risultano essere un ulteriore strumento di apartheid. Il boom turistico di Israele negli ultimi anni, culminato con i recenti accordi con molteplici scali internazionali e con le compagnie low coast, come la RyanAir, pare rientrare alla perfezione in quel meccanismo di controllo dei flussi turistici e soprattutto nella necessità di controllare la narrazione data ai turisti. L’ormai fortissimo Stato Israeliano, dopo anni di chiusura e controlli serrati verso l’esterno, ha così aperto i flussi incentivando un turismo di massa, gestito dalle grandi compagnie e organizzazioni israeliane, facilmente controllabile nei suoi percorsi cittadini, molto facilmente indottrinabile, e con usi e consumi tendenzialmente occidentali (i nuovi scali prevedono l’intensificazione delle partenze dall’Europa), e quindi pronti a riversarsi nei centri commerciali e nei locali USA style. Un significativo dibattito sul fenomeno della mummificazione o desertificazione di Gerusalemme sta quindi prendendo piede; il fenomeno, va detto, è quanto mai noto nelle nostre città, spesso si affronta il tema per luoghi come Firenze o Venezia, ma Gerusalemme non è un luogo come un altro, e non solo per la sua storia millenaria, ma perché terreno di uno dei conflitti sociali, economici e culturali più noti ma meno conosciuti del mondo.

LA “MUMMIFICAZIONE” DELLA CITTA’
Il dibattito internazionale su flussi turistici e desertificazione dei centri è molto ben esplicitato in un termine assai appropriato, ossia la “mummificazione” delle città , ovvero la capacità del turismo di massa di uccidere la città, nella loro essenza, memoria, capacità di rigenerazione sociale, svuotandole di vita, privandole dell’interiore, facendole diventare un immenso parco a tema,  in una sorta di tassidermia urbana. Molta buona politica internazionale sta cercando di porsi il problema e di porre le basi per un suo potenziale superamento, non è questa la sede per ricapitolare le esperienze e i metodi utilizzati da città come Amburgo, Barcellona, Londra, Bruges per tentare di sovvertire questo meccanismo, ma è la sede per ricordare che questo meccanismo è ben noto.  In Israele il meccanismo non solo non si sovverte, ma anzi, proprio questo processo risulta utilissimo per svuotare le città occupate, Gerusalemme su tutte (ma anche città come Nazareth e Betlemme) della propria memoria storica, del proprio commercio, delle attività culturali, degli spazi pubblici, di gioco, di vita, insomma degli spazi della comunità, per fare spazio a “servizi per il turista”; tutto ciò, ovvero la memoria storica, gli spazi della comunità, gli antichi esercizi commerciali coincidono in questa parte di mondo alla memoria del popolo palestinese. Con un’unica grande operazione di richiamo turistico Israele è riuscita dunque a aumentare notevolmente gli introiti in relazione al settore ricettivo, e distruggere una storia non più utile a fini propagandistici. Gerusalemme è una città di pellegrinaggi, abituata da secoli a ricevere l’arrivo di persone di ogni religione, ed è esattamente esaltando questo processo che Israele ha basato la sua narrazione di “accoglienza turistica” ratificando accordi con compagnie low cost che consentono l’arrivo a Tel Aviv con prezzi assolutamente competitivi, dagli 80 ai 100 euro andata e ritorno dai maggiori aeroporti italiani, ad esempio. La creazione di un turismo di massa consente di esercitare una pratica ben nota allo Stato israeliano, ovvero il controllo di gruppi su vasta scala, gruppi che hanno le caratteristiche del turismo inconsapevole: necessità di una guida che li porti in percorsi specifici ben conosciuti alle autorità e precedentemente “ripuliti” dalla presenza della cultura non utile a fini propagandistici, necessità di viaggi organizzati da tour operator, totale interdipendenza dei partecipanti che si muovono in gruppi praticamente privi di autonomia di movimento, incanalati in percorsi di facilissimo controllo.
Il boom turistico di Gerusalemme ha in qualche modo giustificato, come avviene in molte città del mondo, la creazione di servizi specifici per questa tipologia di turismo organizzato. Il processo ha ingenerato risultati scontati: in nome del decoro, del combattimento del degrado, della necessità di creare parcheggi per i grandi bus turistici, e della creazione di direttrici adatte al turismo di massa, Gerusalemme si è trasformata in una zona rossa permanente, il principio è quello di eliminare tutto ciò che è legato alla storia comunitaria, alla cittadinanza attiva, ai servizi per il cittadino, alle pratiche dell’abitare, per trasformare con più velocità possibile Gerusalemme da città di vita dei suoi abitanti e della sua storica comunità, a “città museo” a cielo aperto, con la peculiarità che quel museo sarà esclusivamente gestito dagli israeliani, così come da loro è gestita la totalità dell’incoming turistico, anche solo perché detengono il controllo dell’unico scalo aereo. Al meccanismo di controllo si somma il fatto che, controllando le masse di turismo in entrata, il governo israeliano può controllare nel dettaglio anche la narrazione sulla città, sulla storia, sui siti archeologici, ampliando così in maniera velocissima la propria “pubblicità” e raccontando la propria versione della storia, ad una sempre crescente quantità di persone. I percorsi turistici concepiti nel nuovo piano della Gerusalemme occupata raccontano una storia parziale, per usare un eufemismo, riesumando “prove” archeologiche che non tengono conto della stratificazione delle civiltà ma solo quelle che risultano utili per la narrazione imposta.
La prima e più banale delle modifiche, è stata una vera e propria modifica del giro della città, e della sua storica entrata. I grandi bus turistici si fermano ora nel grande parcheggio organizzato vicino alla porta di Jaffa, a sua volta porta di riferimento della Gerusalemme sotto il controllo israeliano, mentre la porta da cui tutti i pellegrini nei secoli sono entrati e hanno considerato come principale, ovvero la Porta di Damasco, unica porta che porta direttamente all’antico suq (o meglio a quel poco che ne sta rimanendo), sta diventando una porta secondaria, quasi un passaggio “esotico” per turisti che amano il brivido, con orde di turisti totalmente inconsapevoli che passano per quelle vie, quasi che quei piccoli brandelli di vita reale fossero attori, comparse dai tratti orientali in una terra ormai fatta di centri commerciali a sei piani. L’intento, da qui a qualche anno, così come sta già avvenendo, è di non far più passare i turisti per locali e luoghi frequentati e gestiti da palestinesi, questo ovviamente ha un duplice riscontro in termini economici: le tipologie di commercio storiche, gestite dai palestinesi, erano servizi per la cittadinanza, si tratta di panifici, piccoli fruttivendoli, negozi che riparano scarpe, artigiani; Israele, lavorando attivamente per incentivare il turismo di massa, cambia la toponomastica della città in modo da indirizzare i flussi per nascondere del tutto l’esistenza dei palestinesi, e aumentare esponenzialmente il fenomeno di mummificazione della città, ottemperando, in questo meccanismo, nel medesimo momento a più obiettivi, da un lato quello di arricchire esponenzialmente i centri commerciali e i nuovi negozi che nascono ad uso e consumo dei turisti a Gerusalemme, dove i turisti si sentono coccolati da forme e marche che conoscono, da fast food internazionali, marchi vegan, locali fusion, uguali in tutto il mondo, dall’altra parte distruggere una parte sostanziale della memoria di una città millenaria, legata, chiaramente, al popolo palestinese. Jaffa street, con i suoi Mall e le sue catene di fast food ci fa sentire coccolati da ciò che conosciamo, molto più che la visita alla porta di Damasco e al suq. In questa parte di città, tra le viuzze dimenticate, vedreste negozi chiusi, anziani sarti palestinesi che resistono all’ondata di affaristi e speculatori, passando le proprie giornate in negozi vuoti, senza più clienti, senza più una comunità, senza più una vita, per il solo dovere della resilienza, quel “sumud” che riempie gli occhi di lacrime a quegli uomini e quelle donne che Gerusalemme se la ricordano come il luogo magico che doveva essere settanta anni fa, con l’oro delle sue mura, i suoi vicoli riparati dal sole, il senso incombente di eternità, il silenzio delle tre di pomeriggio interrotto solo dalle urla dei bimbi che escono dalla scuola, scene che possono essere viste solo uscendo dai percorsi turistici, scene che potrete ancora vedere in alcuni vicoli stretti e dimenticati della Gerusalemme  Est,  nelle pochissime scuole palestinesi rimaste, scuole i cui muri sono coperti dal filo spinato, perché costantemente bersaglio delle rappresaglie di coloni.
La mummificazione della città, il suo svuotarla della vita, è un meccanismo fisiologico di ogni massiccia turisticizzazione cittadina, un fenomeno studiato nel dettaglio dall’autorità Israeliana, e utilizzato esattamente alla stregua di quei meccanismi di controllo di cui parla diffusamente Neve Gordon nel testo dedicato all’ occupazione israeliana, un controllo non solo sulle masse palestinesi, ma, ora, anche sulle masse provenienti da fuori, per un indottrinamento subito in maniera del tutto inconsapevole dai turisti che percorrono le vie di Gerusalemme.
Il progetto ovviamente non si limita a Gerusalemme, ma va ben oltre, sono inserite all’interno dei tour anche cittadine quali Nazareth, Betlemme o Gerico, che si trovano in Palestina. Il refrain con il quale vengono promossi tutti questi luoghi è sotto l’egemonia del marchio “Visit Israel”, in quel processo di appropriazione di terre, culture e spazi vitali, che vede ora nel turismo di massa una delle armi più subdole e vincenti. 

martedì 29 ottobre 2019

Ripensare il venerdì - Franco Lorenzoni


Gli studenti scesi in piazza che chiedono di capire e cambiare, confrontandosi con un problema urgente e drammatico, offrono un dono a noi insegnanti che non possiamo non cogliere, perché la loro rivolta ci interpella. 
Con i loro cortei, giovani e giovanissimi si rivolgono alla politica perché pretendono risposte immediate. La scuola non ha risposte da offrire, ma è il luogo dove moltiplicare le domande e renderci conto che il surriscaldamento globale può essere affrontato solo educandoci tutti al paradigma della complessità. E, soprattutto, come ci ricorda con lucida insistenza Greta Thunberg, che capire è cambiare. Se non cambiamo, vuol dire che non abbiamo capito. 
Ci sono giganteschi interessi economici in gioco, insieme ai rapporti di forza tra gli stati e alle leggi spesso inique del mercato. Per comprendere le dinamiche in campo c’è dunque bisogno di storia, tanta storia, anche quella trascurata che riguarda lo sfruttamento dell’energia e i contraddittori processi di decolonizzazione. Se vogliamo giocare con le discipline, è evidente che abbiamo bisogno di chimica e fisica e matematica e statistica. Abbiamo bisogno di ripensare radicalmente l’insegnamento della geografia, materia sotto attacco negli ultimi anni eppure fondamentale, insieme alla demografia, se vogliamo leggere le sfide del futuro in un mondo in cui si moltiplicano i “profughi eterni”.
La scuola è strutturalmente diacronica e credo non debba mai appiattirsi sul presente, inseguendo modi e mode dell’oggi, ma offrire piuttosto la possibilità di incontro con altre epoche e sguardi sul mondo inusitati, che ci arrivano dalla scienza, dall’arte e da espressioni culturali di ogni luogo e tempo. Ma oggi, insieme al passato, gli studenti ci implorano di studiare il futuro, argomento che sembra interessare ad assai pochi nel paese più anziano del mondo. 
Ragazze e ragazzi ci pongono domande legittime, cioè domande alle quali nessuno ha risposte certe da dare, e questa sfida sta cominciando a coinvolgere centinaia di docenti. Si moltiplicano appelli e siti a livello internazionale e locale di Teacher for future e, in Italia, il tavolo Saltamuri, che riunisce 133 associazioni impegnate in campo educativo, propone di dedicare almeno un venerdì al mese alla questione perché gli aneliti dei più sensibili diventino argomento urgente per tutti. Dobbiamo metterci a studiare noi docenti per primi e provare a capire come si può affrontare insieme la questione dei cambiamenti climatici: con quali strumenti e consultando quali materiali, utilizzando quali saperi e con quale metodo di ricerca.
Non basta solo il ricorso alle discipline scientifiche, perché in ballo ci sono i nostri comportamenti, dunque il nostro immaginario, insieme al necessario confronto tra opinioni diverse. Dovremo dunque interrogarci sull’etica, praticare il dialogo, incrociare la filosofia. 
Le idee in campo vanno da chi nega il problema, come i potenti Trump e Bolsonaro, a chi afferma che “l’ambientalismo, senza una critica radicale del capitalismo, è solo giardinaggio”, come sosteneva Chico Mendes, ucciso perché difendeva alberi e popoli dell’Amazonia. Un’ottima occasione, dunque, per metterci in gioco davvero e discutere, con dati alla mano, se lo sviluppo sostenibile sia solo un ossimoro e cosa intenda fare chi parla di green new deal. Nella manifestazione di Roma del 27 settembre un cartello sintetizzava in modo icastico il vasto programma che attende i ragazzi e tutti noi: – EGO + ECO. 
Contrastare decenni di narcisismo di massa richiede a ciascuno trasformazioni profonde. Trent’anni fa Alexander Langer propose il tema della conversione ecologica, evocando una trasformazione che doveva intrecciare la necessaria riconversione energetica, agricola, urbanistica e industriale con una più profonda trasformazione delle nostre relazioni con la natura, il pianeta e l’iniqua distribuzione delle ricchezze. Nel cercare di individuare un’etica all’altezza di una sfida ecologica che sentiva ineludibile, proponeva di applicare una “regoletta kantiana” così formulata: ciascuno di noi dovrebbe limitare il suo consumo di risorse ed energia, adeguandolo alla possibilità che i sei miliardi di abitanti del pianeta possano consumare altrettanto. Siamo arrivati a essere oltre 7,7 miliardi noi inquilini della Terra e calcolare quali cambiamenti nei consumi e nel nostro stile di vita comporterebbe il prendere sul serio quella “regoletta”, potrebbe costituire un ottimo esercizio per avvicinare al nostro sentire le condizioni di vita materiali di miliardi di nostri coinquilini, comprendendo che già oggi, oltre la metà delle migrazioni forzate di intere popolazioni, sono dovute a fattori climatici e ambientali.
È a scuola che Greta ha visto il documentario con l’isola di plastica più vasta del Messico galleggiare nel Pacifico e non se l’è più tolta dalla testa. È a partire da quella ferita che ha affinato la sua particolare sensibilità che la rende capace – a detta di suo padre – “di vedere l’anidride carbonica a occhio nudo”.
Ma poiché per trasformarci abbiamo bisogno di scienza e statistica, ma anche di simboli e immaginario, dunque di poesia, musica, teatro e letteratura, potremmo ricordare le profetiche parole dal dottor Astrov nello zio Vania, che Anton Čecov fece risuonare in un teatro di Mosca centoventi anni fa: “Le foreste si fanno sempre più rade, i fiumi si seccano, la selvaggina si è estinta, il clima è guastato, e di giorno in giorno la terra diventa sempre più povera e più brutta. Tu mi guardi con ironia (…) ma quando passo vicino alle foreste contadine che ho salvato dal taglio fraudolento, quando sento stormire la mia giovane foresta piantata dalle mie mani, io mi accorgo che il clima è un poco anche in mio potere e che se fra mille anni l’uomo sarà felice, ne avrò un poco anch’io il merito”.

domenica 27 ottobre 2019

Brasile, la denuncia: pulizia etnica contro la popolazione nera - Manuella Libardi


 [Traduzione a cura di Luciana Buttini dall’articolo originale di Manuella Libardi pubblicato su openDemocracy]

Genocidio. È questa la parola che circola sui social network per descrivere l’aumento della violenza da parte della polizia in Brasile. Il termine è stato usato soprattutto qualche settimana fa, quando il Paese ha cercato di esprimere la propria incredulità di fronte all’omicidio di Agata Felix, la bambina di otto anni colpita lo scorso 20 settembre da un proiettile alla schiena mentre rientrava a casa nella povera comunità di Rio de Janeiro.
“Genocidio. Ecco cosa sta avvenendo in Brasile con questo Governo. Il peggiore! Con il sostegno del Governo americano! Non solo le persone vengono uccise. Si stanno distruggendo interi ecosistemi. Non resterà nulla… soltanto odio e miseria” , ha commentato un utente di Instagram sotto un post pubblicato da The Economist.
Appena sotto, in un altro commento si legge: “È un genocidio”. 
È davvero quello che si sta compiendo in Brasile? La parola genocidio è stata coniata verso la metà del Novecento dall’avvocato ebreo polacco Raphael Lemkin con lo scopo di descrivere l’eliminazione degli ebrei durante l’Olocausto. Successivamente, nel 1948 le Nazioni Unite hanno classificato il genocidio come un reato punibile secondo quanto stabilito nella Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio.
Perché un crimine possa essere definito genocidio, deve rispecchiare una serie di parametri fissati dalle Nazioni Unite. Secondo questa rigida e specifica definizione, per genocidio s’intende ciascuno dei seguenti atti: uccidere i membri di un gruppo etnico, religioso, nazionale o razziale; causare lesioni fisiche e/o mentali ai membri del gruppo; sottoporre intenzionalmente al gruppo condizioni di vita finalizzate a provocare la sua distruzione fisica; imporre misure volte a impedire le nascite all’interno del gruppo e provvedere al trasferimento forzato dei bambini da un gruppo a un altro.
Nonostante a livello giudiziario sia complesso dimostrare l’intenzione o la premeditazione, si può comunque affermare che la licenza di uccidere concessa alle forze armate e di polizia brasiliane risponda a quasi tutti, se non tutti, i criteri menzionati sopra.
Se si considerano i classici casi di genocidio come l’Olocausto, il genocidio in Armenia e in Ruanda, ci si rende conto che sono tutti caratterizzati da determinati eventi verificatesi in un dato periodo. In tal senso, la realtà brasiliana si differenzia dagli altri casi.
La morte sistematica delle popolazioni nere non è un fenomeno che stiamo vivendo ora, piuttosto una realtà costante nel tempo, che esiste da quando nel 1539 i primi africani sono approdati sulle coste indigene di Pernambuco.
A quel tempo, l’aspettativa di vita delle popolazioni africane era di pochi anni, si moriva esausti e si veniva poi sostituiti da altri uomini in condizioni migliori, appena portati dall’Africa. Dopo secoli di continue violenze, la condizione di schiavitù è culminata in una serie di tentativi di eliminare la “razza nera”. Un esempio è stato lo sviluppo delle teorie di sbiancamento della popolazione locale che si sono affermate verso la metà dell’Ottocento e ancor prima dell’introduzione del divieto della schiavitù in Brasile.
Non c’è da stupirsi, dunque, se tra i molti intellettuali brasiliani che hanno difeso le teorie di sbiancamento razziale, uno dei più noti era proprio un antropologo e medico di Rio de Janeiro. Nel 1911, João Baptista de Lacerda ha partecipato al primo Congresso Universale delle Razze tenutosi a Londra, contribuendo con la presentazione dell’articolo Sur les métis au Brésil. In questo documento, De Lacerda difendeva il concetto di mescolanza etnica come un modo per far prevalere i tratti europei sulle popolazioni africane e indigene.
All’indomani della Seconda guerra mondiale, le teorie dello sbiancamento razziale hanno perso il consenso accademico e istituzionale, soprattutto grazie agli sforzi compiuti da organizzazioni internazionali come le Nazioni Unite. Così, dato che i discendenti africani costituiscono ancora oggi più del 50% della popolazione brasiliana, è chiaro che la mescolanza etnica non è riuscita a raggiungere l’obiettivo di sbiancamento prefissato.
Da allora, quindi, il progetto di eliminazione della razza ha preso una strada diversa da quella indicata dalla teoria dello sbiancamento. La strada della violenza, dove la mescolanza etnica è stata sostituita dalla criminalizzazione delle popolazioni, fenomeno che ha trovato una giustificazione istituzionale negli omicidi indiscriminati.
Agatha, colpita alla schiena da un proiettile mentre stava rientrando a casa con la madre a bordo di un camioncino, è un’altra vittima di questo tentativo di eliminare le popolazioni povere e nere di Rio de Janeiro. Quando il presidente Jair Bolsonaro dice che “il bandito buono è il bandito morto”, sappiamo tutti che cosa intende per “bandito”.
Tornando alla definizione di genocidio, uno dei parametri che lo definisce è l’imposizione di uno stile di vita che mette a rischio la sopravvivenza del gruppo. Proprio quest’aspetto, non rientra forse nella nostra storica discriminazione istituzionalizzata delle popolazioni nere che contribuisce a perpetuare il ciclo di povertà? Le favelas, ad esempio, sono il risultato dell’enorme disuguaglianza sociale nel Paese, un problema di cui il Governo non sembra affatto preoccuparsi.
Costringiamo i neri alla povertà e poi li accusiamo di spaccio di droga. Questo è il frutto di una storica politica di criminalizzazione che non è altro che una giustificazione agli omicidi indiscriminati. Nel corso dell’evento Ocupa Política tenutosi a Recife [NdT dal 29/08 all’01/09 2019], un partecipante alla tavola rotonda ha affermato che “L’antiproibizionismo è impiegato come una strategia per proteggere le vite dei neri”. Tale dichiarazione risuona come una domanda retorica al gruppo: si può davvero considerare concluso in Brasile il fenomeno di pulizia etnica?
La risposta è no. Noi brasiliani lo sappiamo. Non è un caso infatti che la morte di Agatha abbia rilanciato i dibattiti sulla presentazione del pacchetto di leggi “anticrimine” per la cui approvazione si sta battendo il  ministro della Giustizia Sergio Moro. In questo pacchetto si è cercato di includere la tutela giuridica per la polizia e i poliziotti armati che uccidono i civili nella lotta contro il crimine, situazione che rientrerebbe nel caso della morte di Agatha.
Lo scorso 25 settembre, un gruppo di lavoro della Camera dei Rappresentanti ha revocato la cosiddetta esclusione dell’illegalità proposta nel pacchetto di leggi Moro. Ma persino all’ombra della tragedia di Agatha, il ministro ha continuato a difendere il suo progetto.
Le cifre confermano i timori. Infatti, le morti causate da interventi di polizia a Rio de Janeiro tra gennaio e giugno di quest’anno sono aumentate del 46% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Per ogni poliziotto ucciso, 89 cittadini perdono la vita, una proporzione da record. Solo quest’anno, cinque bambini con meno di 12 anni sono rimasti uccisi nel corso di operazioni di polizia a Rio de Janeiro. Il bilancio delle vittime in seguito agli interventi di polizia risulta il più alto negli ultimi 20 anni.
Si può discutere delle intenzioni e delle misure del Governo come si vuole. Ma le cifre mettono in evidenza omicidi sistematici avvenuti soprattutto nei confronti della popolazione nera delle favelasParliamo di genocidio? Il caso del Brasile va ben oltre. Quali sono infatti le possibilità che queste vittime vengano riconosciute e che i responsabili delle loro sofferenze vengano fatti arrestare? Direi nessuna.

da qui

sabato 26 ottobre 2019

Agricoltura ieri ed oggi, ma domani? - Jacopo Simonetta


Il tema è sterminato, qui vorrei solamente far presente un dettaglio, spesso trascurato nelle discussioni su questo argomento.
Uno dei segni che i tempi stanno cambiando è che sempre più persone cominciano a porsi il problema del cibo, una cosa che per decenni abbiamo dato per scontata.
In effetti, l’agricoltura industriale, figlia della “rivoluzione verde”,  sembra aver raggiunto il suo “picco”; ce lo dice il forte rallentamento o stagnazione della crescita a fronte di uno sforzo produttivo che accelera.  Nel frattempo, la popolazione continua ad aumentare, così come la voglia di mangiare di più e meglio da parte di chi sta mangiando poco e male.
Una vera carestia, di quelle che spazzano via milioni di persone, non è una prospettiva realistica a breve e medio termine, soprattutto non in Europa, ma a lungo termine può accadere di tutto e, comunque, come si suol dire in Toscana: “E’ meglio aver paura che buscarne”.
A maggior ragione se, con l’occasione, si riesce anche a mettere in tavola roba più saporita e genuina di quella che si compra al supermercato.
Di qui la repentina trasformazione dell’antico orticello dietro casa da attività residuale per vecchietti arzilli a settore economico in crescita esponenziale: libri, riviste, convegni, attrezzi, sementi, corsi, siti internet e chi più ne ha più ne metta offrono di tutto a chi fosse interessato.  Perfino troppo, tanto che è oramai difficile orientarsi in questo mare magno.
Bene, ma se è vero che gli orti possono aiutare molto l’economia domestica in campagna e, entro certi limiti, nelle periferie urbane, non sarà così che si sfameranno i miliardi di persone che si ammassano nelle megalopoli.   Per questo, è necessario un salto di scala di parecchi ordini di grandezza e questo cambia la prospettiva.
Un’opinione molto diffusa è che la dieta di domani sarà vegetariana o quasi e che ciò sarà sufficiente a tenere in equilibrio il sistema.   Ci sono diverse buone ragioni per pensarlo:
§  Una percentuale consistente della produzione agricola è destinata alla produzione di alimenti per il bestiame; soprattutto vacche, ma non solo.   La trasformazione delle granaglie e della soia in alimenti e di questi in carne o latte comporta però una forte dissipazione di energia.  Se mangiassimo direttamente i semi  avremmo quindi molte più calorie a disposizione.
§  Gli allevamenti intensivi consumano grandi quantità di acqua, non solo per far bere il bestiame (specialmente i bovini), ma anche per mantenere un minimo di igiene nelle stabulazioni.
§  Il cereale più produttivo e quindi più utilizzato per i mangimi è il mais che, però, è anche quello che ha più bisogno di acqua e, nelle varietà ad altissima resa odierne, anche di diserbanti, concimi sintetici ecc.  Segue la soia (una leguminosa) per coltivare la quale stiamo distruggendo buona parte della foresta amazzonica.
§  Gli allevamenti intensivi sono estremamente inquinanti, sia per l’abnorme e concentratissima produzione di letame e liquami, sia per la produzione di metano che mangimi ricchi di carboidrati e poveri di fibre incrementano considerevolmente.
§  Una dieta ricca di carne e latticini non è necessaria, anzi può essere perfino nociva per persone che fanno una vita sedentaria come la maggior parte di noi.
§  Negli allevamenti intensivi gli animali sono trattati malissimo, ai limiti della tortura o anche oltre.
§  Negli allevamenti intensivi si fa necessariamente un largo uso di farmaci sui cui residui non c’è controllo possibile. In particolare, l’uso di antibiotici di copertura è una misura di profilassi necessaria in condizioni di sovraffollamento e scarsa igiene, ma contribuisce a selezionare patogeni particolarmente pericolosi.
Tutto corretto e, oggi come oggi, ridurre drasticamente il numero e la dimensione degli allevamenti intensivi sarebbe una misura lodevole, specie se il conseguente aumento dei prezzi riportasse un poco di bestiame sui pascoli e nelle fattorie dove, invece, ce ne è oggi troppo poco.
Ma che ci dobbiamo aspettare dal futuro?
La peculiarità della fluttuazione climatica in corso è di essere caldo-secca sulla maggior parte delle terre emerse.   Un’anomalia questa che non è il caso di discutere qui; il punto che ci interessa è che la disponibilità di acqua continuerà presumibilmente a diminuire ed i suoli ad inaridire.   Per farsi quindi un’idea di come potrebbe essere l’agricoltura europea del futuro proviamo a dare un’occhiata a cosa succede nei paesi che oggi hanno situazioni climatiche ed edafiche simili a quelle che presumiamo di avere noi fra un paio di decenni.  Per esempio in nord Africa e in buona parte della Spagna.
In primo piano troviamo zone irrigue con buoni livelli di produzione, ma solo grazie ad una disponibilità di energia, concimi e fitofarmaci che difficilmente avremo in futuro.   Inoltre, l’emungimento delle falde freatiche e dei fiumi è una delle concause dell’inaridimento del territorio, in misura anche maggiore del Global Warming.  Si veda per tutti, l’esempio del Lago Aral, prosciugato per irrigare i campi di cotone.  In pratica, le colture irrigue dovrebbero essere abbandonate subito e molte lo saranno comunque.  Alcune, anzi, lo sono già state, proprio per esaurimento dell’acqua e/o per accumulo di sale nel suolo (frequente conseguenza dell’irrigazione in zone aride).
Dove ci si deve accontentare di piogge scarse e irregolari non c’è spazio per ortaggi, mais e meloni. Troviamo quindi magri campi di cereali resistenti all’aridità, ma scarsamente produttivi come il miglio, il sorgo ed alcune varietà di frumento.  Anche questi ricorrono a concimi “chimici” e fitofarmaci, ma per l’acqua dipendono invece dai capricci del clima.  Di conseguenza, i rendimenti sono scarsi e molto variabili, complessivamente in diminuzione a causa del peggioramento del clima e del degrado dei suoli così sfruttati.
Infine, l’unica cosa che cresce sulla maggior parte del territorio di molte regioni è una vegetazione ruvida e tenace, fatta perlopiù di arbusti ed erbe perenni che possiamo mangiare solo usando del bestiame per trasformarla in carne e latte.  Dirò di più:  anche laddove il clima ed i suoli sono ancora propizi all’agricoltura, una popolazione rurale che disponga di poca energia esogena (elettricità e gasolio) ha tutto l’interesse a basarsi in buona misura sull’allevamento.  Non a caso è quello che è sempre accaduto e che continua ad accadere.   Il bestiame ha infatti alcuni vantaggi strategici che è bene ricordare:
§  Utilizza risorse che noi non possiamo usare direttamente.
§  Non fornisce solo cibo, ma spesso anche servizi (trasporti, forza motrice, ecc.)
§  Fornisce concimi ed ammendanti di qualità.
§  Incrementa sensibilmente la biodiversità locale.
§  Il corpo degli animali è anche un contenitore di cibo che si conserva da solo, senza bisogno di protesi tecnologiche ed energetiche.
Per questo, i popoli che vivono in aree semi-aride hanno ed hanno sempre avuto una dieta a base di carne e latticini, integrati da quel poco di verdure e cereali che riescono a produrre e/o importare.
In passato, i popoli che avevano del buon bestiame, specialmente buoni cavalli, hanno soverchiato quelli che non li avevano.   Poi la palma del dominio è passato a coloro che, invece, hanno il controllo dei combustibili fossili, ma anche questo sta passando.
Non possiamo sapere come sarà il mondo fra cinquanta o cento anni, ma io credo che sarebbe una cosa prudente tornare a diffondere capillarmente il bestiame più vario nelle campagne, eliminando invece gli allevamenti industriali.  Cosa facile a dirsi, ma difficile a farsi.
Credo inoltre che sarebbe prudente usare il residuo potere economico e tecnologico che abbiamo per importare e/o selezionare razze più idonee al clima ed alla vegetazione che si presume avremo in futuro.  Ricordo che selezionare e stabilizzare una razza animale è un affare che prende decenni; tempi cioè dello stesso ordine di grandezza di quelli con cui il nostro territorio si sta inaridendo.



giovedì 24 ottobre 2019

Morire di smog - Grig


Secondo il Rapporto 2019 sulla qualità dell’aria dell’Agenzia Europea dell’Ambiente (E.P.A.), l’aria che respiriamo nel Vecchio Continente è tutt’altro che limpida e pulita.
La situazione è molto grave e per l’Italia non è migliorata rispetto al 2018.
Nel 2019 ha raggiunto il primato europeo per morti premature a causa dell’inquinamento da biossido di azoto (NO2): il biossido di azoto si forma in massima parte in atmosfera per ossidazione del monossido (NO), inquinante principale che si forma nei processi di combustione. Le emissioni da fonti antropiche derivano sia da processi di combustione (centrali termoelettriche, riscaldamento, traffico), che da processi produttivi senza combustione (produzione di acido nitrico, fertilizzanti azotati, ecc.).
L’Italia è al primo posto in Europa per morti premature dovute a biossido di azoto (14.600 decessi) e ozono (3mila) e al secondo posto per le vittime del particolato fine PM2,5 (58.600).
automobili e smog (foto da stadio24.com)

Nella Pianura Padana, la camera a gas d’Italia dove vivono 23 milioni di persone (il 43% della popolazione nazionale), “due milioni di italiani vivono in aree … dove i limiti imposti dall’Unione Europea ai tre principali inquinanti sono sistematicamente violati”.   Padova, certo non una metropoli, si distingue per il primato di inquinamento da PM2,5 e PM10.
Il Rapporto presentato in occasione della prima Conferenza Globale sull’inquinamento dell’aria e la salute ha afferma che quotidianamente più del 90% dei bambini e ragazzi sotto i 15 anni nel mondo respira aria inquinata.  Ciò è causa di 600 mila morti infantili dovute allo smog respirato in casa e fuori.
L’Italia fa parte dei paesi con la qualità dell’aria peggiore, tanto che il 98% dei bambini è esposto a livelli troppo alti di polveri ultrasottili.
Di fatto, Il 90% della popolazione mondiale respira aria inquinata.
Si stimano ben 7 milioni di decessi dovuti, direttamente o indirettamente, all’inquinamento atmosferico, dati costanti negli ultimi anni.
E chi si affida alle condizioni ambientali locali, dovrà ricredersi: Cagliari, città di mare dominata dai venti, è ai primi posti in Italia per inquinamento dell’aria da polveri sottili e conseguenti decessi, come risulta dalla ricerca Ambient Particulate Air Pollution and Daily Mortality in 652 Cities, pubblicata sul New England Journal of Medicine (22 agosto 2019).
Bisogna cambiare registro, se non ora quando?
Gruppo d’Intervento Giuridico onlus





A.N.S.A.16 ottobre 2019
Smog, Italia prima in Europa per morti da biossido azoto. Rapporto Aea sulla qualità dell’aria 2019.
BRUXELLES – Primo paese dell’Ue per morti premature da biossido di azoto (NO2) e nel gruppo di quelli che sforano sistematicamente i limiti di legge per i principali inquinanti atmosferici. E’ l’Italia vista dalle centraline antismog, i cui dati sono stati raccolti e analizzati dall’Agenzia europea per l’ambiente (Aea) nel rapporto annuale sulla qualità dell’aria. Secondo l’analisi dei rilevamenti 2016, la Penisola ha il valore più alto dell’Ue di decessi prematuri per biossido di azoto (NO2, 14.600), ozono (O3, 3000) e il secondo per il particolato fine PM2,5 (58.600). Complessivamente nell’Ue a 28 lo smog è responsabile di 372mila decessi prematuri, in calo dai 391mila del 2015. Come nel quadro generale europeo, i dati indicano un miglioramento anche per l’Italia rispetto al 2015, quando l’Eea stimava i decessi prematuri per NO2 nel nostro paese a 20mila unità.
Le rilevazioni più recenti, datate 2017, vedono le concentrazioni di polveri sottili (PM2,5) più elevate in Italia e sei paesi dell’est (Bulgaria, Croazia, Repubblica Ceca, Polonia, Romania e Slovacchia). Torino contende a Parigi e Londra il primato di città europea più inquinata da NO2 e, tra le città più piccole, Padova si segnala per l’alta concentrazione media di PM2,5 e PM10. La situazione non migliora nelle aree rurali nazionali, con superamenti dei limiti giornalieri di particolato registrati in sedici delle 27 centraline che hanno rilevato valori irregolari nell’Ue. Due milioni di italiani vivono in aree, soprattutto la Pianura Padana, dove i limiti Ue per i tre inquinanti principali sono violati sistematicamente. 
Cagliari, Bastione di S. Croce
da L’Unione Sarda17 ottobre 2019


I cambiamenti climatici sono un problema che riguarda tutti e ovunque. Anche in Sardegna. (Antonio Barracca, medico)
I cambiamenti climatici sono uno dei più gravi problemi del nostro tempo. Essi condizionano tutti gli aspetti della nostra convivenza mettendo a rischio la stessa sostenibilità dei nostri servizi sanitari. L’uso di combustibili fossili determina l’inquinamento dell’aria che è il maggiore fattore di rischio delle malattie cardiache.
La ricerca scientifica e quella in medicina in particolare, con la raccolta sistematica dei dati, da anni producono evidenze certe del rapporto negativo tra inquinamento dell’aria e la mortalità correlata. Di recente è stato pubblicato sul New England Journal of Medicine un interessante lavoro scientifico che ha preso in considerazione l’inquinamento dell’aria e la mortalità giornaliera in 652 città.
Lo studio ha valutato l’associazione fra il particolato che inaliamo, con un diametro aerodinamico di 10 micrometri (PM 10) e quello ancora più piccolo di 2,5 micrometri (PM 2,5) con la mortalità giornaliera per tutte le cause ed in particolare cardiovascolari e respiratorie raccolte in 24 stati o regioni di sei continenti.
Gli autori pertanto sono giunti alla conclusione che esiste una relazione certa fra cause ed effetti. Il particolato, in conclusione, è una causa indipendente (vuol dire che non ci sono altre cause) della mortalità giornaliera riscontrata.
L’analisi finale ha incluso 56 milioni di morti per tutte le cause, 20,1 milioni di morti per malattie cardiovascolari e 5,6 milioni per malattie respiratorie.
È stata anche calcolata la concentrazione media annuale dei particolati che è stata rispettivamente di 44,3 micro grammi per metro cubo per quello maggiore e 35,6 micro grammi per metro cubo per quello di dimensioni inferiori.
La Sardegna, al di là della posizione geografica, del suo clima e della esposizione a venti di maestrale è interessata profondamente dalla presenza di polveri sottili. In particolare viene valuto il superamento giornaliero del PM 10.
Cagliari, S. S. n. 554, campo nomadi abusivo, incendio di rifiuti (6 novembre 2016)
A Cagliari la soglia di riferimento accettata viene superata in media 49 volte al dì. Cagliari si posiziona al quarto posto dopo Torino (89 volte), Milano (79 volte) e Venezia (63 volte). Abbiamo quindi un problema di salute pubblica che non interessa alcune zone della città, ma la città nel suo complesso perché queste polveri formano come una cappa che la avvolge.
Da anni la comunità scientifica conduce importanti ricerche che hanno lo scopo di studiare la relazione fra l’inquinamento atmosferico e la mortalità.
In questi ultimi dieci anni numerosi singoli lavori hanno interessato l’Europa, gli Stati Uniti, l’America del Sud.
Il lavoro scientifico citato, invece, ha preso in considerazione l’Asia orientale, l’Europa, il nord America e numerose città dell’America Latina e dell’Africa ed è stato principalmente sostenuto dal “National Natural Science Foundation of China”.
Per noi medici e per chi si occupa di ricerca scientifica non è una novità.
La Cina da molti anni sta investendo importanti risorse per promuovere l’educazione avanzata i tutti i settori della società perché la scienza ha un valore prioritario per lo sviluppo della società. La Cina nel 2017 ha investito in ricerca e sviluppo 443 miliardi di dollari, solo 40 miliardi meno degli Stati Uniti. Nel 2018 le pubblicazioni scientifiche della Cina hanno superato quelle di qualunque altro paese al mondo. I settori avanzati sono l’informatica, la fisica e l’intelligenza artificiale.
Il filone di ricerca biomedica dal quale siamo partiti è importante per tutti noi, ma soprattutto per la Cina per la frequenza molto alta di patologie cardiovascolari, respiratorie e di tumori in gran parte correlati agli altissimi livelli di inquinamento dell’atmosfera.
L’apporto della Cina e dei suoi milioni di ricercatori e scienziati darà un grandissima spinta al miglioramento della conoscenza e del progresso dell’intero pianeta. Cosa deve farci capire tutto ciò? Che il mondo sta cambiando e dovremmo guardare con più attenzione alla Cina. Ma è necessario che anche noi investiamo nelle persone, nell’educazione, nella ricerca e nella nostra identità senza aver paura.