martedì 7 gennaio 2020

La crisi climatica minaccia l’agricoltura italiana - Stefano Liberti




Enrico Zanellati si aggira per il frutteto con aria affranta. Guarda le reti divelte, gli alberi caduti. Mostra un pilone di cemento piegato in due: “Il vento è arrivato e ha schiantato tutto”. Questo agricoltore di 34 anni conduce, insieme al padre e a due fratelli, un’azienda di 52 ettari nel delta del Po, in provincia di Rovigo. Coltivano foraggi e cereali. E negli ultimi anni hanno impiantato il primo frutteto della zona, mele e pere di diverse varietà. “È stata una scommessa, in un’area considerata non particolarmente adatta a questo tipo di produzioni”. Ad agosto, il giorno prima di raggiungerli, una tromba d’aria si è abbattuta sui loro campi, distruggendo una parte importante del frutteto. “Fortuna che siamo assicurati”, si consola l’imprenditore, raccogliendo una delle centinaia di mele finite a terra sotto l’effetto vorticoso del vento.
Gli eventi meteorologici estremi sono una delle manifestazioni più evidenti del clima che cambia – e pesano sempre di più su una produzione che già di per sé fa fatica a garantire un reddito adeguato agli agricoltori. Il numero di fenomeni classificabili come trombe d’aria, grandinate intense, piogge torrenziali è in netta crescita in Italia. Basta guardare il database europeo dedicato a questo tipo di manifestazioni meteorologiche per vedere come il nostro sia uno dei paesi più colpiti: dall’inizio dell’anno a oggi, ci sono stati 1.643 eventi di questo tipo. Cinque al giorno.
Un numero impressionante, che assume ulteriore rilevanza se si segue la sua tendenza negli anni: nello stesso periodo del 2009, ce n’erano stati 258. Nel 1999, appena venti. Cosa succede? “L’aumento della temperatura del mar Mediterraneo libera maggiore energia nell’atmosfera”, dice Antonello Pasini, fisico del clima al Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr), che ha dedicato diversi studi e un libro in uscita agli eventi estremi. “Questo surplus di energia non può che scaricarsi violentemente sul territorio: fenomeni che un tempo erano gestibili diventano più devastanti proprio a causa del riscaldamento globale”.

Danni ignorati
Il futuro non sembra promettere nulla di buono per la produzione agricola del nostro paese. Secondo un recente rapporto dell’Agenzia europea per l’ambiente, l’area mediterranea è letteralmente nell’occhio del ciclone, non solo perché questi fenomeni meteorologici straordinari diventeranno ordinari, ma anche perché le nostre latitudini saranno sempre più soggette a prolungate ondate di calore. Il che si tradurrà in un inesorabile spostamento verso nord delle coltivazioni: se l’innalzamento delle temperature potrà avvantaggiare alcune parti dell’Europa del nord – che registreranno maggiori tassi di produttività – in quella meridionale le rese di colture come grano, mais e barbabietola potranno diminuire fino al 50 per cento entro il 2050. Di conseguenza, il rapporto prevede che in Italia – anche in aree produttive importanti, come la pianura padana o le colline del Chianti – il valore dei terreni agricoli potrà diminuire fino all’80 per cento entro il 2100.
“L’Italia registra la maggior perdita di valore delle terre agricole, tra i 58 e i 120 miliardi di euro”, si legge nello studio. Un futuro di campagne abbandonate non è l’orizzonte distopico di qualche romanzo, ma una circostanza da prendere seriamente in considerazione.
Se i fenomeni estremi guadagnano le prime pagine dei giornali quando colpiscono le città – come hanno mostrato a novembre l’acqua alta a Venezia, le piene dell’Arno e del Po, e la pioggia alluvionale che ha travolto con un mare di fango il centro di Matera – lo stillicidio di disastri che sta minando l’agricoltura italiana passa molto più inosservato. Secondo stime della Coldiretti, negli ultimi dieci anni gli eventi estremi sono costati al comparto agricolo 14 miliardi di euro, se si sommano danni a strutture, infrastrutture e produzioni.
La tromba d’aria che si è abbattuta sull’azienda della famiglia Zanellati nel delta del Po ha colpito un’area piuttosto vasta. Ha provocato danni in tutta la provincia di Rovigo e anche in quella di Ferrara, sulla riva destra del fiume. Alle porte di Tresigallo, città nota per aver dato i natali al gerarca fascista Edmondo Rossoni, che l’ha trasformata in una culla dell’architettura razionalista, l’azienda di Roberto Cera è una delle più importanti della zona. I suoi frutteti si estendono su cento ettari. “Il vento fortissimo dell’altro giorno non è che l’ultima manifestazione di un clima che, da qualche anno a questa parte, non è più prevedibile”, dice l’agricoltore mentre mostra le diverse varietà di pere che coltiva, tra cui una sperimentale con la polpa rosa. “Quest’anno ha fatto caldo molto prima del previsto, ma a maggio la temperatura si è abbassata velocemente. Questo ha interrotto le fioriture e sottoposto a un incredibile stress le piante. Così ci troviamo con una produzione più che dimezzata”.

Nelle terre anfibie
L’azienda di Cera si trova al centro delle cosiddette terre anfibie. Sono 250mila ettari incastonati tra il Po, il Reno e il Panaro, che con un’impresa ingegneristica straordinaria sono stati bonificati e letteralmente strappati all’acqua. “In alcune aree il terreno è quattro metri al di sotto del livello del mare”, sottolinea Mauro Monti, direttore del Consorzio di bonifica pianura di Ferrara.
Su una mappa appesa al muro del suo ufficio al centro della città estense, questo ingegnere sulla cinquantina indica i quattromila chilometri di canali che deve gestire – “Quattro volte la distanza tra Aosta e Trapani” – e il sistema di idrovore che aiutano a risucchiare l’acqua e avviarla verso il mare. “Senza macchine, il territorio verrebbe in gran parte sommerso”.
Il direttore è reduce da una missione sul campo per valutare i danni della tromba d’aria. Sul telefono fa scorrere foto di capannoni scoperchiati, piloni caduti, casolari distrutti dal vento. “Uno dei miei tecnici, che è in servizio da 38 anni, dice di non aver mai visto una cosa del genere”. Monti sa che la sfida della crisi climatica è particolarmente complessa in un territorio fragile come quello dove è stata fatta la bonifica. Mostra i dati delle serie storiche sulle precipitazioni. “Il livello annuale è più o meno lo stesso, anzi è in leggera diminuzione. Il problema è che queste piogge sono più intense. Cade tanta acqua in poco tempo. E questo fa maggiori danni e non è utile all’agricoltura”.

La scomparsa delle api
Oggi molto più di ieri gli agricoltori devono far fronte alle incertezze di un andamento climatico che non solo si può manifestare in modo estremo e distruttivo, ma è anche sempre meno prevedibile. L’oscillazione delle temperature in primavera non ha avuto un effetto dannoso solo sui frutteti, ma anche su un importante custode dei nostri ecosistemi: le api. “Visto il caldo precoce, le famiglie si sono riprodotte in modo massiccio prima dell’inizio della primavera. Nel mese di maggio, il freddo e le piogge hanno interrotto le fioriture. Risultato: c’erano tantissime api e pochissimo cibo in giro”, racconta Paolo Fontana, apicoltore di Isola Vicentina, ricercatore alla fondazione Mach di San Michele all’Adige, in provincia di Trento, e autore del libro Il piacere delle api.
Questa situazione ha portato alla morte di famiglie intere e all’alimentazione artificiale di altre attraverso la somministrazione di sciroppi zuccherini. Così i mieli di alcune fioriture, come l’acacia, quest’anno non sono stati prodotti. Ma gli effetti della scomparsa delle api – dovuta sia agli effetti della crisi climatica sia all’abuso di pesticidi – vanno ben al di là della mancanza occasionale di alcuni tipi di miele. Questi insetti impollinatori hanno un ruolo primario nella produzione agricola, e quindi, in ultima istanza, nella stessa sopravvivenza degli esseri umani sulla Terra.
 “Il loro lavoro va considerato fondamentale non solo per la riproduzione della frutta, ma anche per cibi di origine animale come uova, latte, carne, perché gli animali si alimentano anche grazie alle piante. Un boccone su tre di quello che mangiamo è il risultato di un atto di impollinazione”, spiega Fontana.
Per dare concretezza alle sue parole, l’entomologo mostra due immagini: nella prima si vede il reparto ortofrutta di un supermercato che abbonda di prodotti; nella seconda lo stesso reparto è sguarnito, con i banchi quasi completamente vuoti, si salvano solo arance e pomodori. Le due didascalie recitano rispettivamente: la tua scelta di prodotti con o senza le api.

Invasioni aliene
A un insetto che scompare ne corrispondono altri che arrivano in massa. Nella sua azienda di Tresigallo, il signor Cera si aggira per i filari scrutando i frutti con attenzione. Cerca le tracce di una presenza molto poco gradita a lui come a tutti gli agricoltori della zona: la cimice asiatica. Alcune pere presentano le ammaccature tipiche lasciate dal passaggio dell’animale, ma tra le foglie non si vede alcun movimento. “Solo qualche giorno fa qui ce n’erano tantissime”, afferma. Avvistato per la prima volta in Emilia Romagna nel 2012, quest’insetto marrone dalla corazza resistente ha invaso a macchia d’olio i terreni di tutta l’Italia del nord. Dal Friuli-Venezia Giulia al Piemonte, è un coro unanime: la specie aliena originaria dell’estremo oriente è un flagello.
“Arrivata con i commerci internazionali, ha trovato da noi un ambiente favorevole grazie agli inverni più miti degli ultimi anni”, sottolinea Lorenzo Martinengo, tecnico agricolo della Coldiretti di Cuneo. “La cimice asiatica è particolarmente pericolosa per le coltivazioni, da un lato perché molto prolifica, dall’altro per la sua elevata polifagia, che le permette di causare danni a più di trecento coltivazioni, dalle mele alle nocciole, dalle orticole ai cereali”.
Martinengo ormai si occupa a tempo pieno di questo animale, studiandone il comportamento e immaginando soluzioni. Girando con lui per la zona di Saluzzo, centro nevralgico di una delle principali aree frutticole in Italia, è possibile toccare con mano l’ampiezza di quella che è una vera e propria catastrofe. Entriamo in un meleto a caso. Gli insetti sono su ogni pianta. Li si vede tranquillamente in azione: si posano sui frutti, estraggono dalla bocca una piccola cannuccia con cui bucano la scorza e succhiano il nettare. A pochi metri di distanza, il proprietario dell’azienda sta ultimando la raccolta su un trattore. Nel retro della macchina, le casse piene di frutti sono impilate su due colonne. In una ci sono i frutti adatti alla vendita, nell’altra quelli da scartare perché danneggiati dalle cimici. Il rapporto è di uno a dieci. L’agricoltore, un uomo sulla sessantina con lo sguardo chino sul trattore, non ha voglia di parlare. Si limita a scuotere la testa e a indicare le casse.
I danni provocati da questa specie infestante sono enormi. Il Centro servizi ortofrutticoli di Ferrara ha calcolato sul comparto pere e pesche nell’Italia del nord nel 2019 un mancato introito di 356 milioni di euro, a cui va sommata la perdita di 486mila giornate di lavoro. Per contrastare la cimice si sta pensando di introdurre nel sistema un antagonista naturale, la cosiddetta vespa samurai, un insetto di circa un millimetro che accorpa le sue uova a quelle della cimice e le neutralizza. Il Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria (Crea) di Firenze sta conducendo delle ricerche per valutare come procedere e quale può essere l’impatto di questa strategia.
“È un rimedio che potrà rivelarsi efficace”, sottolinea Martinengo, “ma bisognerà comunque attrezzarsi a convivere con specie aliene sempre più diffuse e pericolose per le nostre produzioni. Nella stessa area sono già presenti la Popillia japonica, un coleottero che si nutre di vegetali e frutti riducendo le piante a scheletri; e la Drosophila suzukii, un moscerino della frutta, che attacca ciliegie, mirtilli, fragole, lamponi e uva”.
Quanto la crisi climatica sta favorendo queste nuove presenze? “Molti studi hanno mostrato una consequenzialità tra specie nuove invasive e mutamenti del clima”, dice Piero Genovesi, che coordina un gruppo di ricerca e una banca dati sulle specie aliene all’istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra). “Dalla cimice asiatica alla zanzara tigre, per non parlare di varie specie acquatiche la cui diffusione è facilitata dal canale di Suez, tutti questi animali sono arrivati in seguito all’intensificarsi degli scambi commerciali e hanno proliferato in aree come la nostra grazie alle temperature più alte”.

La sfida dell’adattamento
Tra specie invasive ed eventi catastrofici, i produttori agricoli sono allo stremo. “Gli squilibri climatici e il riscaldamento globale sono la grande piaga della nostra agricoltura”, sottolinea Stefano Calderoni, imprenditore agricolo del ferrarese e presidente della società Futurpera, che ogni anno organizza un’importante fiera delle pere nella città estense. “I pessimi risultati di quest’anno possono diventare la norma. Se fossimo costretti a cambiare completamente direzione e a rivedere le nostre produzioni, quanto costerebbe alle aziende e all’intera economia agricola acquisire nuove conoscenze?”, si domanda l’imprenditore. “Serve un’azione congiunta tra produttori e decisori politici in una battaglia per l’adattamento, che va combattuta territorio per territorio”.
Rispondere a una sfida così epocale non è semplice. I governi in Italia solitamente reagiscono con interventi ex post, decretando stati di calamità e stanziando fondi per colmare le perdite subite dagli agricoltori. Il Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici (Pnacc), elaborato dal ministero dell’ambiente dopo una consultazione pubblica nel 2017, sembra per il momento rimasto nel cassetto. Mancano interventi strutturali in grado di affrontare quella che è già percepita come una delle emergenze dei nostri tempi.
Se la politica segna un po’ il passo, gli agricoltori stanno cominciando a rimboccarsi le maniche. Sono in molti ad aver messo in campo strategie di adattamento. Chiara Boschis è una di questi. Nei suoi vigneti sulle Langhe, tra le splendide colline patrimonio Unesco, applica alla sua produzione una precisa filosofia: “L’agricoltura deve essere fatta in sintonia con la natura, con un approccio più equilibrato”. Già parte del movimento dei “Barolo boys”, il gruppo che negli anni novanta ha rivoluzionato la produzione di quel vino e l’ha trasformato in un prodotto d’eccellenza, Boschis oggi è in prima fila in una battaglia culturale per un modo diverso e più sostenibile di vivere e curare la terra. Ai margini del suo campo si vedono nidi di pipistrelli, passeri, upupe e rapaci predatori, usati contro i parassiti. Tra i filari viene piantata ogni anno una mistura di sementi di cereali e leguminose che poi vengono tagliati e lasciati in loco per concimare il terreno.
 “Una pianta equilibrata è più forte e questo è sempre più importante in uno scenario in cui il clima cambia”, dice l’imprenditrice. Insieme ad altri produttori, Boschis ha aderito a un codice che è poi diventato un marchio, the green experience, un elemento distintivo da proporre sulle bottiglie ai compratori.
Si tratta di un’esperienza pilota, più semplice per vini ad alto valore aggiunto come quelli delle Langhe, meno per prodotti di largo consumo e basso prezzo come la frutta o le piante orticole. Ma è una sfida che l’agricoltura e la politica dovranno necessariamente cogliere per scacciare gli effetti di un futuro di crisi che già si stanno misurando nel presente.
È lo stesso rapporto dell’Agenzia europea per l’ambiente a indicare la strada. Invece di ripiegarsi in un atteggiamento fatalista e di aspettare inermi la tempesta in arrivo, lo studio sottolinea come le previsioni siano “statiche” e possano essere “compensate da dinamiche socioeconomiche come cambi nell’efficienza produttiva in agricoltura e azioni di adattamento”. Tra adattarsi o soccombere, la prima scelta sembra decisamente la più ragionevole.

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