venerdì 31 gennaio 2020

Scommettere sul petrolio - Comboniani brasiliani


Alla fine di un’accurata serie di esami clinici, gli fu diagnosticato un diabete molto forte. Ricevere il referto dai medici, in ospedale, lo lasciò in stato di shock. Nel cammino verso casa, un’altra notizia inattesa: aveva appena ereditato la gestione della pasticceria più rinomata della città. Può essere una delle metafore per il Brasile, oggi.
L’“eredità” è stata scoperta nel 2006; si è trattato del fatto più importante nella storia dell’industria del petrolio. Un immenso giacimento sottomarino di petrolio, per ottocento chilometri lungo la costa brasiliana, a circa ottomila metri di profondità, al di sotto di uno strato geologico di sale (da qui il nome “pré-sal”).
La quantità reale di oro nero è ancora sconosciutama si calcola che potrà offrire profitti tra i 5 e i 30mila miliardi di dollari (tra 125 e 375 miliardi ogni anno). È una prospettiva che porterebbe il Brasile al livello dell’Arabia Saudita, tra i maggiori produttori del pianeta.
Senza nemmeno conoscerne l’effettiva dimensione, il governo sta già mettendo all’asta il giacimento, al buio, cedendo i diritti di sfruttamento dei prossimi trent’anni e privatizzando così almeno il 95 per cento di questo patrimonio.
Il primo tentativo, per fortuna, è andato a vuoto: un’adesione molto ridotta, probabilmente per il rischio dell’investimento in una prospettiva di forte diminuzione del prezzo del barile di petrolio. Ci può essere, dietro, anche la lobby dei paesi dell’Opec, che non vedono di buon occhio una iniezione massiccia di offerta sul mercato, il che farebbe cadere ancora di più il valore nominale.
Il pré-sal, agli occhi dei vari governi del Brasile, è un’opportunità unica di ricchezza, che potrebbe anche essere investita in sviluppo sociale e qualità di vita della gente. Eppure, sfruttare questo giacimento significherebbe retrocedere su questioni e impegni dibattuti e assunti durante decenni di ricerca e confronto politico per transizioni verso l’energia pulita e contro il riscaldamento globale.
Il sinodo dell’Amazzonia ha preso posizione chiara contro il modello economico estrattivista (leggi anche L’estrattivismo come cultura di Raúl Zibechi), che i vescovi d’America Latina definiscono «un’incontrollabile tendenza a convertire in capitale i beni della natura». Nella Laudato si’, papa Francesco ha dipinto bene il paradosso tra una visione di largo respiro per il bene dell’intera creazione e una politica di corte vedute: «Il dramma di una politica focalizzata sui risultati immediati, sostenuta anche da popolazioni consumiste, rende necessario produrre crescita a breve termine. Rispondendo a interessi elettorali, i governi non si azzardano facilmente a irritare la popolazione con misure che possano intaccare il livello di consumo o mettere a rischio investimenti esteri. La miope costruzione del potere frena l’inserimento dell’agenda ambientale lungimirante all’interno dell’agenda pubblica dei governi. (…) La grandezza politica si mostra quando, in momenti difficili, si opera sulla base di grandi princìpi e pensando al bene comune a lungo termine» (Ls, 178).
L’ambiguità dello sviluppo sfida la politica: non sempre la soluzione più conveniente è il vero bene. Sempre meno il benessere di un popolo e l’inclusione dei più poveri saranno garantiti dall’economia estrattiva.
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Fonte: Nigrizia


giovedì 30 gennaio 2020

5 cose che (forse) non sai sugli oceani - Marica Fachin




Sappiamo più cose sulla Luna che sugli Oceani! Nonostante l’importanza e le dimensioni (copre più del 70% della superficie terrestre), si stima che meno del 10% del Pianeta Blu sia stato esplorato, in particolar modo i fondali e gli abissi, le cui mappe sono meno dettagliate di quelle della Luna, Marte e Venere.
Conoscere l’oceano e mantenerlo in salute, dando modo alle creature marine di prosperare, è fondamentale: questa immensa distesa blu, non è solo meravigliosa, ma è anche una delle soluzioni naturali ai cambiamenti climatici. Se ci prendiamo cura degli oceani, gli oceani si prenderanno cura di noi. 
Gli oceani infatti assorbono sia il calore in eccesso generato dalle nostre emissioni di gas serra, sia l’anidride carbonica stessa, mitigando gli impatti del caos climatico in corso.
Se vuoi saperne di più, ecco per te 5 curiosità sugli Oceani che ti faranno capire quanto sia importante proteggere mari e oceani e come sono minacciati dall’emergenza climatica.

1.    La cacca delle balene ci aiuta contro i cambiamenti climatici
Ebbene sì, gli escrementi di questi pacifici giganti del mare possono mitigare le conseguenze dei cambiamenti climatici, facilitando la crescita del fitoplancton. Questo insieme di organismi vegetali marini, come le alghe ad esempio, assorbe la CO2 in atmosfera, trasformandola in carbonio organico, parte della catena alimentare: a poco a poco parte di questo affonda sul fondali marini, dove rimane sepolto nei sedimenti. Secondo il nostro ultimo rapporto, senza questa naturale “pompa di carbonio” che viene dal mare, le emissioni sarebbero ad oggi il 50% più elevate!

2. L’aumento delle temperature dovuta ai cambiamenti climatici influenza il sesso (e il futuro) delle tartarughe marine
Da quando vengono al mondo, per le tartarughe marine inizia una lotta per la sopravvivenza: tra predatori naturali, pesca distruttiva, inquinamento da plastica, solo 1 uovo su 1.000 diventa un esemplare adulto.

In questo mare magnum di minacce, ecco aggiungersi il cambiamento climatico: oltre all’innalzamento del livello del mare e agli eventi meteorologici estremi che mettono a rischio le spiagge dove nidificano, e all’acidificazione delle acque che causa la perdita delle barriere coralline -fonte di nutrimento per alcune specie di tartarughe-, l’aumento delle temperature dovuto al cambiamento climatico impatta la temperatura della sabbia dove le tartarughe nidificano. In quanto rettili, il calore più o meno forte della sabbia in cui le uova si incubano determina il genere della covata in un nido: gli scienziati prevedono che con una sabbia sempre più calda nasceranno più femmine che maschi, creando una significativa minaccia alla diversità genetica con impatti sulla riproduzione e il futuro delle tartarughe marine.

3. I pesci pagliaccio e gli anemoni hanno un rapporto di reciproco aiuto che i cambiamenti climatici stanno mettendo a rischio
Quella tra i pesci pagliaccio e gli anemoni delle barriere coralline è davvero una relazione perfetta, fatta di supporto e condivisione! Purtroppo, la crisi climatica è un pericolosissimo terzo incomodo che sta portando al declino le barriere coralline, dove questa colorata coppia vive in armonia. L’acidificazione del mare e l’aumento delle temperature provoca il cosiddetto “effetto sbiancante”, che porta alla morte del corallo. Quando un corallo muore, gli anemoni (da cui si stima che il pesce pagliaccio dipenda al 50% per sopravvivere) scompaiono e i pesci pagliaccio, che non hanno capacità di adattarsi velocemente, perdono rifugio e fonte di nutrimento.

4. I beluga dell’Artico sono anche conosciute come canarini di mare
Socievoli e molto intelligenti, le balene bianche beluga sono delle vere cantanti! Emettono infatti delle vocalizzazioni molto simili a un’allegra canzone. La nota stonata? I cambiamenti climatici, che impattano seriamente sul loro habitat: l’Artico. Il  Polo Nord infatti si sta riscaldando al doppio della velocità del resto del Pianeta, con conseguenze gravi su tutto l’ecosistema: se il ghiaccio artico si scioglie, come possono sopravvivere tutti quegli animali che da quello stesso ghiaccio dipendono? Meno ghiaccio significa nuove attività industriali (trivellazioni petrolifere, pesca industriale) e grandi navi/pescherecci che intralciano le rotte migratorie delle balene e depredano il loro habitat. Ma anche una strada aperta a nuovi predatori e ad altri “concorrenti” nella catena alimentare, con i quali iniziare a contendersi gli stock di cibo… Insomma, a causa della crisi climatica,  i beluga sono proprio in un mare di guai!

5. Gli oceani producono il 50% dell’ossigeno che respiriamo
Inspira, espira… Inspira, espira… Ecco, uno di questi due respiri lo hai fatto proprio grazie all’ossigeno prodotto dagli oceani. Si dice che le foreste siano il polmone del mondo, e di fatto è vero, ma forse non sapevi che l’altro polmone è proprio il Pianeta Blu, grazie alla fotosintesi clorofilliana operata dal fitoplancton. Anche questo importantissimo insieme di organismi marini vegetali presenti nel plancton è in pericolo a causa dell’aumento della temperatura e dell’acidificazione delle acque, effetti collaterale dei cambiamenti climatici in corso.

Come avrai capito, la vita non è facile per gli abitanti del mare. L’oceano si sta riscaldando e acidificando a causa del cambiamento climatico: la chimica degli oceani sta cambiando troppo rapidamente rispetto alla loro capacità di adattamento. 
Per proteggere gli oceani, il clima e il nostro futuro, dobbiamo affrontare il problema alla radice. Per questo chiediamo ai governi misure urgenti contro i cambiamenti climatici, che stanno mettendo in ginocchio comunità ed ecosistemi, e ai leader mondiali di sottoscrivere un Accordo Globale per proteggere almeno il 30% degli oceani con una rete di Santuari Marini Protetti, in modo da permettere alla vita marina di prosperare e continuare il suo importante lavoro per la vita di tutto il Pianeta.
Per aiutarci a proteggere gli oceani dagli effetti devastanti dei cambiamenti climatici, fai una donazione sul nostro sito oceani.greenpeace.it. Basta un piccolo contributo di 5€ al mese per sostenere azioni dirette e mobilitazioni globali, ricerche scientifiche e indagini sul campo.
L’emergenza climatica è già in corso e la nostra è l’ultima generazione che può riuscire a fermarla.

venerdì 24 gennaio 2020

Quanto è complicato immaginare il futuro - Annamaria Testa




Ci capita di dover immaginare il futuro molto più spesso di quanto crediamo. E ci riusciamo molto meno bene di quanto pensiamo.
Si tratta di una capacità sofisticata, che ci è altamente utile come individui e come collettività. La pratichiamo ogni volta che prendiamo una decisione le cui conseguenze si manifesteranno nel tempo: dal pianificare le vacanze al decidere di sposarci o di cambiare lavoro, dal fare la spesa al mercato (che cos’altro mi servirà, oltre a uova cavoli e formaggio?), al sottoscrivere una proposta di investimento.
Questa stessa capacità la praticano i governi e le istituzioni quando compiono scelte di politica estera, economica, sociale, e le aziende quando stabiliscono una strategia di mercato. Ma, poiché governi, istituzioni e aziende sono guidati da esseri umani, i meccanismi che entrano in gioco non sono troppo diversi. Tra qualche decina d’anni, con la diffusione degli algoritmi che già sono molto presenti nei mercati finanziari, forse le cose cambieranno in modo radicale.
Ho scritto forse, perché anche quella che riguarda la diffusione degli algoritmi è una previsione sul futuro. E, dicevamo, immaginare bene il futuro non è così semplice. I motivi sono diversi, tutti interessanti. Conoscerli può aiutarci a prendere meglio le misure.
In primo luogo: oggi le neuroscienze ci confermano che le strutture neurali coinvolte nel ricordare e nel prevedere sono sostanzialmente le stesse.
Usiamo sempre le nostre memorie del passato quando ci tocca immaginare il futuro
Il legame strettissimo tra capacità di immaginare il futuro e memoria è confermato da un’evidenza inequivocabile: i pazienti che soffrono di amnesia e che, in seguito a un danno cerebrale, non riescono a ricordare il passato, non sono nemmeno in grado di immaginare, in qualsiasi forma, il futuro.
In sostanza, noi usiamo sempre le nostre memorie del passato quando ci tocca immaginare il futuro. Sembra paradossale, ma sono l’unica risorsa di cui disponiamo.
Così, immaginiamo quel che domani succederà in ufficio o a scuola a partire da ciò che è successo oggi, ieri e l’altro ieri. Quello che ci viene in mente, però, è un futuro che, proprio perché non è altro che una proiezione del passato, non cambia e non contempla mai nulla di totalmente inedito.

Due errori in un colpo solo
Compiamo un’operazione simile anche quando immaginiamo eventi futuri che non hanno analogie con nostre precedenti esperienze dirette, o che sono spostati molto avanti nel tempo: disponiamo i pezzi d’informazione che possediamo oggi (racconti altrui, dati e statistiche, memorie scolastiche, cronaca, fiction televisive…) in un puzzle pieno di spazi vuoti, e le cui tessere stanno insieme in modo approssimativo.
In teoria, più cose sappiamo, meno buchi ci sono, ma in pratica ci si mette di mezzo la sicumera (ne riparliamo tra qualche riga) e le cose non vanno granché bene.
Tra l’altro: così come ricordiamo più nettamente accadimenti del passato prossimo, sappiamo anche costruirci immagini più dettagliate del futuro prossimo. Quando ci allontaniamo nel tempo, in direzione o del passato o del futuro, tutto ci appare via via più sfuocato.
Non ci accorgiamo dei cambiamenti in peggio che possono riguardare il clima politico, i diritti civili, il rischio climatico o una relazione tossica
“È difficile fare previsioni, soprattutto sul futuro”, dice il Nobel danese per la fisica Niels Bohr. Come capita spesso agli aforismi più suggestivi, l’affermazione è attribuita non solo a lui.
Un altro motivo per cui è difficile immaginare il futuro è che sottovalutiamo il compito: in sostanza, non ci rendiamo conto di quanto sia complesso e difficile.
Per esempio, siamo sempre convinti che le cose che si sono verificate in passato, specie se si tratta di eventi negativi, fossero altamente prevedibili. È il bias del “senno di poi”(hindsight bias).
bias sono modi di pensare ingannevoli perché fondati su percezioni sbagliate. Nel caso del senno di poi, cercando a posteriori le cause di un evento che si è effettivamente verificato, noi oggi individuiamo molto più facilmente gli indizi premonitori, trascurando l’enorme quantità di dati tra i quali quegli indizi ieri se ne stavano nascosti. Quindi, facciamo due errori in un colpo solo: consideriamo che prevedere il futuro fosse facile, e restiamo convinti che continuerà a esserlo.

Le rane in salvo
E ancora. Tendiamo a sottovalutare l’impatto futuro dei cambiamenti che avvengono gradualmente. Tutto ciò ricorda la storia della rana che, messa in una pentola d’acqua fredda scaldata molto lentamente, non si accorge dell’aumento di temperatura e finisce bollita (in realtà, le rane vere saltano via e si mettono in salvo se tentiamo di bollirle).
Noi invece non ci accorgiamo, a patto che siano lenti, dei cambiamenti in peggio che possono riguardare il clima politico, i diritti civili, il rischio climatico o una relazione tossica.
E ancora. Tendiamo a sopravvalutare rischi immediati e facili di ricordare, anche se improbabili e a sottovalutare rischi più complessi, lontani nel tempo ma altamente probabili. Tendiamo anche a ritenere che i nostri gusti, le nostre propensioni e i nostri criteri di scelta in futuro resteranno identici a quelli d’oggi, perfino se siamo consapevoli di aver avuto altri gusti e altri criteri di scelta in passato. Infine tendiamo, in generale, a essere troppo ottimisti (per esempio, sui tempi necessari a ultimare un progetto e sui suoi costi).
E poi c’è la sicumera (overconfidence). È un’altra fallacia cognitiva, che porta chi si ritiene esperto o competente a essere troppo fiducioso in se stesso e troppo poco accurato nei suoi giudizi e nelle sue previsioni. Se volete divertirvi, date un’occhiata a questo elenco di previsioni sbagliate nei secoli, dalla scoperta dell’America al lancio dell’iPhone.

mercoledì 22 gennaio 2020

La gioiosa e irriverente anarchia dell’infanzia - Franco Lorenzoni




Nel mio lavoro con i bambini, soprattutto i più piccoli, prima o poi affiora il tema della paura. Qualunque storia, percorso, esperienza avventurosa io decida di condividere con loro nei laboratori, è come se presto o tardi i bambini mi chiedessero di essere messi nelle condizioni di superarsi in quello che certo essi vivono come un loro limite, qualcosa che li sopraffà e talora li paralizza, qualcosa che non si sentono pronti ad affrontare, ma che al contempo desiderano profondamente affrontare. Che valore ha quest’incontro con la paura nel processo educativo? Come può l’adulto accompagnare e custodire quest’esperienza, che è spesso nella vita un’esperienza solitaria?

Nora Giacobini, un’insegnante del Movimento di Cooperazione Educativa con cui ho avuto la fortuna di vivere a lungo a Cenci, molti anni fa arrivò trafelata a un nostro laboratorio esclamando: “Ho capito l’origine della catastrofe nella scuola!”. Poi, di fronte a noi che la guardavamo stupiti, ha cominciato a srotolare alcune carte che aveva con sé e ci ha mostrato la riproduzione di un documento che proveniva dall’antica Mesopotamia, in cui a ogni errore dell’allievo corrispondeva una punizione corporale. “Così è la scuola. Così è sempre stata la scuola – aggiunse desolata – l’unica possibilità sta nel tornare all’iniziazione”.
Mi è tornata in mente questa sua intuizione perché ciò che tu racconti riguardo alla relazione dei bambini con la paura ha il sapore dell’iniziazione, che è esperienza che dovremmo tornare a prendere molto sul serio. Credo che nuoccia assai e bambine e bambini, infatti, non avere la possibilità di affrontare prove in cui siano, al tempo stesso, soli e protetti. Potere sperimentare la concretezza delle proprie paure con il corpo, mettendosi in gioco tutti interi, apre a una relazione profonda con se stessi, oggi sempre più rara e negata all’infanzia. Quando l’estate nelle settimane del “villaggio educativo” proponiamo a Cenci, anche a bambini piccoli, di vegliare per un’ora il fuoco da soli nel cuore della notte, cerchiamo di offrire una possibilità di incontro con i propri limiti e le proprie paure non stando chiusi della propria stanza o persi nella propria immaginazione, ma avendo la possibilità si sentire il proprio corpo immerso nella vastità del cosmo, in contatto con alberi e stelle, fuoco e umidità della notte. Qualcuno riesce a stare quell’ora da solo, qualcuno ha bisogno di condividere l’esperienza con una compagna o compagno, qualcuno sceglie il tempo dell’alba, sentendosi più sicuro nelle ore in cui si scioglie l’oscurità della notte. Nel bosco e in certe pratiche teatrali accade lo stesso. Lo spazio in continuo movimento, abitato da alberi o dai corpi dei compagni, ci mette alla prova silenziosamente domandandoci con forza: “Ci sei? Dove sei?”.
Quella domanda di attenzione e presenza non sei tu adulto che proponi a sollecitarla, ma viene dal contesto. E questo è importante perché nell’azione educativa credo che chi guida debba provare a stare il meno possibile davanti e piuttosto porsi a fianco, o ancor meglio dietro a chi compie l’esperienza, per dargli la possibilità di scegliere lui la strada.
Ci sono temi molto duri, immagini profondamente adulte che spesso è necessario proporre ai bambini. Hanno a che fare con la complessità del nostro mondo, con il passato e con il presente e talvolta con il futuro. Col loro giovane e incuriosito sentimento della Storia. Un giorno una bambina parlando mi ha detto che per lei la Storia era “qualcuno o qualcosa di difficile da capire, qualcosa che si legge nel pensiero”. Come affronti coi bambini e coi ragazzi i temi più difficili, quelli che riguardano da vicino le nostre vite, come le migrazioni dei popoli, l’ecosistema che tracolla, temi che anche per noi adulti sono complessi e spesso spaventosi?
Credo che noi adulti dobbiamo assumerci la responsabilità di parlare di tutto con i bambini, a partire dalle immagini di guerre, stragi e naufragi, che attraverso televisione e computer sono continuamente alla portata dei loro sguardi ed entrano a far parte del loro immaginario. Ma per arrivare a incontrare la storia dobbiamo compiere lunghe manovre di avvicinamento che mettano in grado bambine e bambini, ragazze e ragazzi di confrontarsi con questioni grandi e domande legittime, a cui spesso non corrispondono risposte univoche.
Il grande nemico della conoscenza e dell’intelligenza oggi è la semplificazione, sono i tweet che erodono il pensiero lento, l’approfondimento, la capacità di dialogare e di sostare attorno a domande aperte.
Qualche anno fa, in quinta elementare, nel corso di una lunga ricerca attorno a “La scuola di Atene”, i bambini si sono chiesti come faceva Raffaello a immaginare i volti di filosofi e scienziati, visto che al tempo non c’erano fotografie. Quando ho raccontato loro che Raffaello aveva dato a Platone le sembianze di Leonardo, perché per lui quello era il volto del più grande maestro avesse incontrato, sono nate interessanti discussioni riguardo al fatto che noi non possiamo immaginare il passato se non partendo dal presente.
Lo scorso anno, leggendo e rileggendo in classe le cinque folgoranti righe con cui Erodoto dà avvio alle sue “Storie”, i bambini sono stati molto colpiti dalla sua scelta di voler dare dignità e memoria sia ai greci che ai barbari e dal suo domandarsi “la ragione per cui essi vennero in guerra tra loro”. Il giorno dopo Emilia è arrivata in classe trafelata e ci ha rivelato di aver capito il perché. Aveva infatti scoperto su wikipedia che Erodoto era figlio di una greca e di un persiano. Siamo stati così tutti felici di scoprire che la storia è nata dalla curiosità e dall’immaginazione di un sangue misto, dalla sensibilità di uno che è nato meticcio come Emilia, che è figlia di un uruguaiano e di una belga.
A Erodoto, alla fine dell’anno Maia ha scritto una lettera: «Secondo me hai fatto una delle invenzioni più utili di tutte: la Storia! Senza la storia come avrebbe fatto Martin Luther King a sapere di Gandhi e della nonviolenza e quindi fare come lui? E noi? Noi come avremmo fatto a sapere di tutti voi? Ipazia, nessuno saprebbe chi era…».
Ecco, quando la storia diventa luogo di connessioni inaspettate apre la mente e non può non appassionare ragazze e ragazzi.

Nel tuo I bambini ci guardano leggo: «Chi educa, infatti, penso che debba evitare il più possibile di percorrere vie troppo dritte, veloci e già tracciate. Debba stare alla larga dalle scorciatoie e in particolare dalla più pericolosa, che sta nel pensare che le nostre conoscenze ed idee possano essere trasmesse e magari inculcate così come sono nelle menti di bambine e bambini».
Spesso coi bambini, ma anche con gli adulti, rifletto sull’idea di trasmissione, senza mai sentirmi portata a condurre qualcuno in questo tipo di processo. Fatico a pensarmi capace di insegnare le mie tecniche d’attore o di scrittura ad esempio, e ancor più le piccole strategie personali che ho trovato negli anni per scatenare e poi mettere a freno la mia immaginazione. Mi pare sempre di potere solo appoggiare una o più piccole chiavi nelle mani di chi incontro, forse apriranno qualche porta del loro cammino futuro, forse no. Cosa è davvero trasmissibile in un processo educativo? Cosa si può condividere davvero?
Credo che dobbiamo tenere sempre presente che il nostro corpo, i nostri atteggiamenti e comportamenti, i nostri sguardi e il nostro modo di porci arrivino ai nostri allievi prima e molto di più delle parole. Essere consapevoli di quanto conti l’esempio è molto importante anche se, naturalmente, tutto ciò pone questioni assai complesse, perché è assi difficile essere davvero coerenti e molto spesso vorremmo essere come non siamo. O, almeno, a me capita assai di frequente di misurare incoerenze e limiti nel mio operare. La mia idea è che la cultura è relazione, sempre. Solo relazione. Non credo sia dunque possibile alcuna condivisione di conoscenze se non ci mettiamo in gioco. Anni fa Marianna, dopo una lunga ricerca attorno a “La scuola di Atene”, durata diversi mesi in quinta elementare, ha detto: “Raffaello ha fatto veri i filosofi per metà, noi per l’altra metà”. Questa frase per me è stata illuminante, perché indicava con chiarezza l’ostacolo che incontra ogni tentativo di “trasmissione” delle conoscenze. Se chi entra in contatto con una pittura, un racconto o un teorema non sente il diritto e la possibilità di “farlo vero per metà”, cioè di interpretarlo a modo suo, traducendolo nel modo unico e irriducibile con cui lei o lui può far proprio quella conoscenza, quella questione o elemento culturale resterà distante, inerte, morto. L’oggetto, che può essere una musica, una poesia o un gesto teatrale, io lo posso incorporare e fare mio solo se si innesta nel mio corpo e trova il modo di intrecciarsi con la mia sensibilità. Per questo i processi e i percorsi di apprendimento devono essere lenti. Per dare a ciascuno il tempo di compiere questo complesso processo alchemico di trasformazione che permetta un incontro autentico. Se questo processo la viviamo nella scuola, c’è un altro elemento fondamentale da considerare. Quell’incontro, infatti, può e deve essere sostenuto dagli altri e condiviso nel gruppo classe. Se osserviamo ed entriamo in relazione con compagne e compagni che stanno compiendo il medesimo sforzo, ecco che si realizza una sorta di triangolazione in cui a un polo c’è l’oggetto di conoscenza, a un altro polo chi insegna, e a un altro polo ancora tutti coloro che partecipano all’impegnativo e faticoso processo di apprendimento, moltiplicando la possibilità di ciascuno di entrare in una relazione più ricca con la conoscenza. Se io leggo un racconto di Anton Čechov con te e ne parliamo, ne discutiamo, ascoltiamo reciprocamente ciò che quel racconto ha suscitato a me e a te, alla fine io conosco un po’ di più Čechov, perché l’ho incontrato anche attraverso la tua sensibilità e la tua cultura, e conosco qualcosa di più di te, perché Čechov mi ha permesso di incontrare qualcosa di te che non conoscevo. Se tutto ciò accade in gruppo, ancora maggiore è la possibilità di intendere un testo, un autore o una questione controversa, perché la posso esaminare giovandomi dei nostri punti di vista differenti. È in una rete viva di relazioni che si possono dunque moltiplicare le curiosità culturali e reciproche, che vanno sempre suscitate e alimentate.
Il teatro, da questo punto di vista, è terreno di sperimentazione privilegiato, perché richiede in ogni momento del processo creativo, una ricerca necessariamente collettiva.
Lavorando coi bambini piccolissimi, di due o tre anni incontro il loro linguaggio nella fase in cui inizia ad agglomerarsi in parole, piccoli sintagmi, a volte solo grappoli sonori tutti da decifrare. Mi misuro col silenzio e con le esplosioni di questo loro linguaggio in divenire sempre con grande ammirazione e stupore. Lo stupore per il linguaggio continua poi anche nell’incontro con i bambini più grandi, con gli adolescenti. I vocabolari aprono in me sempre domande molto precise sui loro mondi, ma anche sui procedimenti del loro pensiero e delle loro emozioni che a volte procedono per salti repentini e apparentemente irrazionali, ma che quasi sempre sottendono una logica molto sottile. Come lavori tu con il linguaggio coi tuoi bambini/ragazzi?
Sinceramente non lo so. Ho un approccio pratico alle cose che faccio e spesso capisco solo dopo ciò che è accaduto, se è accaduto qualcosa, sempre che io sia riuscito a capire qualcosa… Diciamo che, mettendo al centro di ogni azione educativa il dialogo e un continuo discutere su tutto, noi siamo in qualche modo sempre immersi nel linguaggio. Ciò che mi sforzo di fare, e non sempre ci riesco, sta nel dare dignità ai pensieri di tutti, anche di coloro che fanno più fatica ad esprimersi, i cui pensieri emergono poco a poco, talvolta a stento, rischiando di essere sopraffatti dai ragionamenti dei più forti. In questa immersione cerco di dare grande valore alle parole, invitando a soffermandoci sulle espressioni più felici o quelle più complesse. Un modo di moltiplicare le domande parte proprio da un’attenzione al linguaggio, dal peso che possiamo dare a certe immagini e metafore che sorgono spontanee nei ragionamenti di bambine e bambini. È un modo di operare che sperimento da quarant’anni, perché l’ho appreso nei laboratori del Movimento di Cooperazione Educativa, che ho avuto la fortuna di frequentare dal 1977, l’anno prima che cominciassi a insegnare. Registrare e restituire ogni volta a bambine e bambini le trascrizioni dei dialoghi è il modo più tangibile ed evidente per dire: “ti ho ascoltato, ciò che hai detto è importante per me e può esserlo per tutti noi”. La trascrizione dei dialoghi, oltre a restituirli ai bambini perché possano tornarci su, è un materiale prezioso per noi che educhiamo.
Spesso coi bambini rifletto sulle regole del nostro gioco teatrale. Chiedo: chi le ha decise queste regole? Possiamo cambiarle? La risposta alla prima domanda può essere: “tu”, oppure “erano già così da prima”, oppure “non lo so”. Alla seconda solitamente resistono e se acconsentono a modificare la regola, sempre sacra, è solo a patto che “poi ci si diverta di più e che tutti siamo d’accordo”. Mi colpisce sempre questa resistenza all’innovazione della regola e anche la condizione comunitaria che essi pongono, ma se ci penso bene questo è anche il metodo che da quando ho iniziato, da ragazzina, a far teatro applico a tutti i miei spettacoli. Che rapporto esiste tra regole e libertà nel tuo percorso coi bambini?
Sono profondamente convinto che in molti momenti si debba rispettare il più possibile la gioiosa e irriverente anarchia dell’infanzia, che si esprime in tanti giochi spontanei che partono dal corpo in movimento ed è fonte di molteplici conoscenze. L’irrefrenabile energia cantata da Elsa Morante ne Il mondo salvato dai ragazzini, per intendersi. Eppure, perché questa esplosione di vitalità non diventi luogo di prepotenza e prevaricazione, perché non vinca la legge del più forte, c’è bisogno di un contesto in cui valgano regole capaci di contrastare ogni forma di discriminazione, proteggano i più fragili, e siano in grado di delineare i contorni di un mondo – magari provvisorio – in cui ci sia spazio per la libera espressione di tutti. Il nodo di ogni regola democratica credo stia nella parola “tutti”, che Aldo Capitini, il più grande educatore nonviolento del nostro paese, considerava una parola sacra. Nel nostro ruolo di educatrici ed educatori in ogni campo, credo che ci dobbiamo fare carico dell’inevitabile tensione tra il diritto alla massima libertà d’espressione e la possibilità che tutti, proprio tutti, ciascuno con il proprio carattere e temperamento, possano sperimentarla.
Per questo ci devono essere principi rigorosi, che è bene avere chiari e a cui dobbiamo sempre ritornare, mentre le regole credo che vadano stabilite il più possibile insieme mediando, contrattando, perché tutti se ne sentano responsabili. E riguardo alle regole credo che dobbiamo avere sempre l’attenzione, la duttilità e la capacità di mutarle in mutate condizioni.
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Questa conversazione di Chiara Lagani, drammaturga e attrice, con Franco Lorenzoni è stata pubblicata in La stagione dei teatri di Ravenna teatro.


domenica 19 gennaio 2020

Le mille luci di Shanghai - Annamaria Testa (7)




Continua il racconto di un viaggio intorno al mondo che ho di recente fatto con mio figlio.

È strano il modo in cui, con il tempo, certi ricordi sembrano diventare non più sfuocati, ma più nitidi. Come se il fluire degli anni togliesse tutti i dettagli irrilevanti, e lasciasse solo un’immagine stilizzata incisa nella memoria.
Ecco: nei ricordi del viaggio che ho fatto a Shanghai nel 2005 ci sono due immagini essenziali, nettissime. Smetto di scrivere, frugo nel disordinato archivio delle foto e trovo proprio quello che mi ero stampata in mente. Ma, nella mia memoria, dentro alla scena ci sono anch’io.
La prima immagine è notturna: sono in mezzo a una gran folla che preme da tutte le parti, e c’è un abbacinante muro di luci al neon i cui colori acidi riverberano all’infinito sulle facce delle persone e sui loro vestiti. Mi sento spaesata come mai mi era successo prima.
La seconda immagine è colorata di tinte chiarissime. È il quartiere di Pudong, con la sagoma della torre Oriental Pearl che si staglia iridescente tra l’acqua e il cielo. Fa un caldo feroce, ma non ho mai visto niente del genere e sono incantata: è come se mi fossi tuffata dentro un fumetto di Moebius, e provassi ancora tutta la vertigine del tuffo.
Certo: se rivedessi oggi la Shanghai del 2005 di sicuro non mi farebbe la stessa folgorante impressione. Ma il fatto è che adesso sto vedendo la Shanghai del 2019. Che mi dà il medesimo brivido di futuro che ho sperimentato quattordici anni fa. Per raccontare bene perché, però, prima devo aggiungere alcune (assai sbrigative!) righe di coordinate storico-geografiche, indispensabili per orientarsi.
Dunque.
Shanghai è già una città importante alla metà dell’otttocento, ed è sede di insediamenti commerciali britannici, francesi e americani: sono le concessioni strappate al governo cinese, sconfitto nella prima guerra dell’oppio.
Negli anni trenta è la quinta città più popolata del mondo, e il principale centro commerciale e finanziario dell’Asia: è un posto dove emigra un sacco di gente (ci abitano 70mila stranieri) e dove si può sul serio diventare ricchi. Poi arrivano la guerra e l’occupazione giapponese.
Tutto cambia ancora nel 1949, quando l’esercito di liberazione della Repubblica popolare cinese occupa la città. Negli anni seguenti quasi tutte le aziende internazionali spostano la loro sede da lì a Hong Kong. Torneranno solo nel 1990, quando la riforma economica di Deng Xiaoping aprirà nuovamente la città ai capitali esteri.
Shanghai si trova sulla costa. Occupa una penisola sul delta del Chang Jiang (fiume Azzurro), il più lungo della Cina. L’attuale centro di Shanghai è attraversato dal fiume Huangpu (un affluente del fiume Azzurro) che separa i distretti di Puxi (a ovest) e di Pudong (a est).
Oggi, con 24 e rotti milioni di abitanti, Shanghai è la più popolosa megalopoli al mondo, e il suo porto è il più trafficato del mondo.
Nei decenni passati la città si è sviluppata soprattutto nel distretto di Puxi, dove si trovano anche tutti gli insediamenti storici. Il distretto di Pudong è rimasto una periferia piuttosto squallida fino a quando, nel 1990, non si è deciso di trasformarla in un nuovo polo di attrazione per gli affari e la finanza. L’operazione riesce perfettamente: la crescita dell’area è vertiginosa e il valore economico sviluppato da Pudong nel 2018 è 165 volte il valore del 1990.
La Oriental Pearl, la torre televisiva di Shanghai che tanto mi ha incantata la prima volta che l’ho vista, è stata costruita tra il 1991 e il 1995. Continua a essere un edificio unico e sorprendente. Di notte, cambia continuamente colore, e giuro che l’effetto non è kitsch, ma incantevole. Oggi è l’icona di Shanghai, così come la torre Eiffel è l’icona di Parigi.
Quando l’ho vista per la prima volta, però, lì intorno c’era solo un altro grattacielo: la torre Jin Mao. Nel 2008 è stato completato il World financial center, soprannominato l’apribottiglie per via della forma piatta e dell’apertura rettangolare alla sommità. È stata invece completata nel 2014, e aperta al pubblico nel 2016, la torre Shanghai. È il grattacielo più alto della Cina, il secondo al mondo, e non è facile vederlo tutto quanto perché la sommità spesso sparisce tra le nuvole o si perde nella foschia.
L’intero comprensorio si è riempito di altri edifici altissimi e scintillanti. Un bel time lapse dell’Atlantic può darvi un’idea immediata di quanto è successo.
Nuvole permettendo, dalla sommità della Shanghai tower si può vedere un magnifico panorama della città. Ci saliamo al tramonto. L’ascensore va su velocissimo (viaggia a 65 chilometri all’ora) e sale per oltre 600 metri in un batter d’occhio, ma l’effetto dell’accelerazione è quasi impercettibile. Il belvedere è gremito di gente che chiacchiera, beve, si fa selfie, manda messaggi e sì, ogni tanto guarda anche la città illuminata, bellissima al di là delle vetrate. Per avvicinarsi e guardare fuori c’è da sgomitare.
Costruire grattacieli a Shanghai è un problema non banale. Siamo sul delta di un fiume (il terreno è alluvionale e instabile). L’area è percorsa da tifoni che portano con sé piogge e venti fortissimi, mettendo a dura prova gli edifici più alti. E anche se non siamo esattamente in una zona sismica bisogna comunque tener conto dei terremoti. Queste condizioni avverse costituiscono un motivo in più di meraviglia per chi osserva i grattacieli di Shanghai.
Tuttavia, la cosa che più mi colpisce di Pudong com’è oggi è tutto ciò che si vede ai piedi dei grattacieli. Uno pensa: la folla, il traffico, no?
E invece tra un grattacielo e l’altro si vedono ampi passaggi pedonali sopraelevati. E una insospettabile quantità di verde. Dal centro del distretto finanziario si può arrivare a piedi fino alla riva del fiume, camminando all’altezza delle cime degli alberi e sopra il traffico che scorre silenzioso.
Il motivo di tutto quel verde non è solo estetico, e non riguarda nemmeno solo la qualità dell’aria o il contrasto al riscaldamento globale. Il governo considera i parchi e le aree alberate come parte integrante dell’infrastruttura urbana, con l’obiettivo dichiarato di rendere Pudong non solo economicamente, ma anche emotivamente attraente per i migliori talenti del paese e del mondo. Senza contare che il verde accresce in modo significativo, con la qualità della vita dei residenti, anche il valore degli uffici e delle abitazioni
A Pudong, usciamo a cena con un altro amico cinese che mio figlio ha conosciuto negli Stati Uniti. Ci incontriamo in un enorme ristorante a prezzo fisso. È all’interno dell’ennesimo shopping mall lussuoso, luccicante, traboccante di marchi della moda, ed è proprio di fronte al grattacielo in cui lui lavora da qualche mese come analista finanziario. Arriva trafelato, ma inappuntabile in giacca e cravatta.
È gentile e un po’ formale. Mi spiega che viene da una piccola cittadina cinese (solo un milione di abitanti, dice). Il fatto che lui abbia trovato lavoro a Pudong ha reso orgogliosa la sua famiglia, ma le cose sono meno semplici di come lui racconta a casa. La vita è carissima e lui deve stare molto, molto attento a capire le dinamiche dell’ufficio, quelle palesi e quelle implicite, e a non fare errori. Gli errori non sono tollerati, dice.
Finiamo di cenare presto: lui ha trovato una casa a prezzi accessibili solo in un’estrema periferia, e per rientrare dovrà farsi quasi un’ora di metropolitana.
Lo rivediamo prima di partire: si presenta con un’enorme confezione rossa e dorata di mooncake, un dolce tradizionale e beneaugurante che si mangia in autunno. I dolci della luna sono connessi con la leggenda di un amore eroico e infelice, che lui ci racconta. E io mi intenerisco per questo giovane timido e cerimonioso, solo in una città enorme, tutto teso a non deludere la sua famiglia, e che racconta storie d’amore.
Noi ovviamente non giriamo solo per Pudong. Il fiume si attraversa facilmente in metropolitana (evitiamo lo stucchevole sottopassaggio pedonale, turistico e pieno di luci, con carissimo ingresso a pagamento). La metropolitana è economica, capillare, linda, affollata (nelle ore di punta, spintonarsi per entrare nelle carrozze è la regola). In ciascuna carrozza si trova uno schermo che a ciclo continuo rimanda immagini di inaugurazioni, celebrazioni, bambini sorridenti e folle che cantano e agitano la bandiera rossa della Repubblica popolare cinese.
Nel distretto di Puxi c’è il Bund, con i solenni edifici del primo novecento e la vista di Pudong più nota. Basta affacciarsi al parapetto che dà sul fiume per trovarsi con il passato alle spalle e il futuro davanti agli occhi.
A proposito di cambiamenti: camminando lungo il Bund nei giardini che si snodano poco oltre il monumento a Mao Zedong (più che scrutare l’orizzonte sembra sorvegliare che i passanti si comportino bene) intercetto un’immagine che mi sembra esemplare.
Un uomo e una donna affiancati guardano ciascuno il suo telefono cellulare, e poco distante un’anziana signora prega a mani giunte, con un libro aperto sulle ginocchia. Sono tutti ugualmente assorti, ciascuno nella sua vecchia, o nuova, religione.
Vediamo i templi, e il gremitissimo giardino del mandarino Yu. Ci inoltriamo per Nanjing road, che di notte è ancora più illuminata di come la ricordavo. Ogni due passi c’è qualcuno che ci offre di comprare un orologio falso. Andiamo nell’enorme piazza del Popolo, in un angolo del cui parco si tiene ogni fine settimana il mercato dei matrimoni: nonni e genitori cercano sposi per i loro figli single, esponendone sintetiche biografie con peso, altezza, istruzione, reddito.
Ci spingiamo (mezz’ora di metropolitana) fino a un remoto sobborgo per trovare una lavanderia e fare il bucato. E andiamo a vedere Zhujiajiao, una piccola città d’acqua poco distante da Shanghai: canali, ponti di pietra, edifici centenari affacciati sull’acqua.
Anche lì la pressione turistica dev’essere alta: un cartello all’ingresso avverte che in città non sono ammessi più di 33.784 visitatori al giorno, e non più di 14.077 visitatori in contemporanea. Per fortuna siamo arrivati in una mattinata di scarso flusso, ma mi chiedo quale strana cabala stia dietro quei numeri così esatti.
Dicevo che, della mia visita precedente ho un altro ricordo netto, che però riguarda una sensazione fisica: un caldo brutale, intollerabile, che non ti lascia scampo. Così, in un pomeriggio torrido ci ripariamo nel più noto dei tanti mercati dei falsi, vicino al Science and technology museum, giusto per vedere com’è.
All’uscita della metropolitana, e senza nemmeno dover risalire al livello della strada, ci troviamo in un labirinto di negozietti che vendono occhiali, borse, maglie delle squadre di calcio, scarpe, abiti, telefoni cellulari, valigie. È tutto sottoterra e, sarà per via dei neon che danno a ogni cosa una vibrazione livida, sarà per l’odore di cibo, sarà perché non siamo così interessati alle merci esposte, dopo poco ce ne usciamo con un certo sollievo.
C’è invece un angolo di Shanghai divertente e vitale e che – forse perché è stato ripulito sì, ma non troppo – nonostante l’impatto turistico riesce a conservare una dose d’anima.
Il posto si chiama Tianzi Fang, ed è all’interno della concessione francese. Lì si trovano ancora case di pietra degli anni trenta, edificate nello stile Shikumen, che mescola elementi cinesi e occidentali ed è tanto tipico per Shanghai quanto gli hutong lo sono per Pechino.
Ci arriviamo di sera, a piedi e in maniera un po’ fortunosa perché l’ingresso all’area non è per nulla evidente. Il posto è un’infilata di strade strettissime e cortili uno dentro l’altro, e una festa di luci. Mangiamo una ciotola di noodles in brodo, fatti al momento e piccanti, in un ristorante così minuscolo che ci stanno solo tre tavoli, il bancone e l’accrocco per fare i noodles, affacciato sulla strada.
A un banchetto di dolci, e dopo averne assaggiati svariati, ci compriamo un cartoccio di torroncini alla rosa. E poi andiamo a perderci tra le luci.

giovedì 16 gennaio 2020

Tartarughe in viaggio: ecco perché dobbiamo proteggere gli oceani!





…Le tartarughe marine sono solite migrare per migliaia di chilometri attraverso i mari per spostarsi tra le spiagge dove nidificano, le aree dove si accoppiano e quelle più ricche di cibo per alimentarsi.
Nello studio “Turtles Under Threat” abbiamo tracciato le migrazioni delle tartarughe liuto, la specie di tartarughe più grande al mondo, dalle aree di riproduzione in Guyaiana francese. I risultati, lanciati oggi, rivelano uno scenario piuttosto allarmante: il numero di uova deposte dalle tartarughe marine sulle spiagge della Guyana francese rispetto agli anni Novanta è diminuito di circa 100 volte, con meno di 200 nidi per stagione, rispetto ai 50 mila di allora.
A causa dei cambiamenti climatici, infatti, le tartarughe devono viaggiare quasi il doppio per raggiungere le aree dove si alimentano e consumano una gran quantità di energia. Questo ha impatti gravissimi sulla loro già ridotta capacità di deporre uova.

Un mare di pericoli per le tartarughe marine
Non solo caccia. Negli ultimi 500 anni le popolazioni di tartarughe marine si sono fortemente ridotte in un mondo sempre più minacciato dalle attività umane, in primis:
  1. cambiamenti climatici
  2. la pesca industriale
  3. l’urbanizzazione costiera
  4. l’inquinamento da plastica
  5.  
Serve un Accordo Globale per proteggere gli oceani
La comunità scientifica è concorde che solo tutelando almeno il 30% della superficie marina con una rete di Santuari marini entro il 2030, possiamo permettere alla vita marina di recuperarsi e sopravvivere. Sei delle sette specie di tartarughe marine sono minacciate di estinzione e senza un’azione urgente la situazione è destinata a peggiorare.
Non possiamo più perdere tempo.
Quest’anno si concluderanno le negoziazioni alle Nazioni Unite per un Accordo Globale per gli oceani. Noi chiediamo che l’Italia, ad oggi assente dalle negoziazioni internazionali, assuma invece una posizione forte a tutela degli oceani.
I nostri oceani hanno bisogno di un Accordo Globale, firmato da tutti i governi del mondo, che metta le basi di una reale protezione degli oceani.
Sono felice di dar voce a una tartaruga grazie a Greenpeace – ha dichiarato Giorgia, doppiatrice di mamma tartaruga- La casa è quanto di più prezioso abbiamo, uno spazio sicuro per noi e la nostra famiglia. Eppure la stiamo togliendo a tartarughe, balene, pinguini e tanti altri animali. Se non agiamo ora, rischiamo di causare danni irreversibili ai nostri oceani e di perdere alcune specie per sempre. Spero che questo corto faccia prendere coscienza a sempre più persone dei danni che stiamo causando al mare“.

martedì 14 gennaio 2020

DIAN FOSSEY, UNA VITA PER I GORILLA - Giovanna Nastasi


«Quando capisci il vero valore della vita, di ogni vita pensi meno al passato e lotti per difendere il futuro».
Queste parole possiamo considerarle il testamento di Dian Fossey, la naturalista americana, che dedicò la sua vita, fino all’estremo sacrificio, alla tutela dei gorilla di montagna, sottraendoli all’estinzione.
Forse sembrerà stravagante che una donna americana decida di trasferirsi in Africa e lì trovi quello che dà un senso alla vita. Nell’immaginario collettivo, i gorilla sono delle creature che incutono timore perché considerati aggressivi. Dian ci mostrò che ogni essere vivente interagisce attraverso delle regole e che, rispettandole, è possibile stabilire una relazione.
Ogni anno sul nostro pianeta si estinguono diverse specie di piante e animali senza che questo venga considerato una perdita. Infatti, ciò che è lontano da noi, ciò che non intacca la nostra quotidianità, ciò che non ci riguarda emotivamente è come se non esistesse. Così senza accorgercene la Terra sta diventando sempre più povera delle sue risorse ambientali e naturali e questo accade il più delle volte per cinico interesse e per cattiveria, perché, come diceva Fossey, siamo lontani dal comprendere il vero valore della vita.
Nel luglio del 2015, su tutti i Tg mondiali, fecero il giro le immagini del dentista americano Walter Palmer appassionato di caccia sportiva, volato dagli Usa fino allo Zimbawe per uccidere, con arco e frecce, Cecil, un raro leone che viveva in riserva. Le foto pubblicate anche in tutti i siti Internet mostravano il corpo del leone privo di vita, accucciato e inerme quasi fosse sprofondato in un sonno improvviso, e alle spalle il medico americano che baciava la moglie con sguardo trionfante. Uccidere un animale che vive in un’area protetta significa avere una grande quantità di denaro per corrompere le guardie, servendosi dei bracconieri che lucrano su questi sporchi assassini di animali indifesi. Scorrendo le immagini postate sulla rete si può trovare un ampio e orrido catalogo di questi presunti uomini e donne forti che trovano una perversa soddisfazione nell’uccidere esseri viventi: si va dal cacciatore tedesco che paga a una guida del luogo ben 53 mila euro per uccidere, sempre in Zimbawe, l’esemplare di elefante più grande al mondo, per arrivare alla cacciatrice americana che dal Sud Africa, in jeans e maglietta leopardata, posta sui social il suo trofeo, cioè una rarissima giraffa nera.
Secondo “The Guardian” le statistiche dimostrano che più di 1,7 milioni di trofei sono stati venduti in tutto il mondo tra il 2004 e il 2014 – e almeno 200.000 di questi animali sono considerati dalla Iucn a rischio di estinzione.
Dian Fossey lavorava in un ambiente non differente da quello appena descritto e in Africa ci era arrivata quasi per caso per la prima volta nel 1963.
Ci era rimasta sette settimane, durante le quali aveva visitato il Kenya, la Tanzania, il Congo e lo Zimbawe. A rendere quel viaggio una svolta nella vita di Fossey furono però due incontri in particolare. Il primo fu quello con il primatologo statunitense George Schaller in Tanzania dove stava conducendo uno studio pioneristico sui gorilla di montagna: «Credo che fu quello l’istante in cui ebbi la percezione che sarei tornata in Africa, a studiare i gorilla di montagna», scrisse anni dopo Dian nel suo best seller Gorilla nella nebbia (1983). Il secondo incontro chiave fu quello con Louis Leakey, un altro famoso zoologo.
L’infanzia di Dian non era stata particolarmente felice: l’assenza del padre alcolista e la freddezza del patrigno e della madre la fecero rifugiare nella compagnia del suo pesciolino rosso e nella lettura dei libri sugli animali, infatti sognava di diventare veterinaria. Fu grazie al sostegno economico degli zii che riuscì a studiare e diventare terapista. Probabilmente è grazie alla competenza che aveva acquisito nelle dinamiche relazionali con i bambini disabili che sarà in grado di entrare in empatia con i gorilla. Dian li osserva minuziosamente, comprende il loro linguaggio, studia come si comportano in branco, fino ad essere accettata da loro non come una estranea  ma come un membro della loro famiglia. In questo modo aveva ricreato la famiglia che aveva perso e quella che non aveva mai avuto nella comunione rispettosa tra gli esseri umani e la natura, tra gli esseri umani e gli animali. Scrive ancora la primatologa: «l’uomo che uccide un animale oggi, è l’uomo che domani ucciderà la gente che lo disturberà». Dian conosceva tutti i gorilla della zona e aveva stretto con loro un rapporto filiale, soprattutto con Digit, leader di uno dei sottogruppi che lei amava di più. Il 31 dicembre 1977, la vita della donna cambiò drasticamente perché Digit, orribilmente mutilato, venne trovato senza vita. La situazione peggiorò quando poche settimane dopo altri due gorilla furono uccisi mentre proteggevano il loro cucciolo, che morì a sua volta per le conseguenze dell’aggressione. Da quel momento in poi la ricercatrice dedicò tutte le sue energie alla lotta ai bracconieri e anche alle organizzazioni internazionali che puntavano ad aumentare il turismo nella zona. Il 26 dicembre 1985 Dian Fossey venne uccisa nella sua capanna sui Monti Virunga a colpi di machete. Riposa nel piccolo cimitero dei gorilla nel cortile di quello che resta del suo campo di Karisoke, a pochi passi dalla tomba di Digit. Il suo epitaffio recita: «Nessuno amò i gorilla più di lei».
Quali gli insegnamenti da trarre da questa storia? Intanto, quello di avere una passione, l’unica vera linfa vitale che porta avanti la vita; non smettere di costruire sé stessi anche quando si è soli e in frantumi; trovare sempre un nuovo punto di vista che ci aiuti a capire chi è diverso da noi anche se appartiene ad una specie diversa. Bob Campbel, il fotografo del “National Geographic”, che seguì e documentò il lavoro di Dian per tre anni dice che «nessuno mai come lei aveva avvicinato i gorilla di montagna con tanta naturalezza e comunione». Come fare memoria di Fossey? Lei ci ha mostrato la possibilità di comprendere una grammatica diversa che lega ogni essere vivente di questo pianeta, l’unica casa che abbiamo di cui non siamo gli onnipotenti e deliranti proprietari quanto piuttosto i custodi dell’enorme bene che ci è stato consegnato. Ci ha indicato la via dell’armonia e della pacifica convivenza, il rispetto per tutte le forme di vita diversa dalla nostra.
Ma la strada è ancora molto lunga.
Scrive Tiziano Terzani: «Che errore è stato allontanarsi dalla natura! Nella sua varietà, nella sua bellezza, nella sua crudeltà, nella sua infinita, ineguagliabile grandezza c’è tutto il senso della vita».