domenica 31 gennaio 2021

Buio e gelo nella città dei nessuno - Nuria Álvarez Agüí

 La Cañada Real è il più grande insediamento informale d’Europa (con più di 8mila abitanti, secondo dati del 2011) e anche la più antica: è nata con la migrazione rurale degli anni ‘50. Ha perdurato così a lungo perché la sua localizzazione su un vecchio percorso di transumanza ne ha impedito la regolarizzazione (era la strada presa da un grande numero di ex bidonville in Spagna).

Diverse generazioni di abitanti vi sono nate, e delle ondate migratorie dall’Europa dell’Est e dal Nord Africa vi sono arrivate a partire dagli anni ‘90. I suoi abitanti lavoravano in particolare per miseri stipendi nell’edilizia di Madrid, che ha conosciuto un boom dall’inizio del secolo. Sono stigmatizzati per la loro appartenenza di classe ed etnica (i gitani, marocchini e rumeni sono oltremodo rappresentati).


L’espansione immobiliare intorno a questo quartiere-bidonville ha condotto a diverse evizioni (2005-2012) da parte del Comune di Madrid. Sono state fermate grazie a una sentenza del tribunale di Strasburgo che esigeva una ricollocazione degli abitanti espulsi. I governi ultra-neoliberali di Madrid avevano privatizzato quasi tutte le case popolari. Alla fine, c’è stato un principio di accordo tra le autorità e gli abitanti: il Patto per la Cañada (2017). Questo Patto prevedeva la regolarizzazione di tutte le case in buono stato di abitabilità se i proprietari potevano pagare la loro parcella. Soltanto il settore 6 della Cañada, sito vicino alla stazione d’epurazione della capitale, doveva essere smantellato. Il Patto includeva la ricollocazione degli abitanti del settore 6 qualora avessero soddisfatto i requisiti di anzianità (cioè essere in loco dal 2011) e certe condizioni sociali.

 

Nel resto della Cañada (settori 1-5), gli abitanti che avevano i requisiti giusti dovevano, anche loro, essere ricollocati se non riuscivano ad acquistare la loro parcella. Tuttavia, l’applicazione del Patto per la Cañada ha accumulato dei ritardi fin dall’inizio. Solo qualche decina di famiglie del settore 6 sono state ricollocate nel 2018 e nel 2019 dal Comune e dalla Regione di Madrid. L’arrivo del governo di destra (Partito popolare) al Comune di Madrid, nel maggio del 2019, ha contribuito a paralizzare ancora di più il processo di ricollocamento.

Durante questi mesi di stallo, ci si è chiesto perché l’amministrazione madrilena prendeva così tanto tempo nel far applicare il Patto del 2017. Oggi è evidente che i grandi interessi immobiliari privati facevano pressione per arrivare a una soluzione diversa. È durante la seconda ondata del coronavirus che è saltato fuori tutto. Sotto la pressione degli interessi immobiliari e approfittando della criminalizzazione degli abitanti, l’impresa elettrica Naturgy ha tagliato l’elettricità a 4 500 abitanti dei settori 5 e 6 della Cañada Real.

  

Gli abitanti allora si sono mobilitati, reclamando il ripristino di un servizio per il quale erano disposti a pagare, come anche il resto degli abitanti di Madrid. La polizia ha attribuito il taglio di elettricità a delle piantagioni illegali di marijuana e la presidente della regione Isabel Díaz Ayuso ha colto l’occasione per fantasticare sui “proprietari di automobili di lusso che non vogliono pagare l’elettricità”, quando gli abitanti della Cañada non hanno mai avuto la possibilità di farlo. L’amministrazione regionale e quella locale hanno rifiutato di rimettere la corrente. Quando il freddo è arrivato, Ayuso ha aggiunto che non intendeva “democratizzare la delinquenza”.   

“Non vogliamo l’albergo, abbiamo i nostri alloggi. Vogliamo pagare la luce! Soluzione, adesso !!!”

A fine dicembre, 4 500 abitanti della Cañada sono senza corrente da tre mesi. Con stipendi bassissimi, o disoccupati, cercano di comprare la benzina per potersi scaldare con dei gruppi elettrogeni. Si riuniscono ogni giorno, i loro figli scrivono manifesti e anche le Nazioni Unite si pronunciano, ma la loro situazione rimane decisamente nascosta dall’impatto mediatico provocato dal coronavirus o dagli USA. La situazione diventa drammatica per i bambini: a scuola, i loro compagni li prendono in giro perché non si sono lavati. A casa, fanno i compiti a lume di candela e hanno costantemente freddo. L’amministrazione madrilena rifiuta un qualunque incontro con questi abitanti “illegali”.

A inizi gennaio, una terribile ondata di freddo, la peggiore degli ultimi 50 anni, si abbatte su Madrid. Alla Cañada si arriva a -10ºC e gli abitanti senza elettricità rischiano la vita. La sinistra di Unidas Podemos comincia a pronunciarsi timidamente a livello nazionale. Il comune di Madrid propone a un centinaio di abitanti di essere ricollocati in una fabbrica abbandonata, dove il gruppo elettrogeno smette rapidamente di funzionare per mancanza di benzina. Ma gli abitanti non vogliono lasciare le loro case; secondo loro, è l’ennesima scusa per espellerli da casa loro senza compenso né ricollocamento.

Dall’inizio di gennaio molti neonati sono all’ospedale per polmonite, una bambina di tre anni è ricoverata per ipotermia e un uomo di 74 anni in buona salute muore all’improvviso. La società Naturgy comincia a temere una pubblicità negativa e si propone di ristabilire la corrente se l’amministrazione regionale e quella locale le danno il via. Ma non è stato fatto ancora niente di concreto. La Cañada continua a gelare sotto la neve e senza elettricità. Bisognerebbe forse parlarne al di fuori della Spagna.

Tradotto da  Silvana Fioresi

 

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Fonte: Tlaxcala Grazie a Fausto Giudice per la segnalazione

Traduzione Silvana Fioresi


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sabato 30 gennaio 2021

Quella macchia sugli abiti usati - Francesco Gesualdi


Dopo la limitazione dei consumi, recupero e riciclo sono i comportamenti chiave per ridurre la nostra impronta sull’ambiente, sotto il profilo sia delle risorse sia dei rifiuti.

Ma nel caso degli indumenti usati il recupero è anche un importante canale di solidarietà, perché in molti casi le aziende addette alla gestione dei cassonetti sono cooperative sociali costituite per dare lavoro a persone svantaggiate.

Spesso sono anche espressione di realtà caritative che utilizzano i proventi ottenuti dal riutilizzo per finanziare progetti di solidarietà in Italia come nel Sud del mondo.

Alcune vicende giudiziarie, però, hanno messo in evidenza che la filiera degli indumenti usati è anche affollata da mafiosi e camorristi che utilizzano la facile manovrabilità dei dati per arricchirsi illegalmente tramite la falsificazione dei volumi trattati, l’emissione di fatture contraffatte, la mancata selezione e lo smaltimento clandestino delle frazioni di vestiario non recuperabile.

In effetti già nel 2014 la Direzione nazionale antimafia certificava che «buona parte delle donazioni di indumenti usati che i cittadini fanno per solidarietà, finiscono per alimentare un traffico illecito dal quale camorristi e sodali di camorristi traggono enormi profitti».

I primi ad essere danneggiati da questa situazione di illegalità sono proprio i soggetti solidali che, vedendo il loro nome associato a quello dei malavitosi, rischiano di subire un enorme danno di reputazione e persino una rottura nel rapporto di fiducia con l’opinione pubblica.

Sentendo addosso la responsabilità di queste terribili conseguenze, da vari anni alcuni soggetti dediti alla raccolta di indumenti usati si sono fatti promotori presso gli altri attori sani della filiera di un’iniziativa per difendersi dall’illegalità, mentre ai Comuni, o a chiunque sia demandato a gestire i rifiuti a livello territoriale, è stato chiesto di adottare regole più stringenti per la scelta dei soggetti a cui assegnare il servizio di raccolta.

È iniziato così un confronto, durato un paio di anni, che alla fine ha consentito a Utilitalia, l’associazione di categoria che rappresenta le imprese fornitrici di servizi essenziali, di elaborare delle linee guida per la selezione dei candidati che chiedono di svolgere il servizio di raccolta degli indumenti.

Fra i criteri è stato inserito anche l’obbligo di trasparenza: «La stazione appaltante (Comune o chi per lui) deve poter acquisire le necessarie garanzie che i flussi di rifiuti (abiti usati) raccolti nel proprio territorio siano trattati in impianti idonei dal punto di vista tecnologico e autorizzativo, e completamente tracciati lungo le varie fasi della filiera.

Da tale tracciabilità deve poter emergere con assoluta certezza che detti flussi abbiano trovato adeguata destinazione e valorizzazione nel rispetto dei princìpi della gerarchia europea».

E continua: «A tal fine è importante prevedere nel contratto l’impegno dell’appaltatore a predisporre con cadenza almeno annuale un report che, sulla base dei rifiuti raccolti, informi sulle percentuali delle diverse destinazioni: 1) preparazione per il riutilizzo e cessione (distinti in ‘solidale’ o ‘profit’); 2) riciclo; 3) recupero di altro tipo; 4) smaltimento». Specificando sempre quanto avvenuto in Italia e quanto all’estero. Sembra perfino banale dirlo, ma la segretezza è il terreno fertile della criminalità.

Quando i fatti avvengono nelle tenebre, senza obbligo di rendicontazione, al riparo di qualsiasi verifica, è allora che possono formarsi atteggiamenti deviati: truffe, abusi, prepotenze, corruzione, violazioni.

Quando, al contrario, si è tenuti a dimostrare, documenti alla mano, come ci si comporta, con chi si hanno rapporti, la provenienza dei soldi, il loro utilizzo, le probabilità di violazione della legge si fanno più scarse.

Si può dire che il sotterfugio è inversamente proporzionale al grado di trasparenza. Paradossalmente se ogni capo di vestiario buttato in un cassonetto potesse essere tracciato, potremmo sapere come è stato smaltito e se ha seguito l’iter igienico previsto dalla legge o se è stato messo in vendita senza alcun trattamento.

Se è stato sottoposto a cernita in uno stabilimento legale o clandestino, sia esso italiano o straniero, che rispetta i diritti dei lavoratori o li viola, che paga le tasse o le evade. Potremmo sapere se è stato messo in vendita in modo legale oppure è finito nei circuiti capestro d’Africa, Asia o dell’Italia stessa.

Ovviamente la tracciabilità di ogni singolo capo è impossibile, ma l’obbligo, per chi raccoglie, di rendicontare le tappe principali seguite dal materiale che ha raccolto, sarà un contributo importante contro la criminalità a difesa della legalità, dei diritti e dell’ambiente.

(Articolo pubblicato anche sul quotidiano l’Avvenire)

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venerdì 29 gennaio 2021

La distruzione di biodiversità della Terra - Robert J. Burrowes

Nell’agosto 2010, il segretario generale della Convenzione ONU sulla Diversità Biologica, Ahmed Djoghlaf, ammoniva che «Stiamo perdendo biodiversità a un tasso senza precedenti», stiamo cioè andando verso la distruzione di biodiversità della Terra.

Secondo il Programma Ambientale ONU ‘la Terra è nel bel mezzo di un’estinzione massiccia di esseri viventi’ con gli scienziati che stimano che ‘ogni 24 ore si estinguano 150-200 specie di piante, insetti, uccelli e mammiferi’ il che è quasi 1.000 volte il tasso ‘naturale’ o ‘di fondo’. Inoltre è maggiore di qualunque fenomeno del genere subìto al mondo dalla sparizione dei dinosauri quasi 650.000 secoli fa’. (Si veda ‘Protect nature for world economic security, warns UN biodiversity chief’).

Due mesi dopo, al decimo incontro della Conferenza delle Parti della Convenzione sulla Diversità Biologica tenutasi dal 18 al 29 ottobre 2010 a Nagoya, Prefettura di Aichi in Giappone, fu adottato un Piano Strategico per la Biodiversità riveduto e aggiornato, ivi compresi gli Obiettivi Aichi per la Biodiversità pr il periodo 2011-2020. (Si veda ‘Strategic Plan for Biodiversity 2011-2020, including Aichi Biodiversity Targets’).

I 20 Obiettivi Aichi per la Biodiversità si possono leggere sul sito web della Convenzione. Erano ambiziosi ma rappresentavano una valutazione realistica di quel che bisognava conseguire entro il 2020 se i governi nazionali dovevano arrivare all’obiettivo a più lungo termine di ‘Vivere in Armonia con la Natura’ entro il 2050, che comportava una significativa deviazione dal “solito andazzo” in una vasta gamma di attività umane’. (Si veda ‘Global Biodiversity Outlook 5’).

Com’è dunque andata nei dieci anni scorsi?

Nel 2015, gli illustri conservazionisti professor Gerardo Ceballos, Anne H. Ehrlich e professor Paul R. Ehrlich pubblicarno il loro libro intitolato The Annihilation of Nature: Human Extinction of Birds and Mammals [L’annientamento della natura: estinzione di uccelli e mammiferi ad opera umana] che racconta la storia della ‘aggressione massiccia e incalzante dell’umanità a tutti gli esseri viventi su questo pianeta’, che sta producendo quella che è ora la sesta grande estinzione di massa della Terra: ‘un tempo buio per gli uccelli e i mammiferi del nostro pianeta’.

Facendo rilevare che le radici di questa distruzione ‘sprofondano lontano nel tempo’ con la caccia e altre attività umane responsabili di spingere all’estinzione intere popolazioni di animali ancora ben prima della rivoluzione agricola (iniziata circa 100 secoli fa), essi osservano che l’attuale attacco collettivo ad animali, piante e microbi ha raggiunto un livello così orrendo che ‘qualunque nostro eventuale allarme sarebbe troppo inconsistente rispetto alla tragedia che si sta consumando’. Ma mentre la decimazione della vita ora in corso è causata dall’Homo sapiens, le sue conseguenze avranno un impatto anche sull’umanità stessa perché le forme di vita in annientamento fanno ‘parte operativa dei sistemi di sostegno biologico da cui dipende la civiltà’.

Pur con le impressionanti statistiche che registrano la sconfitta della vita sulla Terra e la minaccia fondamentale costituita da questa crisi d’estinzione, Cebellos e gli Ehrlich sono ben consci che il pubblico e i politici in generale non stiano reagendo emotivamente a questa crisi come a quelle ‘ben note con l’impoverimento della natura’. Ma sperano che ci si possa riferire al destino dell’ultimo macaco di Spix, un maschio che ha cercato invano una compagna fino a scomparire dalla savana del nord-est brasiliano nel 2000.

E sapevate che addirittura l’iconico leone africano può dover affrontare l’estinzione nell’ambiente selvatico? Nel 2015, come risultato di decenni di caccia, malattie e perdita di habitat, nelle vaste savane d’Africa restavano solo 23.000 leoni: neppure il 10% di quelli che vi si aggiravano nel 1950. E oggi ce ne sono meno ancora.

Ma a parte le estinzioni di specie, la Terra continua a subire ‘un immenso episodio di declino ed estirpazione di popolazioni [animali], che avranno conseguenze negative a cascata sul funzionamento degli e dei servizi vitali al sostentamento della civiltà’. In un rapporto del 2017 il prof. Ceballos e coautori descrivono ciò che chiamano ‘un “annientamento biologico” per evidenziare l’attuale dimensione della sesta grande estinzione di massa in corso sulla Terra’. Per di più, estinzioni locali di popolazioni ‘sono più frequenti per vari ordini di grandezza che quelle di specie, ma ne sono comunque un preludio, sicché la sesta estinzione di massa ha proceduto oltre quel che i più presumono’. (Si veda ‘Biological annihilation via the ongoing sixth mass extinction signaled by vertebrate population losses and declines’).

Aldilà di tutto questo molte specie aggiuntive sono ormai intrappolate in una spirale di reazioni che affretterà inevitabilmente anche la loro estinzione per come agiscono le ‘co-estinzioni’, ‘le estinzioni localizzate’ e le ‘cascate (a domino) di estinzioni‘ una volta innescate e come già peraltro accaduto in quasi tutti i contesti ecosistemici. (Si veda la serie in finora 6 puntate ‘Our Vanishing World’.

Avete visto uno stormo d’uccelli di qualunque dimensione recentemente? Una farfalla?

Che cosa provoca la sesta estinzione di massa?

L’homo sapiens. E il suo attrezzo chiave è sempre la distruzione degli habitat, sia in terra che nell’oceano. Ovviamente, hanno un enorme impatto comportamenti umani particolari. Combattere guerre (o anche solo sprecare risorse per fabbricare armi e altre infrastrutture militari) ne è uno (particolarmente data la guerra perpetua in cui sono impegnati gli USA per assicurarsi risorse e mercati), un altro è la distruzione del clima e attuare il 5G un altro ancora. Ma ci sono molti altri comportamenti umani anch’essi distruttivi.

Consideriamo le foreste. Sol l’anno scorso, 6,5 milioni di ettari di foresta vergine sono stati tagliati o bruciati via per scopi come lo sgombero di terre per stabilirvi allevamenti bovini cosicché molti possano mangiare economici hamburger, attività minerarie (di cui molte illegali) per una varietà di minerali (come oro, argento, rame, coltan, cassiterite e diamanti) e sfruttamento del legname, [perlopiù] trucioli cosicché si possa comprare a basso prezzo carta (anche igienica). Si veda ‘Our Vanishing World: Rainforests’.

Un risultato di tale distruzione è che 40.000 specie d’alberi tropicali sono ora minacciate d’estinzione. Inoltre, la distruzione foresta pluviale è anche causa primaria di specie a livello globale dato il numero di specie che vivono in tale habitat. Si veda ‘Global Assessment Report on Biodiversity and Ecosystem Services’.

Un altro esito è che ‘la preziosa Amazzonia sta pencolando sull’orlo della distruzione funzionale e con essa noi stessi’. Si veda ‘Amazon Tipping Point: Last Chance for Action’.

E a proposito di un altro importante habitat in via di distruzione, consideriamo gli oceani del vasto mondo. Riassumendo, gli oceani stanno riscaldandosi, acidificandosi e deossigenandpsi; contaminandosi con radiazioni nucleari, con petrolio estratto dai fondali e di perdite e sversamenti e con le perforazioni per il gas naturale; e intanto danneggiati dalle attività minerarie a gran profondità, inquinati da scarti chimici industriali e agricoli e danneggiati in una miriade di modi; e intanto soggetti a un rapinoso eccesso di pesca.

In breve: gli oceani sono sotto assedio su un’ampia serie di fronti e stanno realmente ‘morendo’. Si veda il compendio esauriente in 18 punti in ‘Our Vanishing World: Oceans’.

Volendo, si può leggere anche una serie di tali compendi sul destino degli uccelli e degli insetti in rispettiv. ‘Our Vanishing World: Birds’ e ‘Our Vanishing World: Insects’.

Qual è lo stato della partita a inizio 2021?

In un rapporto pubblicato dalla Piattaforma Scientifica-e-d’Indirizzo su Biodiversità e Servizi Eco-sistemici (IPBES) nel maggio 2020, gli autori rilevano che ‘la Natura sta declinando a livello globale a ritmi senza precedenti nella storia umana – e il tasso di estinzioni di specie sta accelerando, con gravi impatti ormai probabili sulle genti del mondo’. Con un totale stimato di 8 milioni di specie animali e vegetali sulla Terra (di cui 5,5 milioni di specie di insetti), un tasso quotidiano stimato d’estinzione, in accelerazione, combinato con un cronico declino della salute degli ecosistemi – conclude il rapporto – ben 1 milione di specie sono minacciate d’estinzione. Si veda ‘Nature’s Dangerous Decline “Unprecedented”; Species Extinction Rates “Accelerating”’ e ‘A million threatened species? Thirteen questions and answers’.

E l’ultima edizione della pubblicazione ammiraglia della Convenzione sulla Diversità Biologica ‘Global Biodiversity Outlook 5’, uscita il 18 agosto 2020, riferisce che ‘L’umanità è a un crocevia in quanto all’eredità che lascia alle future generazioni. La biodiversità sta declinando a un tasso senza precedenti, e le pressioni che l’inducono stanno intensificandosi. Nessuno fra gli Obiettivi di Aichi sulla Biodiversità sarà raggiunto appieno’. Un garbato understatement, questo.

Nel loro commento del novembre 2020 a questa situazione problematica, gli studiosi Ruchi Shroff e Carla Ramos Cortés fanno notare che ‘Nonostante diffuse appelli internazionali per contenere la sesta estinzione di massa, nel secondo decennio consecutivo non è stato raggiunto nessuno degli Obiettivi di Aichi della Convenzione sulla Biodiversità. In qualche caso la perdita di biodiversità è stata peggiorata dall’inerzia nel contenimento dell’uso di pesticidi, combustibili fossili e plastica, e dell’inquinamento’. Si veda ‘The Biodiversity Paradigm: Building Resilience for Human and Environmental Health’.

Ma la distruzione è ben peggiore di quanto ciò lasci intendere. Perché, come già osservato sopra, la distruzione in corso di foreste pluviali e oceani, per non parlare di altri habitat – dalle zone umide ai deserti, l’annientamento della vita sulla Terra continua ad accelerare senza indicazioni di rallentamento di sorta di tale distruzione. Perciò la distruzione della biodiversità resta uno dei quattro percorsi primari verso l’estinzione umana (insieme alla guerra nucleare, all’attuazione del 5G e alla catastrofe climatica).

È troppo tardi per far qualcosa?

Può darsi. Come già detto: Poiché molte specie sono ormai intrappolate in un circolo di retroazioni che affretterà inevitabilmente la loro estinzione a causa del modo in cui funzionano ‘co-estinzioni’, ‘estinzioni localizzate’ e ‘cascate a catena di estinzioni’, sono ormai inevitabili molte ulteriori estinzioni.

Possiamo tuttavia intraprendere azioni per salvare individui e specie non ancora intrappolati in un circuito di retroazioni e che potrebbero quindi essere ancora salvati. Ma se si aspetta che governi o grosse aziende agiscano responsabilmente, si aspetta invano, come dimostrato dagli ultimi vent’anni.

Si hanno dunque alcune potenti opzioni da considerare. La prima e più importante è considerare i modi per poter ridurre il proprio consumo. L’ambiente planetario viene distrutto in modo tale che i governi e le grosse aziende coinvolti possano rispondere alla richiesta dei consumatori. Tutto, dalla spesa militare e la guerra all’estrazione e combustione dei combustibili fossili, è fondamentalmente trainato da ciò che si compra. E ogni singolo articolo che si compri ha un impatto ambientale negativo; senza eccezioni.

Se si riduce il proprio consumo e si aumenta la propria autosufficienza, si riduce l’onere imposto all’ambiente naturale dall’estrazione, trasporto, fabbricazione e distribuzione delle risorse, causa della distruzione degli habitat e dell’annientamento della biodiversità.

Un’opzione da considerare è ‘The Flame Tree Project to Save Life on Earth’ che delinea una serie progressive di passi per ridurre il consumo e aumentare l’autosufficienza.

Se si vuole capire meglio perché tanti esseri umani siano drogati da un consumo illimitato, si veda ‘Love Denied: The Psychology of Materialism, Violence and War’. C’è maggior dettaglio sulle o origini di questo comportamento in ‘Why Violence?’ e ‘Fearless Psychology and Fearful Psychology: Principles and Practice’.

Se propendete a partecipare a una campagna per difendere la biodiversità in un contest o un altro, che sia per por fine alla guerra, fermare la catastrofe climatica, interrompere l’installazione del 5G o farla finita con il traffico di animali selvatici, per esempio, considerate di farlo strategicamente. Si veda ‘Nonviolent Campaign Strategy’. E potreste anche prendere in considerazione la firma di un solenne impegno online sulla base di ‘The People’s Charter to Create a Nonviolent World’.

O, se quelle opzioni vi sembrano troppo complicate, considerate di impegnarvi ne: L’impegno per la Terra

Per amore della Terra e di tutte le sue creature … da questo giorno in poi m’impegno a:

  1. Ascoltare profondamente i bambini. Vedi “Nisteling: The Art of Deep Listening“.
  2. Non viaggiare in aereo;
  3. Non viaggiare in macchina;
  4. Non mangiare carne e pesce [e derivati di origine animale, ndr];
  5. Mangiare solo cibo biologico / biodinamico;
  6. Ridurre al minimo la quantità di acqua dolce che utilizzo, anche riducendo al minimo la mia proprietà e l’utilizzo di dispositivi elettronici;
  7. Non possedere né utilizzare un telefono cellulare;
  8. Non comprare legname della foresta pluviale;
  9. Non comprare né usare plastica monouso, come borse, bottiglie, contenitori, bicchieri e cannucce;
  10. Non usare banche, fondi pensione o compagnie di assicurazioni che forniscano servizi a società che investano in combustibili fossili, energia nucleare e/o armi;
  11. Non accettare impieghi da o investire in organizzazioni che supportino o partecipino allo sfruttamento di altri esseri umani o traggano profitto dall’uccisione e / o dalla distruzione della biosfera;
  12. Non ricevere notizie dai media aziendali (giornali tradizionali, televisione, radio, Google, Facebook, Twitter…);
  13. Fare lo sforzo di apprendere un’abilità, come il giardinaggio o il cucito, che mi renda più autosufficiente;
  14. Incoraggiare gentilmente la mia famiglia e i miei amici a considerare di firmare questo impegno.

Conclusione

Una specie – Homo sapiens – sta annientando la vita sulla Terra, spingendo almeno 200 specie all’estinzione ogni giorno. Nel tempo che vi ci è voluto per leggere quest’articolo, un’altra specie di vita sulla Terra è finita nel registro dei fossili.

Questo annientamento di vita è indotto dal nostro sovraconsumo. Il Mahatma Gandhi, con indosso già il suo indumento auto-filato, faceva notare oltre 100 anni fa: «La Terra provvede abbastanza per i bisogni ma non per l’avidità di ognuno».

Ovviamente, al mondo molti non sono responsabili di sovraconsumo. Campano ai margini della vita, con giusto quanto basta per mangiare, altro che prosperare. E questo riflette le inequità insite in un sistema economico globale che privilegia il profitto per i pochi, anziché le risorse per vivere per tutti. Allora ciò vuol dire che l’onere per ridurre i consumi deve ricadere su chi nelle società industrializzate beneficia della maldistribuzione delle risorse planetarie.

Ralph Waldo Emerson una volta predisse che «La fine della razza umana sarà che finirà per morire di civiltà». Se dobbiamo dimostrare che aveva torto, non ci resta molto tempo.

Questo perché Homo Sapiens è una parte del tessuto della vita. E noi lo stiamo scelleratamente distruggendo quel tessuto.

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giovedì 28 gennaio 2021

Scambiare, donare - Marco Aime

 

Dove si cerca di dire che in fondo siamo meno egoisti di quanto pensiamo e che in fondo doniamo più di quanto crediamo, perché è solo così che creiamo relazioni.

 

Se quella che oggi chiamiamo “economia” in principio era solo un’attività di sussistenza, con il trascorrere del tempo ha assunto un ruolo sempre più centrale, al punto da prendere, in molti casi, il posto della politica. La progressiva “occidentalizzazione” del mondo sta provocando una diffusa colonizzazione dell’immaginario economico, che ci porta a vedere tutto in un’ottica mercantile in cui ciascuno cerca di ottenere il massimo guadagno con il minimo costo. Estesa questa visione all’intero genere umano, si ottiene il cosiddetto homo oeconomicus, un essere razionale che agisce perseguendo fini utilitaristici e, pertanto, profondamente egoista. 

Eppure non è sempre stato così, come ha dimostrato Karl Polanyi. In molte società l’economia era – e in certi casi è ancora – inserita all’interno di un sistema di valori in cui non sempre gli individui perseguono il massimo guadagno, ma a volte rispondono a principi che possono portare in direzione diversa. 

L’economia è quindi moralmente vincolata ad altre forme di espressione culturale come la religione, la parentela, le gerarchie sociali, le alleanze, le amicizie. È dunque “incastonata” (embedded) nella società e non esterna a essa e alle sue regole morali, come invece accade nelle società mercantili, dove l’economia è stata espulsa dalla sfera della moralità.

 

L’economia non occupa lo stesso ruolo nelle diverse società umane. Secondo Polanyi sono tre i modi in cui l’economia si integra nella società: reciprocità, redistribuzione e scambio. 

La reciprocità implica una situazione di egualitarismo e viene praticata in società dove non esistono leggi che regolano vendita e acquisto, per cui lo scambio avviene sulla base della simmetria e spesso le transazioni si verificano nell’ambito della parentela o del vicinato. 

La redistribuzione, invece, necessita di una struttura di potere centralizzata: un capo, un sovrano, uno Stato ricevono beni e denaro da parte di tutti i componenti del gruppo, sia esso una piccola tribù o il governo di uno Stato-nazione, e devono poi provvedere a redistribuirli secondo le modalità, più o meno eque, previste dalla loro società. 

La terza modalità, quella dello scambio mercantile o commercio calcolato, nasce dall’avvento della rivoluzione industriale e dal conseguente sorgere dell’economia di mercato. Questa trasformazione segna lo spartiacque tra i diversi tipi di economie e civiltà. Il capitalismo, infatti, muta la sostanza dei rapporti economici precedenti, che si fondavano soprattutto sulle relazioni sociali. Nel sistema capitalistico, al contrario, sono i rapporti sociali a essere definiti tramite i rapporti economici.

Anche in società dove tutto sembra vivere all’ombra del profitto, però, ci sono oasi in cui di tanto in tanto si cessa di essere utilitaristi. 

 

Il dono, per esempio, è un’eccezione alla regola che suggerisce di tenere le proprie cose per sé e ottenerne altre tramite l’acquisto o lo scambio esplicito. Eppure donare è essenziale, fondamentale, ma qual è l’importanza del gesto? Perché si dona? Per instaurare relazioni. 

A intuirlo in maniera determinante fu l’etnologo francese Marcel Mauss, quando nel 1924 scrisse il celebre Saggio sul donoForma e motivo dello scambio nelle società arcaiche.

L’antropologia ci offre molti esempi di società presso le quali il dono costituisce uno degli elementi fondanti. In alcuni casi però gli antropologi hanno peccato di “caritatevolezza”, attribuendo talvolta a popolazioni non occidentali un’immagine da buon selvaggio alieno a ogni forma di utilitarismo, che vive in modo assolutamente solidale. L’opposto rispetto a noi dove, dopo Adam Smith, tutti concordano nell’affermare che affinché la società funzioni bene ciascuno deve perseguire il proprio interesse. Se c’è qualcuno che dona per creare le basi di una convivenza, dunque, non siamo certo noi occidentali, razionali e utilitaristi. Abbiamo così relegato il dono in un dominio etnografico, congelandolo in ambiti esotici e impedendo quindi una sua ricontestualizzazione nel mondo occidentale e la sua riattualizzazione in epoca moderna.

Ma è davvero così?

 

Prendiamo il caso del Nordest italiano, da tempo celebrato quale esempio del boom della piccola industria, della cultura del lavoro, dell’ideologia capitalista convertita a livello familiare. In questa terra, che vanta i redditi medi più alti d’Italia, ci si attenderebbe di incontrare gente ossessionata dal lavoro e dal guadagno che passa il tempo a parlare di schei. In parte è così, ma proprio qui si riscontra la più elevata presenza di attività di volontariato. 

In una società che sembra avere posto l’ideale del guadagno e dell’ottimizzazione dei profitti in cima alla propria scala dei valori, ritroviamo numerose testimonianze di un impegno che non contempla nulla di remunerativo, se analizzato in chiave puramente utilitaristica. Che cos’è l’azione di volontariato se non un dono offerto sotto forma di servizi? E che dire dei moltissimi “donatori” di sangue e di organi che consentono di salvare numerose vite, senza alcun guadagno materiale?

Anche noi occidentali doniamo. Il problema è che spesso non ce ne rendiamo conto. Il nostro immaginario è così condizionato dall’ideologia di mercato che ci sembra impossibile uscire dagli schemi dominanti. Il dono si nasconde nelle pieghe delle nostre azioni e non ci accorgiamo che molte di queste non sono affatto mosse da logiche utilitaristiche, il che non significa gratuite. Il dono non è mai gratuito: chi dona si attende un controdono, ma la differenza tra donare (e contraccambiare) e scambiare sta nell’assenza di contratto. 

 

Il dono, infatti, implica una forte dose di libertà. Non c’è l’obbligo di restituire, inoltre modi e tempi non sono rigidi. Il valore del dono sta nell’assenza di garanzie da parte del donatore. Un’assenza che presuppone una grande fiducia negli altri. Il valore del controdono sta nella libertà: più l’altro è libero, più avrà valore ciò che ci donerà a sua volta. Il dono diventa in questo caso promotore di relazioni. Quello che apre la strada al dono è la volontà degli uomini di creare rapporti sociali, perché l’uomo non si accontenta di vivere nella società e di riprodurla come gli altri animali sociali, ma deve produrre la società per vivere.  

Quando regaliamo qualcosa a qualcuno, scegliamo qualcosa che ci fa piacere regalare, ma tenendo presenti i gusti e la personalità del destinatario. Pertanto, in quel dono ci sarà qualcosa di noi e qualcosa di chi lo riceverà, perché in fondo gli oggetti sono ricettacoli di identità.

Ricevere un regalo provoca spesso una duplice sensazione: da un lato l’emozione che spinge alla gratitudine verso il donatore; dall’altro un lieve senso di imbarazzo, dovuto al fatto che in quel momento, mentre stringiamo tra le mani quel dono, sentiamo di essere passati nella condizione di “debitori” nei confronti di chi ha voluto farci un regalo. Il pensiero, infatti, si rivolge subito al modo in cui cercheremo di “sdebitarci”. 

 

Debito è una parola che non amiamo, ci fa sentire in colpa se gli indebitati siamo noi, in ansia se siamo creditori... In uno scambio mercantile, al termine della transazione i partner si ritrovano proprietari di quanto hanno acquistato o barattato. Mentre prima dello scambio uno doveva dipendere dall’altro per soddisfare i propri bisogni, a scambio avvenuto, entrambi risultano reciprocamente indipendenti e senza obblighi. Nel caso del dono, il ricevente non “paga” sul momento, come in una normale transazione commerciale. Chiunque di noi si sentirebbe offeso se, facendo un regalo, ci vedessimo contraccambiare su due piedi con un altro regalo (tranne che nelle occasioni stabilite, come il Natale). La restituzione avviene nel tempo ed è grazie a questa dimensione prolungata che il debito si protrae e mantiene attivo il legame tra le due parti. 

 

Tutto nasce dal fatto che nella nostra percezione tendiamo ad associare il debito alla sfera economica, mentre facciamo rientrare il dono in quella affettiva. Forse è per questo che siamo un po’ restii a chiamare con un freddo termine contabile quello che ci sembra essere invece un sentimento tra i più genuini, che riserviamo a parenti, amici e persone care. Infatti, nell’ambito familiare lo stato di debito è considerato normale, ma non viene percepito come tale. I genitori spesso donano ai figli molto più di quanto ricevano, ma non per questo si sentono creditori, né necessariamente i giovani si sentono in dovere di sdebitarsi. Anche in una coppia o tra amici si contraggono debiti (scambi di favori, di oggetti, d’affetto). Si dona perché ci fa piacere l’atto del donare. Donando si genera debito e quindi si crea squilibrio. Se osserviamo i rapporti di coppia o di amicizia è proprio nella situazione contraria, cioè in uno stato di equilibrio dare/avere che si determina la rottura di un rapporto. Il celebre gesto della restituzione dei regali al partner per sancire la fine di una storia ristabilisce la parità e annulla il debito. Allo stesso modo, l’inizio di un rapporto è spesso segnato da un regalo o da uno scambio di regali, che altera la situazione di parità originale, creando asimmetria. Sembrerebbe una contraddizione: dono e controdono dovrebbero portare a un equilibrio, ma allo stesso tempo generano una sorta di conflitto permanente. L’antropologia ci ha però insegnato come l’equilibrio di un gruppo non nasce per forza da uno stato di inerzia, ma spesso da una serie di conflitti interni controllati.

 

Si dona per soddisfare il proprio piacere di vedere felice un’altra persona, ma non è affatto un atto gratuito. Tale gesto rientra in una “economia della gratitudine”, uno stato di debito reciproco, nutrito da surplus, da sorprese e che fa sì che ciascuno possa dire dell’altro: «Gli devo molto».

Non tutti i doni creano relazione, in alcuni casi possono, al contrario, spezzarla. Pensiamo, per esempio, alla carità: certo è un dono, ma non ci si attende certo di essere ricambiati dal mendicante. Si fa quindi la carità per aiutare chi è più sfortunato di noi, ma la carità ferisce chi la riceve, è umiliante, perché chi riceve non può restituire. Il circolo virtuoso identificato da Mauss si spezza. 

Al triangolo donare-ricevere-contraccambiare viene a mancare un lato, l’ultimo. 

Questa assenza dà vita a gerarchie sociali ed economiche che si trasformano inevitabilmente in rapporti di forza e trasforma il ricevente in debitore impotente. 

 

Sono molte le occasioni che ci si presentano di donare in modo spersonalizzato o generalizzato: pensiamo alle donazioni in caso di catastrofi o alle iniziative di raccolta fondi per aiutare i Paesi più poveri o per finanziare la ricerca per la cura di malattie rare. La carità, istituzionalizzata tramite enti organizzati, non è più un dono al prossimo, ossia al vicino, a qualcuno che conosciamo, ma diventa un dono finalizzato a lenire sofferenze e disagi più grandi, meno definiti. Al singolo destinatario si sostituisce una categoria (poveri, affamati, affetti da determinate malattie, colpiti da catastrofi) più o meno vasta e quanto mai anonima. Questo tipo di dono diventa un atto che lega soggetti astratti: un donatore che ama l’umanità e un destinatario che incarna la miseria del mondo. 

Si tratta di una tipica forma di dono generalizzato che non prevede un controdono in beni materiali. Se c’è un beneficio per il donatore, sarà semmai di tipo interiore. Si tratta di una sorta di riconversione. Il donatore non offre qualcosa di davvero suo, non sceglie un oggetto che rappresenti in qualche modo il rapporto tra lui e il destinatario. Il donatore offre del denaro, suo come appartenenza materiale ed economica, ma non “suo” in quanto segnato da un rapporto affettivo unico (se affetto o attaccamento c’è, è per il denaro in genere, non per “quel” denaro). 

L’uomo è soprattutto un essere relazionale e crea relazioni attraverso il dono. Se proviamo a spogliare il dono dai suoi abiti “esotici” e “primitivi” e a ripensarlo come un riferimento per contrastare quell’anonimato che tanto ci spaventa, scopriamo la grande attualità della lezione di Marcel Mauss.

 

Un circuito di scambio

 

L’arcipelago delle Trobriand si trova al largo della costa nord-orientale della Nuova Guinea. Fu qui, nel secondo decennio del Novecento, che nacque la moderna antropologia, fondata sulla ricerca sul campo, grazie alle ricerche di Bronislaw Malinowski. La sua celebre opera Gli argonauti del Pacifico occidentale non è fondamentale solo per il suo ruolo storico e pionieristico, ma anche per l’accuratezza etnografica e l’acume delle intuizioni contenute. 

Tra le tante classificazioni possibili per questo testo, rientra anche quello di primo studio di antropologia economica. Malinowski voleva dimostrare che alcune usanze locali, bollate come insensate e primitive, avevano in realtà una loro logica e che le idee degli economisti sulla razionalità peccavano, invece, di etnocentrismo. Per lui erano addirittura inefficaci anche applicate al capitalismo occidentale, da lui considerato non meno intriso di magia e di simbolismo di quanto non lo fossero i sistemi di pensiero chiamati “primitivi”.

Gli argonauti malinowskiani delle Trobriand non viaggiavano alla ricerca di un vello d’oro, ma navigavano da un’isola all’altra dell’arcipelago, percorrendo migliaia di chilometri. 

Affacciato dalla sua veranda sull’isola di Kiriwina, Malinowski vedeva arrivare ogni giorno piroghe da direzioni opposte. […]

 

Da Aime, Pensare altrimenti, Add editore 2020.

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mercoledì 27 gennaio 2021

la paesitudine applicata al tempi del Covid-19

 

Il paese inesistente - Franco Arminio

 

Quando ci fu il terremoto ogni sera stavamo in televisione, e questo ci sembrava strano. C’era quasi un senso di contentezza: finalmente si occupano di noi. In Italia i paesi esistono come luogo della sciagura, il paese è semplicemente lo sfondo. La loro vita quotidiana non interessa a nessuno, a cominciare da chi li abita. Questo volevo dire quando ho scritto: qui se ne sono andati tutti, specialmente chi è rimasto.

In questi giorni ho ascoltato in Parlamento i discorsi fatti dai parlamentari che dovevano decidere se dare o meno la fiducia al Governo Conte. Sono state due giornate dedicate all’aritmetica, non potevo aspettarmi attenzione per l’orografia. E infatti nessuno ha parlato di montagne. A un certo punto qualcuno ha citato Taranto. Non mi pare di aver sentito altri nomi di luoghi, sicuramente non ho sentito nomi di paesi o di zone geografiche: mi sarebbe piaciuto che qualcuno citasse la Barbagia o l’Aspromonte, le valli bresciane o le colline marchigiane. Niente, le persone che parlano in Parlamento sembrano venire tutte dallo stesso luogo, una città senza nome e senza lingua: la città della politica. Il futuro della politica è coniugare la cura del mondo e la cura dei luoghi. Il pianeta e il piccolo paese. Vorrei capire dove sono nate e dove vivono le persone che ho ascoltato in Parlamento nel gennaio 2021, nei giorni in cui le persone non si possono baciare, non si possono stringere la mano. Se qualcuno di loro è nato o vive in un paese se lo è sicuramente scordato. Se la politica deve rappresentare le persone e i loro problemi perché nessuno rappresenta le persone i problemi dei paesi? Andare in Parlamento significa occultare la propria paesanità? Ma se è così è un atteggiamento provinciale. Se uno pensa che citare l’America sia più importante che citare le valli di Comacchio non ha capito niente del futuro che ci aspetta. La modernità non sarà mai più la fuga dall’arcaico, ma un sapiente intreccio di quello che siamo stati e di quello che vorremo diventare. E questo intreccio in ogni luogo assume un colore diverso. Ai politici di governo e di opposizione bisogna ricordare che i soldi da spendere per fronteggiare la crisi pandemica non si spenderanno in astratto, nella città astratta della politica, ma in posti che hanno storie diverse e che sono abitati da persone e da piante e da animali. Sono terre dove non sappiamo se può piovere a oltranza per tre giorni o per trenta giorni, sono luoghi dove bisogna valutare lo stato delle acque e della terra. La terra è un’altra cosa di cui si parla poco in Parlamento, come se fossimo tutti avvocati e architetti. Il formaggio, la farina, l’insalata, le uova: nessuno le ha sentite queste parole nei giorni della fiducia al governo. Forse l’oggetto della fiducia dovrebbe essere la realtà, ci vorrebbe un patto per la realtà, un bene in cui siamo immersi e che sta velocemente evaporando, come se tutti stessimo traslocando nell’irreale. Perfino la pandemia, con le dolorose conseguenze che produce, rischia di diventare uno sfondo a cui ormai ci siamo abituati e qualcuno potrebbe avere la tentazione di non rimuoverlo più questo sfondo, magari ne viene qualche guadagno alla propria carriera. L’irrealtà è il grande cancro dello spirito con cui ci troviamo tutti a combattere. Nominare i luoghi è un esercizio fondamentale non solo per i politici. Come è bello dire Luca, Carmela, Antonio, Patrizia, così è importante dire Roghudi, Senerchia, Perugia, Biella. Solo qui sappiamo nominare le cose, non su Marte, non sul pianeta parlamentare.

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IL CANTIERE DELLA FIDUCIA - Franco Arminio

 

Scrivo da anni sulla questione dei paesi. Ogni volta che lo faccio, cerco sempre di partire dalla visione di un luogo. Per questo motivo, sono andato a Santomenna. Non arriva a 400 abitanti, sta in un punto della provincia di Salerno che sembra allontanarsi da tutti gli altri e va a posarsi al confine con l’Irpinia e la Basilicata. Ai tempi del terremoto del 1980, Santomenna faceva parte di una trilogia di paesi totalmente distrutti perché assai vicini all’epicentro. Gli altri due sono Castelnuovo di Conza e Laviano. Santomenna ora potrebbe essere l’emblema dello spopolamento dell’Italia interna. Non solo perché ha perso tanti abitanti. È uno spopolamento radicale: non ci sono vacche e non ci sono pecore, non si fa il formaggio come ancora avviene a Laviano. C’è solo un tabacchi, un piccolo negozio di alimentari e un bar. Il paese è stato tutto ricostruito, le case sono esposte al sole, l’aria è pulita, potrebbe essere un bel luogo per riposarsi. Invece, qui non ci sono “azioni in corso”. Le persone che vogliono parlare con qualcuno scendono in basso dove passa la strada e dove ci sono la chiesa, il Comune e qualche panchina. Piccoli gruppi di persone. Una volta ne trovi tre, un’altra cinque. Gli altri sono in casa, sono quasi tutti anziani. Santomenna ha tutte le carte in regola per essere definito un paese della bandiera bianca, cioè un posto che sembra arreso. Ovviamente, il sindaco non gradirà questa descrizione, ma per me il paese è interessante proprio per il fatto di essere così spoglio, essenziale. L’errore da non fare è considerare Santomenna un posto arretrato. Si può parlare piuttosto di un ritmo, di un’atmosfera che varia da luogo a luogo, ma senza pensare che un luogo sia più avanti di un altro. Il primo lavoro da fare per dare valore ai paesi è guardarli bene, guardarli uno per uno, sentirli, ascoltarli. Per fare buone strategie di sviluppo, bisogna partire dall’idea che la prima infrastruttura su cui lavorare è la fiducia. In questi anni, ai paesi la fiducia nessuno è riuscita a darla. Per questo sono cresciuti gli scoraggiatori militanti. La loro egemonia culturale è diventata così grande che spesso arrivano a eleggere anche i sindaci, votati per i sogni che non fanno. Lo scoraggiatore è diventato, in molti paesi, l’unica figura di successo, l’unica che vede confermate le sue visioni. La sua frase bandiera “qui non c’è niente” viene confermata ogni volta che un negozio chiude, che un ragazzo parte. Le politiche fatte per contrastare lo spopolamento dell’Italia interna sono state piuttosto fallimentari. Lo strumento attualmente in esercizio, la Strategia Nazionale delle Aree Interne, somiglia molto a una sceneggiatura a cui si lavora alacremente, ma il film fatica a cominciare. Eppure è sicuramente un’azione ben concepita e abbiamo anche la fortuna di avere un ministro di riferimento per quelle aree, che è competente e volenteroso. Allora perché non accade niente che ci dia entusiasmo? Perché anche nel tempo del Covid-19 non si riesce a dare quella spinta ai paesi che servirebbe molto all’Italia intera? Il motivo principale è una sorta di miopia geografica. L’Italia, nazione di paesi e di montagne, ha dato le spalle ai paesi e alle montagne. Si fanno politiche focalizzate sui centri urbani e sulle pianure. C’è di mezzo ovviamente l’opportunismo degli esponenti politici che tendono a occuparsi di luoghi che hanno più peso elettorale. C’è, ancora di più, un retaggio culturale che non va via: paesi significa mondo rurale, mondo rurale significa miseria, dunque il paese è il luogo della sfiducia più che il luogo dell’opportunità. Lo stiamo vedendo benissimo in questi mesi in cui il distanziamento fisico, che nei paesi è facile da mantenere, non si è tramutato nell’avvio di politiche per ridistribuire gli italiani sul territorio. Usando un linguaggio medico, in un momento in cui il mondo è diventato un gigantesco ospedale, si può dire che abbiamo una malattia circolatoria: nel caso dei paesi una malattia anginosa, si soffre perché arriva poco sangue; nel caso delle aree urbane si è prodotta una malattia emorragica, come se si fosse rotto un aneurisma. Davanti a problemi di questo tipo, è evidente che bisogna intervenire subito e bisogna chiedere conto alla politica della sua miopia: come si fa a non vedere problemi come questi? La risposta sta nel fatto che non se ne curano più di tanto anche le persone che abitano nei luoghi malati. Nessuno ha mai chiesto un blocco totale di certe aree quando si toccano determinati livelli di inquinamento. Nei paesi accade una cosa che si può riassumere così: qui se ne sono andati tutti, specialmente chi è rimasto. Paesani e cittadini sono accomunati dalla scarsa attenzione ai luoghi in cui abitano. In questi decenni, i legami sociali si sono allentati, è venuta fuori una malattia che io chiamo autismo corale. Nella prima stagione del Covid, l’autismo corale si era un poco allentato: eravamo distanziati ma in un certo senso più vicini. Ora il distanziamento fisico e quello spirituale procedono appaiati. La gravità dell’epidemia, ovviamente, oscura la vicenda dei paesi, la fa apparire come trascurabile. Tra l’altro, nessuno si ribella. La leva fondamentale del cambiamento dovrebbero essere i ragazzi, ma l’età più fertile è stata bonificata dalle passioni collettive. Anche le politiche per le aree interne non sembrano molto attente alle esigenze giovanili. La strategia delle aree interne dovrebbe diventare la strategia per i ragazzi e le ragazze dei paesi, la strategia della fiducia. Un paese dove qualcosa si muove deve essere connesso con quello dove non si muove niente: bisogna far migrare la fiducia, finanziare gli spostamenti di chi innova, la voglia di far conoscere il buono che c’è, di portarlo dove l’insuccesso è diventato una vocazione. Si tratta di aprire da subito un grande cantiere per passare dalla comunità-pozzanghera alla comunità-ruscello. I paesi come luogo di incubazione di un nuovo umanesimo, l’umanesimo delle montagne.

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martedì 26 gennaio 2021

Sardegna Interna e Recovery Fund: che fare? - Emiliano Deiana

 

Per le aree interne della Sardegna il Next Generation – Recovery Fund recentemente approvato dal Governo può rappresentare una straordinaria occasione di progresso.

Occorre organizzare alcune questioni di metodo che si proverà a riassumere brevemente: a) le aree interne non corrispondo né geograficamente né economicamente alle sole zone centrali della Sardegna; b) le politiche di sviluppo o sono territoriali o, semplicemente, non sono: tutte le azioni isolazioniste dei singoli sono destinate al fallimento; c) dal Piano di Rinascita ad oggi si sono dimostrate – fra le tante – almeno due cose: lo sviluppo per poli non funziona; lo sviluppo esogeno – quello attratto “da fuori” dal “contributo” – ha fallito e ha disabituato le comunità a investire sulle proprie capacità; d) sul Recovery Fund la Sardegna deve invocare l’articolo 13 dello Statuto ovvero la possibilità istituzionale di contrattare con lo Stato l’intensità dei finanziamenti e gli interventi da attuare per un “Nuovo Piano di Rinascita” che abbia caratteristiche differenti rispetto agli interventi degli anni ‘60 e ‘70 su cui occorre una profonda riflessione storica su errori e virtù: per farne tesoro; e) bisogna evitare come la peste la “sommatoria di progetti” che giacevano da tempo immemore nei cassetti degli assessorati, ma privilegiare i Piani di Sviluppo Territoriali. Le aree interne della Sardegna – con le legittime differenziazioni territoriali – si devono pensare come una cosa sola: la frammentazione della rivendicazione rischierebbe di far fallire l’esigenza indifferibile di attrarre interventi che le facciano uscire da una condizione di sostanziale sottosviluppo.

Che fare, allora?

 

Provare ad organizzare una proposta che abbia alcuni denominatori comuni che andrebbero progettati esaltando le straordinarie diversità territoriali: rivendicazione unitaria, azioni diversificate.

La prima cosa da rivendicare con forza, rispolverando la parola “resistenza” in luogo dell’abusata “resilienza” (presente anche nel Generation Next), è la garanzia alle cittadine e ai cittadini delle aree interne i diritti costituzionali fondamentali: alla democrazia, al lavoro, all’istruzione, alla salute e alla mobilità e alle reti.

“Una scuola in ogni paese” non è uno slogan, ma un tassello imprescindibile di un piano di sviluppo locale.

“Un medico di famiglia in ogni paese” non è uno slogan, ma la condizione imprescindibile che garantisce ai cittadini di Esterzili di avere gli stessi diritti alle cure degli abitanti di Cagliari: rafforzando le “comunità della salute” sui livelli territoriali e migliorando la qualità nei piccoli ospedali e dell’emergenza-urgenza.

E poi le politiche di sviluppo garantendo ulteriori diritti: alla casa, alla terra, alla rete e al digitale, al benessere familiare, a una defiscalizzazione che renda conveniente vivere e investire nei paesi della aree interne.

Nei paesi delle aree interne esiste uno straordinario patrimonio ambientale, architettonico, storico-culturale e di beni comuni che andrebbe non “valorizzato” o “sfruttato” – per restare al sillabario del passato – ma vissuto davvero dalle comunità per farne uno strumento di identità e di economia pulita.

Per combattere lo spopolamento e la desertificazione umana, però, non basta vantare diritti, ma anche praticare doveri: rendere davvero accoglienti le comunità, predisporsi al confronto e al cambiamento, uscire dal “paese-pozzanghera” e trasformarlo in “paese-ruscello” dove il ricambio di acqua e di umanità permette una vita migliore per sé e per gli altri.

A ancora: imparare a lavorare con gli altri, con chi ti sta vicino, con le comunità confinanti, con un territorio più ampio dove ognuno non basta a se stesso, ma si afferma dentro un quadro collettivo. Solo se si ricomincia a ragionare come “città di paesi” le politiche di progresso possono avere una possibilità di successo, segnare una via di futuro possibile sostituendo l’estetica della competizione con l’etica della collaborazione.

La scrittura di un buon piano di azione locale ha bisogno di tutti questi elementi.

Ed è interesse della Sardegna tutta, a partire dalle città, avere zone interne vive e vitali, culturalmente dinamiche, produttivamente innovative a partire da un ritorno acculturato alla terra e alle produzioni, paesi abitati e collegati con le aree urbane, capaci di produrre beni e servizi essenziali per tutta la collettività sarda: dove ogni comunità sia una stella di una costellazione, un tassello determinante di un mosaico la cui organizzazione si disvela nello scambio e non nella privazione.

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lunedì 25 gennaio 2021

L’armata rurale assedia la Grande Delhi - Marina Forti

  

Chi avrebbe mai detto che una protesta di agricoltori avrebbe creato un problema politico capace di mettere in imbarazzo il governo di Narendra Modi, in India. Eppure è proprio così. Da due mesi la capitale indiana Delhi è assediata da una moltitudine di coltivatori e lavoratori agricoli. Sono centinaia di migliaia di persone venute soprattutto dai grandi stati della pianura indogangetica ma in parte anche dal resto dell’India. Dalla fine di novembre sono accampati intorno alla Grande Delhi; chiedono l’abrogazione di tre nuove leggi che liberalizzano il mercato agricolo, approvate lo scorso settembre dal parlamento nazionale in gran fretta e senza dibattito. Sono determinati: hanno resistito prima alle cariche di polizia e poi al freddo invernale.

Una prova di forza

Ora, dopo undici round di incontri inconclusivi con rappresentanti del governo, le trattative sono rotte. Il governo offre di sospendere l’applicazione delle leggi contestate per 12 o 18 mesi, ma non tratterà altro. I coltivatori ripetono che non se ne andranno finché quelle leggi non saranno abrogate.

Si prepara una prova di forza. I rappresentanti degli agricoltori confermano una “marcia dei trattori” il 26 gennaio, giorno della festa delle Repubblica, quando a Delhi si svolge un’imponente parata militare. Il governo sperava di evitarlo: ma la Corte Suprema, interpellata, ha rifiutato di emettere un divieto. La dimostrazione di potenza dell’India “emergente” oscurata da un’armata rurale.

Vivere della terra

Un movimento popolare così ampio ha spiazzato il governo. La protesta dei coltivatori è stata descritta dai grandi media indiani come la rivolta di un gruppo sociale che vive di sovvenzioni di stato e teme di perdere i propri privilegi: rappresentanti di un vecchio mondo assistito che frenano le riforme necessarie a modernizzare un settore agricolo inefficiente e insostenibile. Come ha ripetuto il primo ministro Modi, le nuove leggi «liberano gli agricoltori indiani», che potranno finalmente competere sul mercato. Molti hanno sottolineato che in fondo l’agricoltura fa solo il 16 per cento del Prodotto interno lordo indiano, una fetta marginale rispetto all’industria e soprattutto i servizi cresciuti negli ultimi vent’anni. Dimenticano però di aggiungere che il 55 per cento della forza lavoro è occupata in agricoltura, e anche neppure questo dato riflette la realtà: 800 milioni di persone, su un miliardo e 300 milioni di indiani, vivono direttamente o indirettamente della terra. La protesta dell’India rurale mette in imbarazzo il governo perché ogni dirigente indiano sa che la terra e i coltivatori restano la base della società e della legittimità politica della nazione.

Sette campi di protesta, sette città temporaneee

Chi ha visitato i sette campi di protesta che circondano la Grande Delhi infatti ha raccolto una storia ben diversa da quella raccontata dai media mainstream.
La scena. Le prime colonne di trattori e camion sono arrivate dagli stati del Punjab e dell’Haryana a nord-ovest della capitale federale. Bloccati dalla polizia al confine del territorio di Delhi (è un Territorio dell’Unione, come un ministato), si sono accampati là, in località Singhu. Altre colonne di protesta sono arrivate dall’Uttar Pradesh e dal Bihar a est, e in parte dal Rajasthan a ovest; delegazioni sono giunte dal Maharashtra (lo stato con capitale Mumbai) e dal Kerala a sud. Poco a poco sono sorti ben sette siti di protesta: il più grande, a Singhu, si estende per oltre dieci chilometri. Come città temporanee popolate da uomini e donne, vecchi e giovani. Ci sono caste rurali e anche Dalit (i fuoricasta, lo scalino più basso della gerarchia sociale indiana).

La solidarietà palpabile

Secondo un’inviata di “The Wire”, «l’ossatura della protesta sono contadini senza terra e coltivatori marginali», parola che indica una misura precisa: le proprietà agricole “marginali” sono quelle sotto un ettaro, “piccole” quelle sotto i due ettari. Secondo il censimento agricolo, in India l’86 per cento degli agricoltori sono appunto marginali e piccoli, vivono su meno di due ettari di terra; nel Punjab, da cui vengono molti dei manifestanti, un terzo delle proprietà sono sotto due ettari e un altro terzo sotto 4 ettari. l’India rurale è fatta di una miriade di piccolissimi produttori. Gli accampamenti sono organizzati per resistere. I rimorchi dei camion sono diventati alloggi di fortuna. Altri hanno montato tende. Centinaia di cucine da campo servono cibo a tutti, di ogni religione o casta. «In ogni sito di protesta il livello di organizzazione e il senso di solidarietà, è palpabile», riferisce un inviato del magazine “Frontline”. Intorno agli agricoltori si è costituita una rete di solidarietà; attivisti sociali hanno organizzato dispensari medici e dormitori in edifici pubblici; sono state allestite lavanderie, perfino biblioteche.

L’atmosfera oscilla tra la resistenza e la festa popolare, con decine di assemblee pubbliche, eventi culturali, lezioni, musica. Le notti d’inverno però sono gelide nell’India settentrionale. C’è notizia di numerose persone morte di ipotermia, o infarto o altro.

Protesta diffusa: le comunità sono unite

Ma nonostante tutto la protesta continua, e questo è possibile perché ha un retroterra. In Punjab, secondo numerose testimonianze, da ciascuno dei 13.000 villaggi sono partite delegazioni di decine di persone, coltivatori e anche maestri di scuola, camionisti, rappresentanti dei municipi rurali.
«In Punjab c’è un’insurrezione», scrive un’inviata del giornale online “The Wire”, che in una sola provincia di questo grande stato ha contato 68 sit-in permanenti, grandi e piccoli. Descrive comizi e raduni pubblici, e raccolte di viveri, coperte, tende da mandare a quelli che sono andati a Delhi. I manifestanti si alternano; c’è chi torna a casa per occuparsi del raccolto mentre altri danno il cambio. «Tutte le comunità sono unite», spiegano alcuni manifestanti.
Al movimento partecipano circa 500 organizzazioni di agricoltori e sindacati rurali, raggruppati n 40 organizzazioni ora raggruppate in un coordinamento. «Il governo pensa che i coltivatori oggi siano la massa impotente e ingenua descritta dalla letteratura preindipendenza. Ma i coltivatori oggi hanno assorbito l’eredità del movimento per la libertà [il movimento anticoloniale nella prima metà del Novecento], i giovani hanno ereditato quello spirito», spiega a “Frontline” un agricoltore ed ex soldato nel sito di Ghazipur, a est di Delhi. Non per nulla tra cartelli e volantini riemerge il volto di Bhagat Singh, leggendario leader socialista rivoluzionario novecentesco.

Il contrasto alla propaganda governativa

«Abbiamo capito che bisognava contrastare la propaganda che rimbalza sulla tv e sui social media», spiega (sempre a “Frontline”) un giovane ingegnere informatico impegnato nella protesta: con un piccolo gruppo di volontari ha creato una piattaforma elettronica che mette online conferenze stampa quotidiane, interviste, testimonianze: si chiama Kisan Ekta Morcha, è divenuta la grancassa del movimento.
Ai primi di dicembre il governo aveva offerto qualche emendamento alle leggi contestate, se i manifestanti avessero sgomberato le strade. Ma quando questi hanno rifiutato di tornare a casa prima di ottenere la revoca di quelle leggi, il governo li ha accusati di essere facinorosi, estremisti, “khalistani” – riferimento al movimento separatista armato che negli anni Ottanta si batteva per uno stato indipendente in Punjab, il Khalistan. Per questo tra i cartelli comparsi nei siti di protesta molti dicono «siamo coltivatori, non terroristi».
Il movimento dunque continua. È rimasto unito, e pacifico. La prima vittoria l’ha avuta quando, il 20 dicembre, la Corte Suprema ha chiesto al governo di sospendere l’applicazione delle leggi contestate e aprire il dialogo. Le foto dei primi incontri ritraggono i rappresentanti delle 40 organizzazioni rurali intorno a un lunghissimo tavolo, con i rappresentanti di tre ministeri del governo centrale (agricoltura, commercio, ferrovie). Da parte governativa però si sono presentati solo junior ministers, l’equivalente di sottosegretari, figure senza potere decisionale: non i ministri titolari e tantomeno il primo ministro. Benché incalzato da un nuovo intervento della Corte Suprema nella prima settimana di gennaio, il governo Modi continua a prendere tempo.

I “mercati regolamentati”: la posta in gioco

Cosa è in gioco? In estrema sintesi, il sistema di regolamentazioni statali che dagli anni Sessanta del secolo scorso offre qualche protezione ai coltivatori indiani.
La prima delle tre leggi contestate infatti permetterà di commercializzare la produzione agricola al di fuori dei mercati all’ingrosso statali (mandi), attualmente regolamentati dagli Agricultural Produce Market Committees, Apcm. Secondo il governo è una riforma che «aprirà nuove opportunità per tutti i coltivatori», perché moltiplica i possibili compratori per i loro raccolti e li “libera” dalla burocrazia e dagli intermediari. Ma non ha convinto gli agricoltori: i quali temono che sul “libero mercato” non saranno loro a fissare i prezzi, bensì i grandi acquirenti. Temono anche di perdere altri servizi essenziali oggi offerti dai mercati di stato, tra cui i silos e gli anticipi per le sementi.
Le altre leggi contestate aboliscono i limiti allo stoccaggio di derrate agricole, salvo casi di emergenza (era una norma antiaccaparramento): ma così, secondo i critici, i grandi traders potranno comprare derrate quando la produzione è abbondante e immagazzinarle per metterle sul mercato quando più conviene. La terza legge infine promuove la “coltivazione a contratto”, cioè la possibilità di stipulare contratti tra l’agricoltore e il futuro compratore. Il governo sostiene che questo darà sicurezza ai coltivatori, perché sapranno che il futuro raccolto è piazzato a un prezzo pattuito in anticipo. Molti agricoltori conoscono già questo sistema, e sono scettici.
Il punto è che i “mercati regolamentati” fanno parte del sistema che include il prezzo minimo di supporto (Msp), a sua volta funzionale al Sistema pubblico di distribuzione (Pds), con cui lo stato fornisce alimenti di base a prezzi calmierati a tutti gli indiani, in particolare ai più poveri. È un intero sistema creato negli anni Sessanta per garantire un prezzo equo ai produttori e allo stesso tempo assicurare l’accesso al cibo a tutti i cittadini. È questo che oggi è in gioco.

La crisi ecologica

La Rivoluzione verde è finita. Il Prezzo minimo è sorto con la rivoluzione agraria basata sulle varietà ibride “ad alto rendimento” di grano e poi di riso arrivate negli anni Sessanta e Settanta. In India la “rivoluzione verde” ha avuto successo grazie alla fertilità della pianura indogangetica e alle sue abbondanti riserve idriche sotterranee. Convinti dalle rese abbondanti, e dalla garanzia che lo stato avrebbe comprato i raccolti a un prezzo stabilito, gli agricoltori sono passati alle nuove sementi. In Punjab e Haryana grano e riso hanno rapidamente sostituito ogni altra coltura: da poco meno di metà della superficie coltivata nel 1970, a oltre l’80 per cento nel 2010. Già negli anni Novanta l’India era passata da importare cibo a esportarne.
Ormai però il suolo fertile e l’acqua abbondante sono esauriti. In Punjab la falda freatica cala in media di 33 centimetri l’anno, tanto che va cercata con pozzi sempre più profondi, ed è spesso inquinata da residui di fitofarmaci e concimi azotati. I suoli sono sempre meno produttivi. Eppure Punjab e Haryana restano il “granaio” dell’India, grazie alle pompe che estraggono l’acqua rimasta e un grande uso di concimi: nei quarant’anni trascorsi tra il 1978 e il 2019 la produzione di grano e riso in Punjab è aumentata del 134 per cento (da 126 a 285 milioni di tonnellate), ma il consumo di fertilizzanti è aumentato oltre il 600 per cento (da 4,2 a 27,2 milioni di tonnellate: riprendo i dati dall’economista Prem Shankar Jha).
La conseguenza è duplice. Da un lato, l’India produce grandi surplus alimentari che ha cominciato a esportare. Dall’altro però la monocoltura intensiva ha innescato una spaventosa crisi ecologica. E questo ha anche fatto calare la produttività e salire le spese di produzione.

Liberalizzazione vs insostenibilità?

I sostenitori della liberalizzazione argomentano che il prezzo minimo e i numerosi sussidi di stato ormai perpetuano un’agricoltura insostenibile, ha creato una classe di coltivatori dipendenti dalle sovvenzioni, disincentiva a diversificare le colture. Altri, tra cui Jha, fanno notare che molti coltivatori hanno già diversificato, anche in quelle regioni “granaio”, e coltivano ortaggi per il mercato urbano, o altre derrate: ma proprio per questo sanno già cosa significa essere in balia del “libero mercato”. Mentre nessun governo ha mai tenuto la promessa di investire in infrastrutture, magazzini refrigerati o altro a sostegno del mercato agricolo, e devono affidarsi a intermediari che hanno un potere spropositato.
Il sistema è insostenibile? Molti in India, anche tra gli oppositori alle leggi oggi contestate, concordano che il meccanismo dei mercati regolamentati va rivisto. Che quei Comitati di gestione (i succitati Agricoltural Produce Market Committees) in cui sono rappresentati enti locali e organizzazioni di agricoltori riflettono molti dei vizi della società più generale, dalle divisioni di casta e di classe, alle azioni di lobby di vari interessi, alla burocrazia. E però «non c’è dubbio che continuano a mitigare l’arbitrarietà dei prezzi e limitare le malversazioni ai danni dei coltivatori», osserva un editoriale di “Frontline”.

Il surplus di produzione tra esportazione e interessi privati

È anche vero che i silos della Food Corporation of India (ente di stato) straboccano di derrate: quasi 28 milioni di tonnellate di riso e 55 milioni di tonnellate di grano alla fine di giugno 2020, ben 42 milioni di tonnellate più di quelle che sono considerate riserve strategiche. Così l’India ha cominciato a esportare riso (12 milioni di tonnellate l’anno scorso) e grano (circa 6 milioni di tonnellate destinate a mangimi animali). Prem Shankar Jha osserva che, dai dati ufficiali, quel riso è stato venduto sul mercato internazionale a poco più di 7 miliardi di dollari, con un profitto di 4,18 miliardi di dollari rispetto al “prezzo mimino di supporto” che lo stato aveva pagato ai coltivatori. Fin troppo facile la conclusione: «Gli immediati beneficiari [della liberalizzazione] saranno i grandi esportatori a cui la Food Corporation venderà i suoi surplus» a poco più del prezzo minimo, conclude Jha. Tra i manifestanti è convinzione diffusa che tra questi i beneficiari abbiano un nome: le imprese di Mukesh Ambani e di Gautam Adani, due multimiliardari molto legati al primo ministro Modi (i quali smentiscono di avere interessi nel mercato agricolo). Non a caso in tutto il Punjab le proteste hanno preso di mira stazioni di benzina e ripetitori dei telefonini del gruppo Reliance (di Ambani), o i silos refrigerati del gruppo Adani.

La protesta attuale è solo una parte del problema

Forse è vero, la protesta di queste settimane rappresenta solo una parte del complesso mondo rurale indiano. Il sistema dei mercati regolamentati e del prezzo minimo in effetti riguarda solo riso e grano (il progetto di estenderlo ad altre derrate non è mai decollato), e non copre le zone più periferiche. Mentre la gran parte dei coltivatori – di cereali, cotone, ortaggi o altro – è già in balia del libero mercato: di intermediari che stabiliscono le regole; di grossisti che fissano prezzi e standard. Degli usurai a cui devono chiedere anticipi per comprare sementi e concimi. Delle oscillazioni dei mercati e del clima.
Senza contare che gran parte dell’India rurale, quella più marginale, coltiva per la sussistenza, non rientra nel computo economico, e dipende dall’uso delle terre comuni. È la parte più penalizzata dall’inarrestabile accaparramento di terre avvenuto negli ultimi trent’anni per permettere l’espansione di miniere, fabbriche e grandi imprese agro-industriali.
Gli agricoltori che assediano Delhi non hanno l’aspetto di “privilegiati”. Sono convinti che le tre leggi contestate siano il preludio ad abolire anche il Prezzo minimo e smantellare quel che resta del sistema di redistribuzione costruito negli anni postindipendenza: e allora sarà peggio non solo per loro ma per tutta l’India rurale. La posta in gioco è proprio questa.

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