martedì 28 febbraio 2023

La speculazione energetica nei mari della Sardegna, diciotto istanze per centrali eoliche offshore e diciotto atti di opposizione del GrIG. No al Far West!

 

L’associazione ecologista Gruppo d’Intervento Giuridico (GrIG) ha presentato (25 febbraio 2023) quattro atti di opposizione ad altrettante istanze di concessione demaniale marittima per la realizzazione delle ennesime centrali eoliche offshore nei mari della Sardegna, in assenza di alcuna pianificazione preventiva, di alcuna considerazione della necessità dell’energia producibile, di alcuna verifica dell’utilizzabilità dell’energia producibile, di alcuna valutazione dell’impatto ambientale.

Con queste ultime siamo a diciotto istanze e a diciotto atti di opposizione.

Queste ultime istanze e i relativi atti di opposizione riguardano

* il progetto di centrale eolica offshore “San Pietro Nord” proposto dalla della società milanese Ninfea Rinnovabili s.r.l. (ha presentato analoghe richieste nei mari della Sicilia sud-est e della Sicilia sud-ovest), per “l’installazione offshore di 33 aerogeneratori di potenza nominale di 15 MW cadauno e di 1 aerogeneratore di potenza nominale di 9.0 MW per una potenza nominale complessiva totale installata pari a 504.0 MW ad una distanza minima di circa 23 km dall’Isola di San Pietro e 28 km dall’Isola di Sant’Antioco (SU)” su oltre 170 chilometri quadrati di mare, cavidotti e cabine elettriche a terra a Portoscuso;

* il progetto di centrale eolica offshore “San Pietro Sud” proposto dalla dalla società milanese Regolo Rinnovabili s.r.l. (ha presentato analoghe richieste nei mari della Sardegna nord-ovest, di Brindisi e della Maremma toscano-laziale), controllata dalla multinazionale tedesca BayWar.e. AG, per “l’installazione offshore di 34 aerogeneratori di potenza nominale di 15.0 MW cadauno per una potenza nominale complessiva totale installata pari a 510.0 MW ad una distanza minima di circa 23 km dall’Isola di San Pietro e 31 km dalla costa di Portoscuso (SU) e da Capo Pecora (Iglesias)”, su oltre 200 chilometri quadrati di mare, cavidotti e cabine elettriche a terra a Portoscuso;

* il progetto di centrale eolica offshore “Sardinia South 1” proposto dalla società milanese . Avenhexicon s.r.l. (ha presentato analoghe richieste nei mari della Sardegna nord-ovest e della Gallura), joint venture fra il gruppo Hexicon e Avapa Energy, per “la realizzazione e l’esercizio di un impianto eolico off-shore di tipo floating nella zona di mare territoriale antistante la costa meridionale della Sardegna, nel tratto di mare antistante Capo Teulada e l’Isola del Toro” con “un numero totale di aerogeneratori pari a 64 ed una potenza totale dell’impianto di 1.600 MW”, su circa 400 chilometri quadrati di mare, cavidotti e cabine elettriche a terra a Cagliari, Quartu S. Elena e Selargius;

* il progetto di centrale eolica offshore “Sardinia South 2” proposto sempre dalla società milanese . Avenhexicon s.r.l. per “la realizzazione e l’esercizio di un impianto eolico off-shore di tipo floating nella zona di mare territoriale antistante la costa meridionale della Sardegna, nel tratto di mare antistante Capo Teulada e Capo Spartivento” con “un numero totale di aerogeneratori pari a 30 ed una potenza totale dell’impianto di 750 MW”, su circa 170 chilometri quadrati di mare, cavidotti e cabine elettriche a terra a Cagliari, Quartu S. Elena e Selargius.

Il GrIG ha presentato gli atti di opposizione alla Capitaneria di Porto di Cagliari e ha informato contemporaneamente il Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica, il Rappresentante unico statale nelle Conferenze di servizi, la Regione autonoma della Sardegna, i Comuni di Carloforte, Portoscuso, Iglesias, Fluminimaggiore, Teulada, Domus de Maria, Cagliari, Quartu S. Elena e Selargius…

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…Che cosa si potrebbe fare.

Cosa ben diversa sarebbe se fosse lo Stato a pianificare in base ai reali fabbisogni energetici le aree a mare e a terra dove installare gli impianti eolici e fotovoltaici e, dopo coinvolgimento di Regioni ed Enti locali e svolgimento delle procedure di valutazione ambientale strategica (V.A.S.), mettesse a bando di gara i siti al migliore offerente per realizzazione, gestione e rimozione al termine del ciclo vitale degli impianti di produzione energetica.

Siamo ancora in tempo per cambiare registro.

In meglio, naturalmente.

Gruppo d’Intervento Giuridico (GrIG)

lunedì 27 febbraio 2023

La Consulta ha deciso: va tutto bene! - Francesca Ceccatelli

 

La Corte ha depositato tre pronunce in materia di legittimità costituzionale dell’obbligo 'vaccinale'. Un'incredibile arrampicata sugli specchi con enunciazioni imbarazzanti per qualsiasi giurista

 

La Corte Costituzionale in data 9 febbraio 2023 ha depositato tre pronunce in materia di legittimità costituzionale dell’obbligo “vaccinale” anti Sars-Cov-2 di cui al D.L. 44/2021.

È difficile riassumerne il contenuto in poche righe ed “a caldo”, perché ogni singola riga è ricca di enunciazioni in punto di fatto e di diritto così sorprendenti al punto tale che qualsiasi giurista, favorevole o meno all’inoculazione di tale prodotto, dovrebbe chiedersi se tutto ciò che ha faticosamente studiato è reale o meno.

L’arrampicata sugli specchi inizia con la pronuncia n. 14 relativa alla compatibilità dell’obbligo con numerose disposizioni della Carta costituzionale, fra cui gli artt. 32 e 34, nonché con la disciplina del consenso informato ex L. 219/2017.

Cosa dice la Consulta? È semplice: va tutto bene!

È inammissibile, così sancisce, la questione di legittimità in relazione agli artt. 3, 4, 33, 34 e 97 Cost., mentre sono infondate le questioni di legittimità relative all’art. 32 Cost. nonché alla L. 219/2017.

L’obbligo imposto ai sanitari ex D.L. 44/21, pena la sospensione dall’attività lavorativa nonché della retribuzione, è proporzionato e ragionevole. Il Legislatore ha agito sulla base delle conoscenze medico-scientifiche di quel momento storico (sicuri?), ove quel trattamento sanitario era l’unica soluzione (ah sì?) per fermare la diffusione del virus. Il lavoratore aveva facoltà di scegliere se sottoporsi a tale trattamento sanitario e quindi conservare il posto di lavoro, oppure se non adempiere e rimanere senza retribuzione: se ha scelto di non “vaccinarsi”, cosa pretende adesso?

Questi prodotti sono efficaci e sicuri: lo dicono addirittura ISS, AIFA e Ministero della Salute! E l’accadimento di un effetto avverso è da attribuirsi al caso fortuito (sarà colpa della potatura o della pizza?) e deve essere ricondotto alla situazione individuale. D’altra parte, la Consulta si dichiara bene consapevole che qualsiasi trattamento sanitario può comportare il verificarsi di un evento avverso (davvero??), e in virtù della solidarietà fra consociati l’operatore sanitario che non vi si è sottoposto ha sbagliato…

Come era prevedibile la Consulta ha disposto che i noti parametri di compatibilità dell’obbligo di un trattamento sanitario con l’art. 32 Cost. erano stati dalla stessa dettati (si vedano le pronunce n. 307/90, n. 258/94 e n. 5/2018) in momenti ordinari, normali, e pertanto devono essere necessariamente adeguati poiché qui siamo di fronte ad un contesto emergenziale, addirittura pandemico.

Infatti gli eventi avversi sono così pochi e di gravità rara (vi è sicuramente un qualche evento più grave di una paralisi o del decesso…) in proporzione al numero di cittadini che si sono “vaccinati”, che possono dirsi rispettati quei criteri dettati dalla Giurisprudenza della Consulta!

E poi se capita per caso fortuito un evento avverso c’è l’indennizzo!

Ma sostiene che sia stata rispettata anche la normativa sul consenso informato perché l’operatore sanitario che si reca a farsi inoculare tale prodotto, prima di procedere, legge e firma il modulo… Non importa se le informazioni non sono attuali, aggiornate e specifiche come la Legge ha sempre richiesto: l’importante è che firmi, sotto la propria responsabilità, il modulo che la stessa Giurisprudenza di Cassazione ha sempre sancito non essere da sé solo sufficiente ai fini della formazione di un consenso libero ed informato…

Ma non si ravvede una incongruenza ed illogicità fra trattamento obbligatorio e sottoscrizione del consenso “libero” ed informato? Non è dato sapere…

Gli esami prevaccinali? Non sono mai stati fatti prima con gli altri vaccini e quindi perché farli adesso?

Il triage non viene eseguito dal Medico di Medicina Generale? Non è previsto come obbligatorio e quindi non perdiamo tempo su questioni inutili…

Il monitoraggio? Ci pensa il Ministero della Salute e quindi va benissimo così…

Insomma, va tutto bene.

Ma è nella pronuncia n. 15 che la Consulta dà il meglio di sé: qui decide in merito alla legittimità costituzionale dell’obbligo ex D.L. 44/21 in riferimento alla mancata previsione di un assegno alimentare a beneficio degli operatori sanitari che decidono di non adempiere.

Che non si dica che questi sono prodotti sperimentali! E guai a dire che non migliorano o non preservano lo stato di salute proprio ed altrui! Ma soprattutto, posto che hanno consentito di limitare la diffusione del virus nonché di contrarre la malattia grave (davvero?), il sanitario che decide di non adempiere lo fa nella consapevolezza di costituire un rischio per l’ambiente di lavoro (veramente?) e quindi non può pretendere che il datore di lavoro, che giustamente lo ha sospeso e gli ha tolto il pane sotto ai denti per sé e per la sua famiglia, sostenga pure il peso di corrispondergli un assegno familiare.

Ed a pagina 29 si legge la parte più creativa:

“La scelta si è rivelata, altresì, ragionevolmente correlata al fine perseguito di ridurre la circolazione del virus attraverso la somministrazione dei vaccini. La stessa circostanza, evidenziata dal rimettente, che il Ministero della salute abbia dichiarato «tassativamente falsa l’affermazione secondo cui se ho fatto il vaccino contro SARS-CoV-2 e anche il richiamo con la terza dose non posso ammalarmi di Covid-19 e non posso trasmettere l’infezione agli altri», non vale ad inficiare la scelta operata dal legislatore di prescrivere, per le diverse categorie degli operatori sanitari, l’obbligo vaccinale, ma solo a rendere consapevoli i soggetti vaccinati della inevitabile impossibilità di restare del tutto immuni dalla malattia e, ancora prima, dal contagio. Invero, l’affermazione che un vaccino sia efficace solo se esso produca una immunizzazione pari al 100 per cento delle somministrazioni, da un lato, non può ritenersi sorretta da un’adeguata dimostrazione scientifica; dall’altro, non esclude affatto che, in una situazione caratterizzata da una rapidissima circolazione del virus, i vaccini fossero idonei a determinare una significativa riduzione di quella circolazione, con ricadute tanto più apprezzabili in ambienti o in luoghi destinati ad ospitare persone fragili o, comunque, bisognose di assistenza”.

E poi il sacrificio chiesto al sanitario non era poi così grave perché l’obbligo comunque era in vigore solo fino al 31/12/2021 e quindi era un sacrificio solo temporaneo.

Insomma caro sanitario sospeso… anche se l’assegno alimentare viene concesso a coloro che sono stati condannati ex art. 416 bis c.p., non sappiamo se per la Consulta tu lo meriti. Il lato positivo è che la dichiarazione di inammissibilità di tale questione fa rivivere l’orientamento di diversi Tribunali ordinari ed amministrativi che hanno concesso tale istituto ai sanitari sospesi ex D.L. 44/21.

Infine la pronuncia n. 16: la mancata previsione nel D.L. 44/21 della facoltà per alcuni operatori sanitari, quali gli Psicologi, di lavorare da remoto senza andare incontro alla sospensione se non inoculati, viola la Costituzione?

Non lo sappiamo… perché il Tar Lombardia che ha sollevato la questione di legittimità costituzionale non aveva giurisdizione. Richiamando quindi le Sezioni Unite della Suprema Corte che hanno di recente stabilito la cognizione del Giudice ordinario nelle controversie relative a diritti soggettivi (nella specie il diritto al lavoro), stante la carenza di giurisdizione del Tar Lombardia, viene tutto dichiarato inammissibile.

Affermando quindi l’efficacia e la sicurezza di tali prodotti (sulla base di cosa non è dato sapere…) verrà da sé che coloro che hanno così deciso continuino, per coerenza e per dare il buon esempio, a fidarsi delle istituzioni e della loro “scienza”, e quindi ci aspettiamo che proseguano con gli ulteriori richiami che verranno consigliati, per il bene della salute propria e di tutta la collettività, in nome di una fantomatica solidarietà sociale che va tanto di moda ma che ormai è stata falsata e stravolta.

Ognuno risponde sempre delle proprie azioni e delle proprie parole… ma l’importante è il festival di Sanremo e che il popolino sia contento di sentire un comico che nella più completa ipocrisia, e pagato con i nostri soldi, parla di quanto sono belle le libertà costituzionali alla presenza di quelle istituzioni che le hanno violate per tre anni (almeno).

Ma ricordiamoci di una cosa, la più importante… la luce vince… sempre!

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domenica 26 febbraio 2023

Dieci milioni di abitazioni “vuote” in Italia


Fra le tante follìe del consumo del territorio ci sono le abitazioni vuote.

Non abitate, non utilizzate.

Gruppo d’Intervento Giuridico (GrIG)

10 MILIONI DI CASE “VUOTE”

dati ISTAT 2019 sulle abitazioni occupate e non occupate dalla popolazione residente sono la prova del fallimento della “pianificazione urbanistica” e della “pianificazione edilizia” nel nostro paese: 10 milioni (!) di abitazioni non utilizzate, pari al 29,73% del totale delle case presenti sul  territorio nazionale.

Tale fallimento, alla fine, è solo uno dei tanti  sintomi della malattia  chiamata  “consumo di suolo”. Un fallimento condiviso fra tutta  la classe politica, di destra e di sinistra, nazionale, regionale, comunale. Antonio Cederna ha scritto come l’espansione  incontrollata  del cemento a scopi abitativi  si realizza  “perché gli amministratori locali nei loro piani e programmi, per pressioni campanilistiche, elettorali e clientelari, tendono a moltiplicare  per cinque o per cinquanta le capacità abitative dei loro comuni” e perché la timida difesa della “funzione sociale della proprietà privata”, operata dall’ articolo 42 della nostra Costituzione, non scalza l’equivoco di fondo secondo il quale il “diritto a edificare” è connaturato al “diritto di proprietà”.

Resta il fatto che, con il “trend demografico” in atto, l’invecchiamento della popolazione e la  presenza di “abitazioni inutilizzate” in un numero  con  cifre a  sette zeri(10.000.000), rilasciare  permessi di costruire e licenziare Piani di Assetto del Territorio (PAT)  con la previsione di nuove unità abitative  diventa  una forma di “abusivismo edilizio” praticato dalle istituzioni. L’atto di privare la comunità dei “servizi ecosistemici del suolo”  attraverso una cementificazione immotivata è una forma di  “abusivismo  edilizio istituzionalizzato”:  chiamiamo con il loro nome gli atti degli amministratori pubblici quando questi sacrificano una risorsa non rinnovabile senza una ragione plausibile.

Ancora oggi si continua a costruire nuove residenze su suolo libero, a dispetto del calo demografico, dell’invecchiamento della popolazione, dello spopolamento  dei centri minori e  del fenomeno che si sta già verificando in alcuni comuni: i decessi doppiano le nascite.

 

Leggendo l’elaborazione della società Openpolis dei dati ISTAT, che fotografa un trend presente in tutto il territorio nazionale, salta all’occhio come in Veneto   la  cementificazione residenziale  diffusa  sia proseguita e prosegua nonostante sia in vigore dal 2017 una legge per il  “contenimento del consumo di suolo”  che, con 16 deroghe, incrementa   le dimensioni dell’emergenza ambientale del “consumo di suolo” che viene così indebolito  delle sue “capacità ecosistemiche”  di mitigare gli effetti dei cambiamenti climatici.

Nei comuni veneti,  nella elaborazione della società Openpolis dei dati ISTAT,  la  percentuale  di abitazioni non occupate  oscilla dal 10% al 38%. Ci sono percentuali  più basse di abitazioni non utilizzate nei maggiori centri urbanizzati e nei comuni limitrofi, dotati di servizi e percentuali più alte  di abitazioni non utilizzate nei paesi e borghi più periferici e con un sensibile processo di spopolamento in atto (li potremmo chiamare le “zone interne” del ricco Nord Est): una “dicotomia urbanistica”. Davanti a questa “dicotomia urbanistica” ancora una volta la “legge veneta per il contenimento  del consumo di suolo” fa un buco nell’acqua,  parlando  di “rigenerazione urbana”, ma intesa  solo come una declinazione urbanistica e architettonica e, nei fatti, localizzata nei centri dove la “rendita fondiaria” può fare facili profitti. La legge veneta per il “contenimento del consumo di suolo”, purtroppo, fa di più  e di peggio: non considera    “consumo di suolo per nuove unità abitative” qualora questo avvenga negli “ambiti di urbanizzazione consolidata”. Abbiamo quindi, da  un lato, un’ulteriore densificazione urbanistica  nei centri maggiori con consumo di suolo in deroga (e sparizione del verde rimasto)  e, dall’altro, lo “spopolamento” dei centri minori  bisognosi di progetti di rigenerazione urbana, sociale ed economica utilizzando le  cubature edilizie esistenti.

La regione Veneto rigira il coltello nella piaga quando con la legge ordinamentale n. 29 del 25 luglio 2019   riesce a inserire una ulteriore deroga (la diciassettesima) nei territori compresi nella “core zone” del sito Unesco delle colline del Prosecco per “realizzo di strutture ricettive in zona agricola con possibilità di ampliamento fino a 120 metri cubi”, esentando dal conteggio del consumo di suolo l’adibizione a dipendenze di  albergo diffuso delle vecchie casere disseminate nelle colline e, questo, nonostante  nei borghi e nei comuni degli stessi territori  ci siano  notevoli percentuali di immobili inutilizzati che dovrebbero ispirare, oltre a uno loro riqualificazione a scopo turistico,  un profondo processo di “rigenerazione urbana” in termini edilizi, architettonici e di servizi (di trasporto, sociali, sanitari, negozi di prossimità, ecc.). Refrontolo, Follina, Valdobbiadene, Miane hanno percentuali di immobili inutilizzati che oscillano tra il 33% e il 37%: più di un’abitazione su tre risulta non utilizzata.  Miane, ad esempio, a fronte di 2217 abitazioni totali dispone di 1400 abitazioni occupate e  di 817 abitazioni non occupate che, almeno una parte,    un appropriato processo di rigenerazione urbana  potrebbe adibire  a dipendenze di albergo diffuso, senza cementificare con strade e servizi le colline, il bosco e il paesaggio. Da notare come, teoricamente, 817 abitazioni non occupate, essendo 2,7 il numero medio di residenti per abitazione, una volta ristrutturate potrebbero fornire alloggio  a  2205 persone (il 70% della popolazione attuale).

I dati ISTAT ci offrono diversi “spunti ribelli”:

Di base resta una profonda ignoranza della politica sul valore ecologico della risorsa delle risorse e come  la partitocrazia sia  allergica a pronunciare la parola “stop al consumo  di suolo”, anzi, cerca di svicolare in tutte le maniere, magari parlando di “rigenerazione urbana” e  assistendo passiva allo spopolamento di intere aree geografiche della regione.  Quando l’ambientalismo veneto prenderà  coscienza della necessità di raccogliere le firme  per un “referendum abrogativo” della legge regionale veneta sul consumo di suolo e delle sue 16 deroghe? Solo lo “stop immediato”  e un periodo di “moratoria” di alcuni anni  sul nuovo consumo di suolo può costringere amministratori, imprenditori, geometri, architetti, urbanisti, cittadini a riusare e riqualificare l’esistente.

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sabato 25 febbraio 2023

Aiutiamola a casa loro - Alessandro Ghebreigziabiher


C’era una volta una donna, okay?
Una signora anziana, ovvero una persona come tante, banalmente definibile un essere umano.
Anzi no, altrimenti qui ci si guadagna di nuovo l’etichetta buonista, e d’altra parte la legge è legge, cribbio, che poi qualcun altro allude pure alla carta del razzismo e stavolta non è il caso, dico sul serio.
Diciamo una straniera in terra straniera, va bene? Così restiamo sul generico e nessuno si sente toccato sul nervo nascosto, più che scoperto.
La nostra ha 74 anni ed è anche in gravi condizioni di salute. Alzheimer, dicono, il che aggrava ogni cosa, dalla storia alla protagonista di quest’ultima.
Per colpa della malattia, o forse della follia del mondo in cui tutti viviamo, non è stata in grado di completare in tempo i documenti per restare nel Paese che la ospita.
Così, dopo 18 anni vissuti in una nazione che è ormai diventata la sua, secondo le norme vigenti dovrà tornare nella terra d’origine.
“Sono distrutto e arrabbiato”, ha dichiarato il figlio. “È disumano spostare da dove vive una persona che ha l'Alzheimer ed è troppo malata anche solo per prendersi cura di se stessa.”
L’uomo ha sposato una ragazza del luogo ed è per questo che la madre si è trasferita da lui. Per trascorrere l’ultimo tratto di vita vicina ai suoi cari, figlio, nuora e soprattutto i quattro nipoti.
In una calpestata, ancor prima che sottovalutata parola, per amore, quando intorno al 2005 la vittima di questa vicenda ha lasciato la sua patria con il marito che ora non c’è più. Un'auto deportazione, se volete, ma nell’accezione migliore.
Circa otto anni dopo il nemico pubblico numero uno della memoria e dell’intelletto ha cominciato a farsi impietosamente vivo e col tempo le condizioni della donna sono repentinamente peggiorate, sino a renderla incapace di nutrirsi, lavarsi o perfino parlare.
Così, il figlio si è convinto ad affidarla a una casa di cura.
Da un certo punto di vista, la seconda deportazione, malgrado con affetto e per necessità.
Nondimeno, è la terza che forse farà più male a tutti i soggetti interessati, con facoltà di intendere o meno.
Perché a decidere la definitiva separazione tra la nonna e i suoi familiari è un pugno di parole ottuse più che crudeli scritte da qualche parte e sottoscritte da individui altrettanto stolti, riluttanti a capire che le conseguenze delle decisioni prese dall’alto sulla vita di una quantità enorme di nostri simili, negli aspetti maggiormente disumani ricadono su ciascuno di essi.
A prescindere da ogni trascurabile quanto significativa differenza nelle origini e le fattezze del disgraziato di turno, quanto nello scotto da pagare al momento del dunque.
Perché si dà il caso che la donna che rischia di essere messa su un aereo e spedita al mittente alla stregua di un pacco, nonostante l’età e soprattutto la malattia, si trova in Svezia ed è una cittadina del Regno Unito, lo stesso Paese che si sta impegnando ossessivamente a fare lo stesso con i migranti per definizione…

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venerdì 24 febbraio 2023

L’Africa depredata dietro l’ideologia dell’«aiutiamoli a casa loro» - Lorenzo Kamel

 

L’uranio presente in Niger, dove il 90% della popolazione non ha accesso alla corrente elettrica, produce il 35% dell’elettricità della Francia. La grande maggioranza delle miniere di uranio presenti nel Paese africano - quarto principale produttore di uranio al mondo - sono di proprietà di (e vengono gestite da) società francesi: milioni di litri di acqua sono consumati ogni giorno in queste miniere, mentre gli agricoltori locali cono costretti a combattere tra loro per le scarse risorse idriche rimanenti.

I rifiuti dell’uranio raffinato in Francia vengono poi rispediti in Niger e in altri paesi dell’Africa, dove migliaia di persone sono esposte alle radiazioni provenienti dalle miniere di uranio. Tutto ciò contribuisce a rendere il Niger uno dei paesi più poveri dell’Africa e, stando a Save the Children, «il peggiore al mondo dove essere bambini».
A CIÒ SI AGGIUNGA che il 50% delle riserve monetarie di 14 Paesi africani (tra cui il Niger) sono ancora oggi sotto il pieno controllo di Parigi: nessuno di essi ha alcun controllo sulle proprie politiche monetarie e macroeconomiche. La Francia ‘ottiene’ ogni anno da Paesi africani miliardi di euro sotto forma di ‘riserve monetarie’, salvo poi prestare parte di quegli stessi fondi ai legittimi proprietari a tassi di mercato.
Questi pochi dati e brevi rilievi rappresentano lo specchio di una verità ben più ampia: ancora oggi diversi Paesi europei, Francia in primis, controllano e plasmano la vita di milioni di africani, - tre quarti dei quali vivono con meno di 2 dollari al giorno - influenzandone il presente e il futuro.
Le corrotte leadership al potere in diversi paesi africani giocano un ruolo significativo nel processo di implementazione di queste dinamiche: garantiscono infatti la «stabilità» necessaria per portare avanti lo sfruttamento di milioni di esseri umani e delle loro risorse naturali, ricevendo in cambio (tra molto altro) miliardi di euro in armi, sovente utilizzate (anche) per schiacciare ogni forma di dissenso interno. Non è forse un caso che il 61% dei 67 dei colpi di stato avvenuti negli ultimi 55 anni in 26 paesi africani hanno avuto luogo in ex colonie francesi.

LO SCORSO MESE (novembre 2022) un gruppo di cittadini tanzaniani ha intentato una causa presso un tribunale canadese contro il gigante minerario canadese Barrick Gold, al fine di denunciare le violazioni dei diritti umani compiute in una miniera d’oro (North Mara) presente nel loro Paese. Il caso tanzaniano rappresenta un microcosmo di come funziona il sistema, ma, prima ancora, un vademecum degli strumenti per combatterlo.
Cosa c’entra tutto ciò con i mondiali che si sono conclusi due settimane fa in Qatar? Più di quanto possa sembrare. Come nel caso di altre ex potenze coloniali e di altrettanti attori neo-coloniali, la Francia adotta un approccio assimilazionista molto selettivo nei confronti delle persone di origine africana, criticando altresì chiunque sottolinei le origini africane di Kylian Mpappé (nato da madre algerina e padre camerunense) e di circa l’80% del resto della squadra di calcio francese. Come ha sottolineato il conduttore televisivo sudafricano Trevor Noah all’ex ambasciatore francese a Washington, Gerard Araud: «Il contesto è tutto. Quando una persona come me fa presente che [i giocatori francesi] sono africani, non intende sminuire il loro essere francesi, bensì includere la mia africanità».

MENTRE PORRE L’ENFASI anche sull’«africanità» dei calciatori dovrebbe essere percepita come una legittima e necessaria espressione di onestà intellettuale (non ultimo in considerazione delle cicatrici coloniali e dei loro riverberi attuali), nonché di inclusività e rilevanza delle identità multiple, numerose politiche che hanno interessato le comunità musulmane e le persone di origine africana presenti in Francia riflettono il loro esatto opposto, ovvero un rifiuto selettivo. Prendendo in prestito le parole del calciatore dell’Inter Romelu Lukaku, «Quando le cose vanno bene sono un attaccante belga. Quando vanno male, sono un africano».

CIRCA IL 32% dei francesi di origine nordafricana - molto spesso relegati nei quartieri simbolo dell’emarginazione sociale e dell’iniquità, noti come banlieues - risultano disoccupati. Il 30% lascia la scuola senza diploma: sono dunque circa il doppio di quelli che non sono nati da genitori immigrati. Come ha documentato il Minority Rights Group International (MRG), molte delle disuguaglianze figlie della storia coloniale francese persistono dunque ancora oggi e sono «trasmesse alle giovani generazioni attraverso la mancanza di opportunità e la loro continua esclusione».

Non meno significativa è la questione che riguarda i musulmani: rappresentano appena l’8% del totale dei cittadini francesi, eppure si stima che almeno il 50% (alcune stime arrivano al 70%) della popolazione presente nelle carceri francesi sia composta da musulmani: persone per lo più originarie di paesi nordafricani.

Quelli citati sono solo alcuni esempi tra molti altri. Ciascuno di essi ci ricorda che l’inclusività iper-selettiva è l’antitesi dell’inclusività stessa. Tale approccio strutturale rappresenta una tra le componenti più significative tra quelle necessarie alla proliferazione di ciò che numerosi studiosi hanno definito «neo-colonialismo». Il colonialismo, d’altronde, si alimentava del medesimo presupposto: prendere, assorbire ed esaltare il meglio di altri popoli - rigettando tutto il resto - e offrendo briciole in cambio.

È OPPORTUNO AGGIUNGERE che, pur essendo storicamente meno coinvolti rispetto alla Francia, anche gli Stati Uniti (che vantano 27 basi e avamposti militari in Africa e stanno prendendo il controllo della filiera produttiva del rame e del cobalto in paesi come lo Zambia e il Congo), la Cina (che ha 1 base militare a Gibuti e sta, tra l’altro, decimando le foreste del Ghana), il Canada e, più di recente, la Russia, sono quattro attori particolarmente rilevanti nella promozione di pratiche neo-coloniali e di politiche discriminatorie che perpetuano oppressione e disuguaglianze.

Eppure, come hanno notato Ndongo Samba Sylla e Fanny Pigeaud in un nuovo libro sull’impatto del Franco CFA, - nonché sull’ECO, la nuova moneta meglio nota come «il Franco CFA sotto un altro nome» - la Francia è «l’unico paese al mondo a gestire a priori e direttamente, seppur in modo opaco, un insieme di valute diverse dalla propria».

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giovedì 23 febbraio 2023

TV tedesca attacca Vandana Shiva sugli OGM

Chi acquista biologico lo fa per ottenere alimenti privi di ingegneria genetica e pesticidi e prodotti in modo più ecologico e sostenibile. Il mercato del biologico è cresciuto enormemente negli ultimi decenni e la tendenza è in crescita.

Vandana Shiva promuove il biologico come nessun altro. Da oltre 40 anni è una sostenitrice dell’ecologia e dell’agricoltura biologica. Nell’ottobre 2022 sono state pubblicate le sue memorie “Terra Viva”. Alla fine di novembre è venuta in Germania per presentare la sua autobiografia e assistere alla prima del film documentario sulla sua vita, proiettato nei cinema tedeschi da dicembre. Servizi e interviste con l’attivista ambientale indiana e vincitrice del Premio Nobel Alternativo sono apparsi in numerosi media come WDR e SWR, Hamburger Morgenpost, Badische Zeitung, Münchner Merkur, Deutsche Welle, WELT e Focus.

Solo il portale online “Fact Finder” del gruppo radiotelevisivo tedesco ARD ha colto l’occasione della grande eco mediatica intorno a Vandana Shiva per presentare una versione delle cose tutta sua. Fact Finder dovrebbe servire, secondo la sua stessa definizione, a “raccogliere e correggere fenomeni come la propaganda politica, le voci, le fake news e le mezze verità su Internet” (fonte: Wikipedia). Il 13 dicembre è stato pubblicato l’articolo “L’attivista indiana Shiva: un’icona ecologica dalle opinioni discutibili“, anch’esso piuttosto discutibile, pieno di mezze verità, che, tuttavia, non approfondisce né il documentario né il lavoro di Vandana Shiva.

Fact Finder afferma che la ricercatrice è stata “corteggiata dalla politica per anni” e che diffonde “disinformazione e teorie del complotto”, negando così indirettamente ai nostri politici la capacità di distinguere tra informazioni reali e falsità. Anche il fatto che un busto di Vandana Shiva si trovi nel giardino di Highgrove, la residenza di Re Carlo III, appare sospetto a Fact Finder. Ci si chiede a quale argomentazione dovrebbe servire questa accusa, visto che si tratta solo di uno dei tanti busti di personalità che hanno reso servizi eccezionali alla protezione della natura.

L’ingegneria genetica è meglio della natura?

Quasi tutto l’articolo di Fact Finder è una specie di campagna pubblicitaria a favore dell’ingegneria genetica. Questa viene presentata come la cosa più naturale del mondo, anzi molto migliore della natura stessa, perché riduce l’uso di pesticidi in agricoltura e porta salvezza e benedizione all’approvvigionamento alimentare mondiale. Chiunque la veda diversamente è un ideologo complottista e un romantico senza speranza, questo è il tono di fondo. L’uomo che spinge l’ingegneria genetica come nessun altro in tutto il mondo – Bill Gates – viene presentato come vittima di immagini ostili costruite inconsciamente dagli oppositori ignoranti dell’ingegneria genetica. In generale, tutti coloro che criticano Gates diffondono notizie false, soprattutto Vandana Shiva.

Ma è davvero così? Fact Finder ha davvero raccolto tutti i fatti sull’argomento e confrontato tutte le opinioni e i punti di vista, oppure è stato presentato in modo selettivo solo ciò che rientra nel quadro prefabbricato? Le fonti citate sono indipendenti o finanziate dall’industria? Un’analisi dettagliata dell’articolo di Fact Finder fornisce alcune risposte sorprendenti.

Cotone OGM e suicidi tra i coltivatori indiani

Nel programma culturale dell’ARD “Titel, Thesen, Temperamente” è apparso il 26.11.2022 un ottimo articolo sul film e sul lavoro di Vandana Shiva, che però accusa a sorpresa Vandana Shiva di “falsare la verità” stabilendo un collegamento tra l’introduzione del cotone Bt geneticamente modificato e i suicidi dei coltivatori di cotone indiani. Il rapporto fa riferimento a “statistiche” che lo dimostrerebbero, ma senza citarne la fonte. Fact Finder lo recupera presentando un documento di discussione del 2008 finanziato dall’industria agricola, mentre ignora invece gli studi contrari, così come le dichiarazioni del governo indiano, che confermano apertamente il collegamento. Solo un errore occasionale nelle ricerche? 

“Riso d’oro” geneticamente modificato

Probabilmente no, perché l’articolo continua con l’affermazione che Vandana Shiva e altri attivisti hanno impedito l’uso del “riso d’oro” geneticamente modificato nel Terzo Mondo, negando così ai bambini affamati l’accesso alla vitamina A. Non viene però menzionato il fatto che il riso geneticamente modificato non è né maturo nel suo sviluppo – secondo gli stessi sviluppatori – né rilevante dal punto di vista nutrizionale – secondo nientemeno che la Food and Drug Administration (FDA) americana. In realtà, il ritardo è dovuto a ostacoli politici e brevettuali, ma anche a problemi tecnici. Gli attivisti non c’entrano nulla, come ammette anche uno dei principali scienziati del settore. Non si tratta di una verifica dei fatti che tenga conto di tutte le fonti disponibili, ma di un’opinione.

Meno pesticidi grazie all’ingegneria genetica?

Anche l’affermazione contenuta nell’articolo di Fact Finder, secondo cui l’ingegneria genetica ridurrebbe l’uso di pesticidi, è insostenibile a un esame più attento. Mentre l’uso di insetticidi è diminuito, quello di erbicidi – compreso il Roundup di Monsanto a base di glifosato – è aumentato di molte volte. Entrambi sono cosiddetti prodotti fitosanitari (pesticidi), ma l’uso dei pesticidi è aumentato complessivamente del 7%, come dimostrano alcuni studi, che però non sono stati presi in considerazione nel Fact Finder. E’ stata utilizzata solo una meta-analisi, il cui autore ha contribuito con cinque studi propri – e ha ricevuto sussidi e premi dall’industria alimentare. Una presentazione di questo tipo è unilaterale e non è né neutrale né equilibrata.

Bill Gates e le “teorie del complotto”

Le teorie del complotto sono il filo conduttore dell’intero articolo, che ovviamente cita anche Bill Gates. Non si può evitare di citarlo quando si parla di ingegneria genetica, di business alimentare e del problema della fame nel Terzo Mondo. Ma invece di affrontare la sua influenza e la questione del reale successo dei suoi sforzi e delle loro conseguenze, si brandisce selvaggiamente la clava dell'”ideologia del complotto” e si condanna tutto ciò che tratta criticamente l’argomento. Non una parola sulla ricerca giornalistica internazionale che fa luce sui retroscena del lavoro della sua fondazione, né sui milioni di persone che in tutto il mondo si battono per un’agroecologia senza pesticidi, per la sovranità alimentare e la libertà di scelta nell’ingegneria genetica. Non una parola sul fatto che nell’UE la coltivazione di piante geneticamente modificate è ancora strettamente regolamentata e non trova spazio in Germania dal 2013, anche se la lobby industriale sta cercando di cambiare questa situazione.

Confutazione

In una dettagliata analisi e confutazione preparata dall’editore dei libri di Vandana Shiva, vengono elencati tutti i punti che l’articolo di Fact Finder avrebbe dovuto chiarire e soppesare, se avesse lavorato in modo oggettivo e pulito. Oltre a ulteriori studi, fonti e articoli di fondo, vengono citati anche altri format di ARD che, in precedenti contributi su questi temi, hanno presentato affermazioni opposte. Ci si chiede quindi cosa abbia spinto Fact Finder a produrre un’opera fatta di parzialità, unilateralità e negligenza, che viola anche i diritti personali di Vandana Shiva. Citiamo dal riassunto della confutazione:

“Questo articolo di Fact Finder si concentra in gran parte su critiche infondate e confutabili a Vandana Shiva come persona, senza affrontare tecnicamente il suo lavoro. Sono state utilizzate solo fonti legate alle industrie e/o non qualificate, senza opinioni indipendenti, punti di vista diversi o controargomentazioni. Le dichiarazioni di Vandana Shiva sono state estrapolate dal contesto o distorte e i fatti sono stati travisati”.

Lontano da un’analisi obiettiva dei fatti

L’articolo di Fact Finder – che si autodefinisce “team di verifica dell’ARD” – è ben lontano da un’analisi obiettiva dei fatti, è scritto in modo tendenzioso e muove accuse gravi che non sono tuttavia credibilmente fondate. Ciò non può in alcun modo essere giustificato dalla libertà di stampa o di opinione, tanto più che si tratta di un cosiddetto fact check.

Sembra quasi che Fact Finder voglia prendere due piccioni con una fava: il discredito dell’intero movimento biologico e un’assoluzione per l’ingegneria genetica, ancora molto controversa, compreso il suo più grande investitore, Bill Gates. Ci si poteva aspettare di meglio da un mezzo di comunicazione del servizio pubblico che si impegna per un giornalismo indipendente, critico ed equilibrato. Tanto più che, secondo il rapporto del quotidiano Frankfurter Allgemeine, Faktenfinder ha già sbagliato i calcoli in passato ed è stato ammonito legalmente da parte di un tribunale. Fact Finder, quo vadis?

Traduzione dal tedesco di Thomas Schmid.

Revisione di Anna Polo

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mercoledì 22 febbraio 2023

Ma siamo mai stati davvero neutrali? - Rocco Bianchi

In Svizzera si riaccende il dibattito sul principio ed il concetto di neutralità, che ora si vorrebbe “integrale”; ma in realtà, nella storia del nostro Paese di neutralità integrale non c’è traccia

 

Dopo essere stati minacciata da richiedenti l’asilo, Unione europea, stranieri e frontalieri, ed aver smascherato la quinta colonna pluto-giudaico-massonica composta da città di sinistra e radical chic, secondo i nazionalisti nostrani pare che oggi il destino della nostra nazione dipenda dalla neutralità. Che non solo deve essere, come del resto è già da circa un paio di secoli, ma, Blocher dixit, deve essere integrale (qualsiasi cosa significhi), ché altrimenti non è. Qualcuno ha addirittura parlato di elemento fondante della nostra identità, per cui metterlo in questione o addirittura negarlo indebolirebbe o addirittura negherebbe il fatto stesso di essere Svizzera.

Sia ben chiaro, che la guerra in Ucraina e l’adesione della Confederazione alle sanzioni internazionali abbia rilanciato il dibattito sulla neutralità e sul suo significato, il quale evidentemente non può essere disgiunto dal contesto storico-politico in cui si colloca (ogni principio politico deve confrontarsi con l’attualità), è sicuramente positivo; che questo dibattito venga usato per fini di propaganda politica possiamo considerarlo un inevitabile danno collaterale; tuttavia che nel suo svolgimento si confondano mito e storia, o addirittura che i dati di quest’ultima vengano scientemente alterati o falsificati per i propri fini e interessi, questo è inaccettabile.

Per cui diciamolo: la Svizzera, o meglio la Confederazione elvetica è certo che non sia nata neutrale, sia nella storia che nel mito. Guglielmo Tell non era un fine diplomatico che ha dispensato i suoi buoni uffici per appianare le questioni tra il balivo di turno e i cantoni primitivi, ma una testa piuttosto calda che ha pensato bene di risolvere il problema usando balestra e frecce (con conseguente omicidio). E almeno fino alla battaglia di Marignano (1515) la storia elvetica è tutt’altro che neutra e pacifica, costellata com’è di guerre e scaramucce. E anche dopo non è che siamo stati con le mani in mano, seduti al bar a giocare a jass o a tricottare con l’uncinetto, visto che ancora nel 1536 Berna ha conquistato il Canton Vaud e altri territori savoiardi a sud del lago Lemano, che i cantoni cattolici e protestanti continuarono a darsi botte da orbi per altri tre secoli e che per altrettanto tempo di mercenari svizzeri furon colme tutte le guerre europee. E i relativi camposanti.

Per di più fino alla Guerra dei trent’anni (1618-1648) per noi europei il termine “neutrale” aveva una dichiarata connotazione negativa. In un conflitto, allora spesso condito da forti connotazioni religiose, non si poteva non schierarsi. O con me, o contro di me, come insegnano i Vangeli: tertium non datur. Solo dopo la pace di Westfalia politici ed esperti di diritto cominciano a formulare un’idea diversa, ossia che gli stati, soprattutto se piccoli e deboli, potevano entro certi limiti astenersi dal partecipare ai conflitti. Tant’è che la prima dichiarazione ufficiale di neutralità della Svizzera risale alla Dieta del 1674, quasi quattro secoli dopo la data della supposta fondazione della Confederazione elvetica, non prima. 

E non era certamente una neutralità di tipo integrale come Blocher e seguaci sperano che diventi adesso, visto che alle potenze straniere era permesso attraversare il nostro territorio, e che di mercenari pronti servire il signore di turno dietro congrua ricompensa come detto ne partirono ancora diverse decine di migliaia. Un traffico di carne umana che durò ufficialmente fino al 1815, quando il Congresso di Vienna non solo statuì il principio della neutralità elvetica nel diritto internazionale, ma impose pure la fine del “mercenariato”, anche se in realtà in forma non ufficiale se non illegale, di svizzeri che combatteranno guerre in giro per il mondo ce ne furono anche dopo. Senza dimenticare che, alla faccia del fondamento identitario e senza negare l’importantissimo ruolo che rivestì il diplomatico elvetico De la Harpe, a Vienna furono le potenze vincitrici guidate dallo zar di Russia Alessandro I a imporre la neutralità alla Svizzera più che gli stessi svizzeri a rivendicarla (curioso in questo senso che sia oggi proprio un altro “zar”, Vladimir Putin, a negarla).

Indipendentemente da ciò, da allora fummo neutri come oggi chiedono Blocher e sodali? Assolutamente no. Senza soffermarci sulle oscillazioni del XIX e XX secolo (non per nulla il Consiglio federale sia durante la guerra franco-prussiana del 1870 che allo scoppio della Prima Guerra mondiale sentì la necessità di riaffermare la neutralità elvetica, cosa che sarebbe stata superflua se fosse stata così integrale e internazionalmente chiara come oggi si vuol far credere) o le concessioni fatte alle potenze dell’Asse durante la Seconda Guerra mondiale, credo che nessuno possa avere dubbi da che parte stava la Svizzera durante la Guerra fredda. È sufficiente un esempio: fino agli anni ’80 del XX secolo durante le esercitazioni militari il nemico poteva essere uno e uno soltanto, ossia rosso e proveniente dall’est. Eppure questo suo essere apertamente schierata con l’Occidente non le ha impedito di prestare i suoi buoni uffici praticamente ovunque e con chiunque. Anzi, è soprattutto in questo contesto che la Confederazione ha potuto davvero realizzarsi in questo suo ruolo.

Per cui, prima di discutere sulla nostra neutralità e su quale forma darle, credo sia utile porsi (e rispondere a) una fondamentale domanda, senza la quale tutta questa discussione rischia di ridursi a mera propaganda politico-elettorale: la Svizzera è mai stata davvero integralmente neutrale?

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lunedì 20 febbraio 2023

Per il fine vita resta solo la disobbedienza civile - Chiara Lalli

  

In Italia una legge sul suicidio assistito ancora non c’è. Dovrebbe garantire risposte certe a chi lo richiede, e non fare differenza tra le persone e i tipi di malattie

 

Questo articolo è uscito su Parole, un numero di Internazionale Extra che raccoglie reportage, foto e fumetti sull’Italia. Si può comprare in tutte le edicole e sul sito di Internazionale, oppure in digitale sull’app di Internazionale.

 

“Domani durante la conferenza stampa cercate di non piangere”. È il pomeriggio del 15 giugno 2022, siamo a Senigallia e Mario ha deciso che il giorno dopo spingerà un pulsante e morirà. Non lo possiamo promettere, penso, soprattutto io che sono una piagnona (ma non lo dico, non dico niente). Mario il giorno dopo spinge il pulsante e muore. Mario era Federico Carboni, aveva quarantaquattro anni e da dodici era paraplegico dopo un incidente stradale che gli aveva rotto la schiena. Quel pomeriggio del 15 giugno, poche ore prima, aveva scherzato su come eravamo vestiti, una maglietta non stirata o la barba da fare. La mattina dopo aveva esaudito quello che da più di due anni era il suo desiderio: non vivere più così, quasi immobile in un letto.

Non è stato facile, nonostante fosse un suo diritto grazie alla sentenza 242 della corte costituzionale di pochi anni prima. Quella sentenza era la risposta al quesito di legittimità costituzionale sollevato dal tribunale di Milano dopo che Marco Cappato, tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni, aveva accompagnato Fabiano Antoniani in Svizzera. Anche Fabiano aveva avuto un incidente, anche Fabiano era immobile e a un certo punto aveva deciso che basta, non voleva più vivere così. Che quella, secondo lui, non era più una vita che desiderava.

E quando Cappato era tornato in Italia si era autodenunciato, perché secondo un vecchio articolo del codice Rocco era reato non solo istigare al suicidio ma pure aiutare qualcuno che aveva deciso per i fatti suoi. Secondo l’articolo 580 del codice penale, sull’istigazione o l’aiuto al suicidio, “chiunque determina altri al suicidio o rafforza l’altrui proposito di suicidio, ovvero ne agevola in qualsiasi modo l’esecuzione, è punito, se il suicidio avviene, con la reclusione da cinque a dodici anni”.

La corte, nel 2019, aveva dichiarato l’illegittimità di una parte di questo articolo, che risale agli anni trenta, un’epoca indifferente alle libertà personali e precedente agli articoli della costituzione che proteggono i nostri diritti fondamentali dal 1948. Ne aveva dichiarato l’illegittimità “nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli articoli 1 e 2 della legge 219 del 22 dicembre 2017 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento), […] agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente”.

Assenza di garanzie

Quindi aiutare qualcuno in determinate condizioni non è più un reato. E oggi siamo un po’ più liberi grazie alla corte costituzionale – e grazie a Fabiano Antoniani e a Marco Cappato – e non all’ultima legge discussa in parlamento, che non è stata approvata ed è meglio così.

Il testo di quella legge sul suicidio assistito arrivato in senato avrebbe infatti peggiorato la sentenza numero 242 senza superarne i limiti, come l’assenza di garanzie sui tempi di verifica delle condizioni di chi chiede di poter accedere al suicidio assistito e sui tempi delle risposte, e il fatto che chi chiede il suicidio assistito deve soddisfare il requisito del cosiddetto “sostegno vitale”, cioè deve dipendere da trattamenti che lo mantengono in vita (Fabiano Antoniani quel requisito lo aveva e i quindici giudici della corte hanno risposto a questo caso specifico).

“Avrei preferito morire nel mio letto, nella mia casa, tenendo la mano di mia figlia e di mio marito”

Le conseguenze di quel requisito e di quell’assenza si capiscono meglio con altre due storie: quella di Elena e quella di Fabio. Elena era “solo” una malata oncologica e non era ancora arrivata a una condizione in cui avrebbe avuto bisogno di un sostegno vitale, anche nel significato più ampio che possiamo immaginare, come un farmaco o una Peg, cioè una sonda applicata chirurgicamente per somministrare le sostanze nutritive direttamente nello stomaco.

Elena non voleva continuare a vivere aspettando i sintomi più invadenti della sua malattia incurabile. E allora ha scelto di andare in Svizzera perché in Italia non poteva morire, nonostante quello che dice la costituzione e nonostante la sentenza numero 242. Marco Cappato l’ha accompagnata, rischiando ancora una volta l’imputazione e anni di detenzione. “Avrei sicuramente preferito finire la mia vita nel mio letto, nella mia casa, tenendo la mano di mia figlia e la mano di mio marito. Purtroppo questo non è stato possibile e, quindi, sono dovuta venire qui da sola”, ha detto Elena.

La seconda storia è quella di Fabio Ridolfi, esasperato dalle mancate risposte e dall’attesa, ha scelto la sedazione profonda. E non so se scegliere è il verbo giusto, perché Fabio aveva chiesto alla propria azienda sanitaria di verificare le sue condizioni per poter accedere al suicidio assistito, proprio come previsto dalla sentenza della corte. Ma nonostante un gruppo di medici fosse andato a visitarlo e avesse scritto la relazione, quel documento era rimasto in qualche cassetto per quaranta giorni.

Il paternalismo è una tentazione irresistibile, anche nelle motivazioni pretestuose della inammissibilità del referendum sull’eutanasia

Perché? Non si è mai capito se per sciatteria, per qualche paternalistica intenzione o perché la burocrazia si dimentica che quando aspetti, quando sei bloccato nel tuo corpo immobile da diciotto anni, quando non ne puoi più ogni ora dura mille volte di più. Fabio aveva il diritto di morire a casa sua e come voleva lui – spingendo un bottone. Ma per esasperazione ha scelto di essere addormentato. Per lui è stato uguale, ma per la sua famiglia no. Ed era questa la ragione per cui aveva insistito e aveva provato ad aspettare. Che poi quelle ore tra la sedazione e la morte, mi racconta il fratello Andrea, sono state ore strazianti, di spasmi e convulsioni.

Perché? Perché se non ci sono garanzie dei tempi e delle responsabilità, tutto rimane scritto, ma chissà se sarà applicato. E allora può essere che qualcuno risponda velocemente e non dimentichi di mandare un documento necessario, ma può pure essere che si sia costretti a denunciare, a diffidare, a chiedere inutilmente. Ad aspettare per mesi. La legge e i diritti da soli non bastano. Hanno bisogno della garanzia della loro applicazione e del loro esercizio per non rimanere solo una vana promessa.

Decisione di merito

Oggi in Italia la legge e i diritti sono chiari. E basterebbe prendere sul serio la costituzione per concludere che possiamo decidere di morire; o meglio che siamo liberi di decidere e, tra le decisioni, possiamo smettere di curarci. La legge del 2017 sulle disposizioni anticipate di trattamento (o testamento biologico), che la corte nomina nella sentenza 242, ha solo rinforzato la nostra libertà, permettendoci di estendere il consenso informato a un futuro più o meno lontano.

Ci sono forse degli aspetti moralmente controversi e difficili? Sicuramente, come per esempio l’accertamento della volontà e delle nostre capacità cognitive, ma quali alternative ci sono? La libertà è un esercizio che richiede sempre dei prerequisiti e che comporta sempre dei rischi, ma non è una ragione sufficiente per limitarla o eliminarla.

Il paternalismo è una tentazione irresistibile, e anche nelle motivazioni pretestuose della inammissibilità del referendum sull’eutanasia (che era stato proposto, tra gli altri, dall’associazione Luca Coscioni) è emerso come unica e (questa sì, inammissibile) ragione. Secondo la corte l’abrogazione di quell’articolo – sebbene parziale e con delle condizioni volte a escludere l’incapacità (per età o per una condizione temporanea o permanente) – era inammissibile perché con l’abrogazione “ancorché parziale, della norma sull’omicidio del consenziente […] non sarebbe preservata la tutela minima costituzionalmente necessaria della vita umana, in generale, e con particolare riferimento alle persone deboli e vulnerabili”.

È stata una decisione di merito, che è una fase distinta dal giudizio di ammissibilità dei referendum. “La valutazione dell’ammissibilità è infatti un passaggio per valutare la correttezza in virtù delle norme che prevedono un perimetro di ammissibilità dei referendum popolari che sono abrogativi e non per valutare nel merito e politicamente un quesito”, spiega Filomena Gallo, avvocata e segretaria dell’Associazione Luca Coscioni.

Quella decisione, poi, sembra ignorare il quadro normativo attuale e rimandarci indietro di decenni, quando la libertà individuale non valeva niente e a decidere delle nostre vite era qualcun altro: lo stato, il medico, il giudice. “È stato molto difficile accettare la decisione di mio figlio, perché lì per lì quando me l’ha detto, come madre, ti spacca il cuore”, ha detto Rosa Maria, la madre di Federico Carboni. E nemmeno per Federico è stato semplice. Ci sono voluti anni e l’ostinazione di Filomena Gallo, denunce e ricorsi. E non dovrebbe andare in questo modo.

Per proteggere la nostra libertà, una buona legge sul fine vita non dovrebbe poi fare molto: dovrebbe garantire che quel diritto che l’articolo 32 già ci dà sia davvero garantito (cioè serve la garanzia delle risposte e dei tempi) e che non ci siano differenze ingiustificabili tra le persone e le malattie. Perché se sono libera di scegliere, questa libertà non può essere condizionata dal tipo di malattia e di condizioni – una volta accertate le mie capacità cognitive, cioè la mia capacità di capire le conseguenze delle mie decisioni.

Una buona legge ancora non c’è, nonostante i molti inviti al parlamento. Ricordiamo che la corte ha suggerito ancora una volta al parlamento di agire e sono passati altri tre anni da allora. Una cattiva legge non serve, ovviamente, e anzi sarebbe solo dannosa. E se dal parlamento e dal legislatore nulla si muove, i cambiamenti verranno dalle disobbedienze civili.

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domenica 19 febbraio 2023

La grande crisi del sistema sanitario pubblico

(di Carlo Bonini (coordinamento editoriale), Michele Bocci, Antonio Fraschilla – repubblica.it)

 Liste d’attesa infinite, medici che lasciano gli ospedali, malati di tumore che non riescono a fare esami ed interventi in tempo utile per salvarsi la vita. E, ancora, pronto soccorsi diventati dei gironi infernali. La sanità pubblica italiana sta morendo e ha bisogno di soldi per sopravvivere. Eppure, il governo non sembra averne consapevolezza. Vanta infatti di aver incrementato il fondo sanitario nazionale (che effettivamente sta crescendo) ma finge di ignorare che intanto il suo valore percentuale rispetto al Pil sta calando. Il che significa che il finanziamento e pure la spesa, anche confrontati con l’inflazione, di fatto si stanno riducendo. Un chiaro segnale di disinvestimento.

Le grida d’allarme ormai arrivano da ogni parte: dai sindacati, dalle Regioni, dai medici, dagli infermieri e dagli stessi cittadini prigionieri delle liste di attesa. In generale, da chiunque abbia a cuore un sistema che ha regalato agli italiani un’eccellenza pubblica praticamente unica in Occidente. Il numero di letti ospedalieri diminuisce e sul territorio non si creano servizi adeguati ad assistere chi non viene ricoverato. Ci sono medici che fuggono da alcuni reparti nei quali non vogliono andare neanche i camici bianchi appena assunti. L’offerta specialistica rallenta e i cittadini che non vogliono aspettare devono spendere altri soldi per comprare le prestazioni sanitarie. Il privato così cresce e nei prossimi anni continuerà a farlo con ancora più forza, fino a diventare un pezzo fondamentale del sistema di assistenza. Chi non potrà pagare resterà tagliato fuori dalle cure. O le avrà di peggiore qualità.

Il vuoto

In questi venti anni, con i governi di Berlusconi, Monti, Letta, Renzi, Gentiloni, Conte, Draghi e ultimo Meloni, c’è stata una continua erosione del sistema. Si è creato un grande vuoto, perché la domanda di salute e di cure è incrementata a causa dell’aumento della popolazione di due milioni di persone, della crescita dell’età media e del venir meno del tessuto di relazioni familiari. Così la sanità privata si è radicata sempre di più dalla Lombardia alla Sicilia e, guarda caso, ha rafforzato i suoi rapporti con la politica con un continuo entra ed esci da porte girevoli: ci sono grandi patron della sanità privata sbarcati in politica, come Antonio Angelucci, e politici diventati oggi presidenti di gruppi importanti della sanità privata, come l’ex ministro Angelino Alfano. C’è un modello, quello di Roberto Formigoni in Lombardia, sposato ormai da un bel pezzo del Paese, dai governi Cuffaro in Sicilia a quelli del centrodestra e del centrosinistra in Calabria, Puglia e Lazio.

Ma questo riempire il vuoto ha un costo che qualcuno paga ogni giorno: chi non ha assicurazioni sanitarie, chi non ha redditi elevati da permettersi migliaia di euro per esami e interventi. Non i poveri, anzi non solo i poveri, ma una buona parte delle famiglie italiane che rinunciano ormai ad altre spese per curarsi. Perché non solo nella costosa e ricca Milano dei colossi della sanità privata, dall’Humanitas al San Raffaele, ma anche nell’ospedale pubblico del più profondo dei Sud occorre pagare per avere cure in tempi accettabili. Le segnalazioni di cittadini costretti a spendere per fare prima non si contano e arrivano da tutto il Paese.

Invertire la tendenza si può ma non bastano gli incrementi da 2 miliardi del fondo sanitario (sui 128 di quest’anno) sventolati dalla destra al governo come un successo. Va alzata la percentuale della spesa sanitaria rispetto al Pil, diretta mestamente verso un misero 6,1% a detta dello stesso esecutivo. Appunto, ci vogliono grandi investimenti. Un piano per la sanità da almeno 18 miliardi. Ma sarebbe meglio da 25.

65 mila posti letto perduti

C’è il piccolo ospedale di città che non aveva ragione di esistere, perché si trovava vicino a centri più grandi, ma c’è anche la struttura che in una zona isolata garantiva assistenza ai cittadini. In vent’anni In Italia gli ospedali pubblici sono passati da 777 a 516, mentre il numero di quelli privati accreditati è stabile e adesso le cliniche sono quasi lo stesso numero dei centri pubblici. E mentre la sanità si è ritirata, la popolazione è cresciuta, passando dai 57 milioni del 2001 agli attuali 59. Tra il 2001 e il 2019 i posti letto sono diminuiti quasi di un terzo, cioè di 65 mila. Nel 2020 con il Covid si è stati costretti ad aprirne 40mila, destinati a chiudere di nuovo in questi anni. Anche in questo caso, lo sbalzo per il privato è stato meno importante.

Dietro alla riduzione di ospedali e letti c’è prima di tutto un miglioramento clinico e tecnologico della sanità, che ha portato a ridurre le degenze e, ad esempio, ad operare in day surgery problemi che un tempo richiedevano il ricovero. La medicina cresce, le strutture diminuiscono. Fin qui non ci sarebbero problemi. “Sì, certo, questo è vero – spiega Carlo Palermo, presidente del principale sindacato degli ospedalieri, Anaao – La medicina è cambiata ma se ci paragoniamo a tutte le altre grandi nazioni il calo del numero di letti da noi è stato troppo accentuato”. Soprattutto, secondo il sindacalista, non è andato di pari passo con la crescita di altre attività di cura: “Penso all’assistenza territoriale. Basta vedere l’accesso spropositato ai pronto soccorso di persone con problemi banali, che andrebbero seguite altrove, per capire che qualcosa non torna. E nel frattempo aumentano i malati cronici che finiscono nei reparti di emergenza e non hanno un letto dove essere ricoverati”. Per Palermo “mancano tutte le strutture intermedie, i famosi ospedali di comunità. Ma siamo anche senza assistenza domiciliare, strutture di fisioterapia. A sviluppare tutto questo dovrebbe pensarci il Pnrr ma il problema è che manca il personale. Ecco, chi lo fa viaggiare il nuovo sistema?”.

Il numero dei camici bianchi negli ultimi 20 anni è stabile, intorno ai 108 mila. “Il punto – dice Palermo – è prima di tutto che i dottori italiani sono tra i più anziani. Il 56% ha più di 55 anni mentre in Inghilterra non raggiungono il 20%. Succede quindi che ogni anno vadano in pensione più persone di quelle che entrano nel sistema. Poi non basta vedere il totale ma bisogna andare nei reparti. Pronto soccorso, anestesie, chirurgie generali, pediatrie hanno ormai ben noti problemi di personale. Ci sono settori, come l’emergenza, dai quali i colleghi scappano, magari per mettersi in proprio e lavorare a gettone. È stata sbagliata la programmazione nel decennio precedente e ora è difficile recuperare. I ministri alla Salute Giulia Grillo e Roberto Speranza hanno incrementato in modo consistente i contratti di formazione ma ci vorrà ancora un po’ di tempo prima di vedere gli effetti, visto che per specializzarsi ci vogliono 4 o 5 anni”.

Liste di attesa

Sono la spina nel fianco, la dimostrazione della crisi di organici e organizzazione del sistema pubblico, il motivo che spinge migliaia di persone ogni giorno verso il privato. Le liste di attesa non si riescono ad alleggerire, malgrado i piani, le riforme e le strategie che tengono continuamente impegnate le Regioni. Quello che è accaduto a causa del Covid descrive bene la situazione. Nel 2019 in Italia il sistema sanitario faceva quasi 230 milioni di visite ed esami specialistici, dicono i dati di Agenas, l’Agenzia sanitaria nazionale degli enti locali. Con la pandemia l’attività è calata e in molte persone hanno saltato gli accertamenti: consulti, risonanze, ecografie, tac. Così, nel 2021 la domanda è aumentata. Ebbene, il sistema non è stato in grado di rispondere a questa crescita. In quell’anno infatti le prestazioni specialistiche sono state 194 milioni, cioè il 15% in meno rispetto al periodo precedente alla pandemia. Con un’offerta così ridotta, e la domanda che addirittura è aumentata, le attese sono cresciute, portando molte persone a chiedere una risposta rapida pagando, magari per avere la libera professione intramoenia dei camici bianchi pubblici.

Le attese riguardano anche gli interventi chirurgici. I tumori, in base alle indicazioni ministeriali, vanno operati entro 30 giorni nel 90% dei casi. È l’obiettivo che è stato dato a tutte le amministrazioni locali. Se si guarda quello alla prostata, la gran parte delle Regioni non raggiunge assolutamente la sufficienza. Il Piemonte si è fermato al 40%, il Friuli al 32%, la Liguria al 29% e l’Umbria addirittura al 18%. Significa che molti di coloro che hanno quel tipo di cancro, il più diffuso tra gli uomini, aspettano due, tre, quattro o addirittura cinque mesi prima di entrare in sala operatoria. Qualcuno ha difficoltà a rispettare i tempi anche per il tumore al polmone. In Campania si opera in 30 giorni solo nel 45% dei casi. Va meglio, in tutte le Regioni, con la mammella. Poi c’è il problema degli screening oncologici perduti, e non recuperati, a causa del Covid. Si tratta di circa 2,5 milioni di prestazioni che si cercano di recuperare. Un’operazione nella quale ha detto di volersi impegnare anche il ministro alla Salute Orazio Schillaci.

È di questi giorni la storia di un uomo fiorentino che ha già fatto la visita pre operatoria ma aspetta da oltre 90 giorni che gli venga rimosso proprio il tumore della prostata a Careggi. Parliamo di un paziente che vive in una Regione considerata tra le migliori per la sanità. Lui non ha scelto l’intramoenia. È stata costretta a farlo invece M.F., una signora che da mesi attende di essere chiamata per una delicata operazione alla schiena. Stanca di non potersi più muovere, ha messo mano al portafoglio e chiesto all’equipe del primario che l’aveva presa in carico all’ospedale Cannizzaro di Palermo di essere operata in libera professione: 11 mila euro con un medico dello staff del primario, 20 mila euro con il primario. Per magia le è stato fissato l’intervento in 10 giorni. Poi ci sono gli esami. La tac per un sospetto tumore alla prostata fissata, sempre in Sicilia, per ottobre di quest’anno, subito ottenuta pagando, oppure l’esame istologico di una donna di 36 anni che non arriva da tre mesi e spinge i Nas ad avviare un’indagine sull’anatomia patologica di Gallipoli. Chi ha un’assicurazione è fortunato. A Roma una donna malata di tumore al colon è stata operata in una clinica privata in cinque giorni dall’esame diagnostico perché aveva una copertura sanitaria grazie al suo lavoro, all’Asp di Roma solo per fare l’esame l’attesa era di diversi mesi. Parliamo di vita o di morte.

Ma sono esempi che raccontano solo una parte minima del problema. Nessuna Regione, forse nessuna struttura sanitaria, è risparmiata dalle attese.

La spesa scende

I numeri raccontano una storia di ritirata dello Stato e contemporanea avanzata dei privati. Secondo i dati appena pubblicati dall’ufficio studi della Camera, nel 2001 la spesa sanitaria pubblica ammontava a 70 miliardi di euro, con un incremento del dieci per cento rispetto all’anno precedente: un aumento quindi molto maggiore dell’inflazione. Dal 2002 l’incremento annuale si è stabilito mediamente sempre sotto l’inflazione (ad eccezione di un balzo nel 2005) attestandosi a quota 115 miliardi di euro nel 2019, l’anno prima della pandemia. Scrivono i tecnici della Camera: “L’andamento della spesa sanitaria pubblica in Italia, in base ai dati dell’Istituto nazionale di statistica ha fatto registrare tra il 2000 e il 2008 un aumento di circa il 3%, superiore all’aumento del Prodotto interno lordo. Il rapporto di tale spesa rispetto al Pil si è attestato oltre il 6%. Dal 2009 al 2017, il tasso di variazione medio anno rispetto al Pil era gradualmente sceso attestandosi intorno allo 0,1%, il rallentamento della componente pubblica della spesa sanitaria fino al 2019 ha avuto ripercussioni sulla crescita della spesa sanitaria privata sostenuta dalle famiglie, aumentata in media di circa il 2,5%”. Dove non arriva il pubblico arrivano le tasche degli italiani insomma.

Anche l’Università Cattolica, non certo un covo di statalisti, nell’ultima relazione sulla spesa sanitaria dell’Osservatorio conti pubblici, scrive: “Gli aumenti moderati e comunque inferiori all’inflazione degli anni successivi possono aver creato problemi in vari ambiti a fronte delle esigenze crescenti legate all’invecchiamento della popolazione e all’elevato costo dei nuovi farmaci e nuove tecnologie. […] Gli aumenti registrati in questo periodo non sono stati sufficienti a tenere il passo con l’inflazione. Se si valuta la spesa in termini reali, si registra un calo che l’ha riportata attorno ai valori del 2004”. Insomma, la spesa sanitaria negli ultimi venti anni alla fine tra accelerazioni e frenate si è ridotta e di molto. E il raffronto con gli altri Paesi è impietoso: secondo l’Oecd Health Data nel 2020 la spesa pubblica nominale pro-capite nel Regno Unito è stata pari a 5.019 dollari, in Germania 6.939, in Francia 5.468 in Italia  3.747.

I privati e i miliardi che mancano

I soldi pubblici in sanità non bastano. E soprattutto non basteranno nei prossimi anni. L’Italia non solo investe meno di Paesi come Francia e Germania per finanziare l’assistenza ai suoi cittadini ma resta molto più in basso anche sommando a quella dello Stato la spesa privata (che vale il 2,2% del Pil). E se nel 2021 la spesa pubblica è arrivata al 7,3% del Prodotto interno lordo il governo Meloni ha stimato una riduzione, fino a scendere nel 2025 al 6,1%. Pochissimo. Un dato che smentisce le parole di giubilo della maggioranza per i 2 miliardi l’anno in più stanziati per il Fondo sanitario nazionale fino al 2025 .

E il calo è ancora più pesante se si considera che nei prossimi anni i bisogni e le spese sanitarie tenderanno a crescere. A spiegare il meccanismo è Mario Del Vecchio, docente di Management sanitario all’Università di Firenze e direttore dell’osservatorio sui Consumi privati in Sanità della SDA Bocconi. “La popolazione invecchierà e inoltre ci saranno innovazioni tecnologiche e farmacologiche. Ci sarà bisogno di più denaro per la sanità”. Del Vecchio stima che nel prossimo decennio ci vorrebbe una crescita della spesa sanitaria di 1-1,5 punti di Pil, cioè tra i 18 e i 25 miliardi. Una bella cura ricostituente per permettere al sistema pubblico di rispondere ai bisogni e alle attese dei cittadini. “Già oggi abbiamo dei buchi rispetto ai diritti, un razionamento implicito, del quale le liste di attesa sono un esempio. La sanità non dà quello che promette. Ecco, figuriamoci cosa potrà avvenire tra qualche anno”. Il problema è soprattutto politico. “A vedere le manovre di chi governa, ci sono altre priorità nell’agenda della politica ma anche degli italiani. Si punta sulla riduzione delle tasse o delle bollette, su trasferimenti monetari sulle pensioni o sul reddito di cittadinanza. Non su aumentare il fondo sanitario nazionale. E non parlo di uno o due miliardi di aumento. Bisogna ragionare in termini di percentuali di Pil”.

Visto che lo Stato non vuole mettere più denaro sulla sanità e i cittadini non vogliono l’aumento delle tasse, il problema della mancanza di quei 18-25 miliardi cadrà sul privato. “Una prima possibilità potrebbe riguardare un impegno del mondo del lavoro, con i sistemi mutualistici – dice Del Vecchio – Ma anche qui mi sembra che più di tanto non si voglia o possa crescere, visto che la priorità è quella di un abbassamento del costo del lavoro. Allora resta la spesa del privato per le prestazioni oppure per un’assicurazione o una mutua”. Si finisce lì, a quella che qualcuno chiama seconda gamba del sistema sanitario, che in Italia sta diventando sempre più importante. “Il punto è che in questo modo chi non può pagarsi nemmeno un’assicurazione viene tagliato fuori. Di questo rischio bisogna parlarne, per organizzare un sistema di protezione. Altrimenti l’iniquità sarà molto più alta. Vanno evitate contrapposizione pubblico-privato, aiutate le persone a spendere meglio i soldi per la sanità”. L’argine così, però, è rotto. La politica e il sistema pubblico dovrebbero porsi il problema di adeguare le attese alle risorse che la collettività è disposta a investire. “Deve essere chiaro che con il 6,1-6,4% del Pil si può assicurare un certo livello di risposta, ma non quello di Paesi come la Francia e la Germania, che è il 50% in più”.

Il rischio catastrofe per le Regioni

Non è una questione di destra o di sinistra. Le Regioni gestiscono la sanità, che rappresenta l’80% del loro bilancio, e conoscono bene il problema dei finanziamenti. In più, in questa fase storica, a dare una mazzata ai bilanci ci si sono messe le spese extra per il Covid e quelle per le bollette. Così tutti gli assessori alla Salute hanno scritto al ministro Orazio Schillaci usando termini particolarmente pesanti per descrivere quanto sta accadendo. Parlano del rischio di “conseguenze catastrofiche” per il sistema pubblico a causa dell’insufficienza delle risorse economiche, della carenza di personale, dei rincari di materie prime e consumi energetici. Evidentemente i 2 miliardi in più di fondo sanitario stanziati ogni anno fino al 2025 dal governo anche secondo loro non bastano. “La sostenibilità economico-finanziaria dei bilanci sanitari è fortemente compromessa dall’insufficiente livello di finanziamento del sistema sanitario nazionale, dal mancato finanziamento di una quota rilevante delle spese sostenute per l’attuazione delle misure di contrasto alla pandemia e per l’attuazione della campagna vaccinale, dal considerevole incremento dei costi energetici sostenuti dalle strutture sanitarie e socio assistenziali, pubbliche e private accreditate, dal continuo incremento dei prezzi delle materie prime, dei materiali e dei servizi per effetto dell’andamento inflattivo”, hanno scritto le Regioni.

A coordinare gli assessori alla Salute nella Conferenza Stato-Regioni è Raffaele Donini dell’Emilia-Romagna. La sua posizione dimostra come negli enti territoriali a questo punto interessi giusto il colore di chi governa. “Da un lato dobbiamo depoliticizzare la sanità – dice – Adesso è inutile stare a dire di chi è la responsabilità del sottofinanziamento o buttarla in una contrapposizione politica fine a se stessa. Sappiamo tutti che i problemi arrivano da almeno un decennio di programmazione non adeguata. Però adesso al governo c’è Giorgia Meloni. O il suo esecutivo si occupa, con urgenza, di garantire alla sanità la sostenibilità finanziaria e di incentivare la formazione di nuovi medici, oppure la sanità gli esploderà fra le mani”. Più chiaro di così. La sua Regione, dice, per ora regge ma anche chi ha le spalle robuste di un servizio regionale forte alla lunga, “dopo tre o quattro anni che reperisce risorse proprie per far fronte a spese straordinarie del Covid e dell’energia” rischia di cedere.

E poi Donini aggiunge: “Da un altro lato dobbiamo politicizzare la questione, nel senso più nobile del termine, facendo sì che la sanità pubblica universalistica torni al centro dell’agenda nazionale. Noi Regioni abbiamo situazioni molto diversificate ma su sostenibilità finanziaria e carenza di professionisti siamo unite. Pensiamo al tema dell’urgenza. I medici mancano a tutti. Ce ne sono 12 mila e nei prossimi anni ne andranno in pensione 4 mila e tanti chiederanno di essere trasferiti in altri reparti. A fronte di queste uscite, ne entreranno solo 1.500. Ecco, questo è un problema nazionale”.

Anche l’assessore dell’Emilia sa che se non arrivano più soldi il privato guadagnerà spazio. “Allora però deve essere integrato, non competitivo con il sistema pubblico. Ci dobbiamo confrontare affinché si collochino nelle traiettorie che noi indichiamo come necessarie per la nostra sanità”. Forse la Regione di Donini riuscirà a farlo ma non è detto che anche le altre riescano, o vogliano, percorrere la stessa strada.

L’offerta privata

Il vuoto, come detto, viene colmato sempre se la domanda resta uguale. Vale in politica, vale in economia, vale in un settore che incrocia queste diverse sfere: la sanità. Secondo l’ultimo rapporto Oasi dell’Università Bocconi dedicato al sistema sanitario, se nel 2000 le strutture sanitarie territoriali accreditate (che ricevono rimborsi dal sistema pubblico) come laboratori, ambulatori, strutture residenziali e non, consultori, centri di salute mentale e altri erano il 38,9 % dell’offerta sanitaria totale pagata dallo Stato, nel 2020 questa percentuale è salita al 58%. Con alcune Regioni che hanno subito una esternalizzazione dell’offerta sanitaria enorme: nello stesso arco di tempo il Piemonte è passato da una presenza di strutture accreditate sul totale di quelle territoriali del 23,9 al 64%, in Lombardia si è passati dal 34 al 70%, l’Emilia Romagna dal 31 al 57%,  in Puglia dal 38 al 63%, in Sicilia, dove la privatizzazione spinta è iniziata già nei primi anni Novanta con i governi berlusconiani, è rimasta stabile al 61 %.

Oggi la spesa sanitaria pubblica per l’assistenza privata accreditata, compresa quella ospedaliera, vale il 17% del budget pubblico, 400 euro pro-capite a fronte di una spesa del sistema sanitario pro-capite complessiva di 2.298 euro (nel 2019 la spesa per i privati era pari a 378 euro).

Sia chiaro, il tema non è che i privati siano il male, il pubblico il bene. Il tema è, come detto, che i buchi vengono colmati se la domanda resta uguale. E nel privato, ma anche nel pubblico, chi paga ha una corsia preferenziale ormai del tutto evidente.

Di certo c’è che i grandi gruppi hanno visto incrementare i fatturati in questi anni e anche di cifre importanti. Il gruppo San Donato della famiglia Rotelli, un colosso del settore che da solo gestisce 19 ospedali compreso il San Raffaele di Milano, nel 2014 fatturava 1,3 miliardi di euro, nel 2019, anno pre covid, ha fatturato 1,7 miliardi. Il Policlinico San Donato, che fa parte del gruppo, nel 2016 fatturava 151 milioni, nel 2021 171 milioni. La società Humanitas Mirasole, della famiglia Rocca fatturava 438 milioni nel 2019, nel 2021 la cifra è salita a 534 milioni.

La spesa diretta per privati

Una fetta importante della spesa sanitaria pubblica va ai privati accreditati. Ma a questa cifra va aggiunta la spesa diretta delle famiglie italiane, cosiddetta “out of pocket” proprio perché a carico dei cittadini. Una cifra cresciuta in questi anni, di pari passo con il venir meno della risposta del servizio pubblico. Secondo l’Istat la spesa diretta per privati (anche in regime di intramoenia nelle strutture pubbliche) delle famiglie era pari a 34,4 miliardi di euro nel 2012, nel 2021 è arrivata a quota 41 miliardi di euro. In questa cifra c’è la spesa diretta e quella attraverso regimi assicurativi o di finanziamento attraverso istituzioni senza scopi di lucro. Una crescita negli ultimi dieci anni del 20%, pari a 7 miliardi di euro in più.

Ma per quali settori gli italiani si rivolgono al privato? Oltre venti miliardi di euro sono stati spesi per visite specialistiche, servizi dentistici, servizi di diagnostica e per servizi paramedici (cioè infermieri, psicologi, fisioterapisti ecc.). Altri 15 miliardi di euro sono stati spesi per l’acquisto di farmaci, attrezzature terapeutiche e altri prodotti medicali come siringhe, garze e così via. Quasi 6 miliardi di euro sono stati spesi per i ricoveri ospedalieri e in strutture sanitarie di assistenza a lungo termine. Tutte queste voci sono in costante crescita negli ultimi anni, e tendenzialmente cresceranno ancora. E come detto riguardano anche il sistema di intramoenia nell’ospedalità pubblica: cioè la possibilità di usufruire di strutture pubbliche ma in regime “privato” diciamo così, pagando insomma: nell’ultimo anno prima del Covid secondo il ministero della Salute in Italia la spesa pro-capite per la libera professione intramuraria è stata pari a 14 euro, con picchi in Emilia Romagna (23 euro), Toscana (22), Piemonte (21), Veneto e Lombardia (17).

In generale si tratta di spese che incidono direttamente nel bilancio delle famiglie al di là delle tasse che già si pagano per l’assistenza sanitaria pubblica e convenzionata. Secondo l’ultimo studio Oasi della Bocconi, la spesa privata volontaria per servizi sanitari nel 2019 incideva per il 2,2% del Pil, nel 2021 la cifra è salita al 2,4%. Per fare un raffronto, in Germania nel 2021 la spesa privata diretta è stata pari all’1,8% del Pil, in Svezia 1,6, nel Regno Unito 2,1, solo per osservare sistemi sanitari che hanno alla base una filosofia del tutto diversa tra loro. In ogni caso la cifra è inferiore a quella italiana. Questo a conferma che il mito della sanità pubblica è ormai tale: un mito appunto. Gli italiani spendono molto di più di altri europei per la spesa sanitaria privata diretta.  E questo è un elemento nuovo nella storia di questo Paese, fondata sul “mito” della sanità e dell’istruzione pubblica.

La crescita delle assicurazioni

Uno dei fenomeni legati alle difficoltà della sanità pubblica è la crescita del ricorso a forme sanitarie integrative. Oggi sono circa 20 milioni gli italiani che hanno una copertura aggiuntiva. Si tratta di una buona parte dei lavoratori dipendenti, ma anche autonomi, e di chi ha deciso comunque di tutelarsi anche al di fuori della professione. Gli altri devono affidarsi al sistema pubblico oppure pagarsi le prestazioni private senza alcun tipo di rimborso.

Sono molto diversi i tipi di assistenza integrativa che si possono avere. Il primo, e il più diffuso, riguarda una quindicina di milioni di persone assistite con il welfare contrattuale e aziendale, che vale oltre 3 miliardi di euro l’anno. Nel 2013 gli assistiti erano 7 milioni, quindi c’è stata un’esplosione del settore. È successo perché nel 2018 i decreti Turco e poi Sacconi hanno dato nuovo slancio ai fondi sanitari, che si voleva si concentrassero su prestazioni non garantite dal pubblico, come l’odontoiatria, l’assistenza socio-sanitaria e la riabilitazione, ma poi si sono allargati. La normativa fiscale prevede la deducibilità di quanto versato a enti o casse che si occupano di sanità integrativa e man mano che venivano rinnovati i contratti collettivi veniva inserito l’obbligo della sanità integrativa. Hanno così avuto un enorme rilancio le mutue, soggetti no profit, che in cambio di una contribuzione annuale garantiscono prestazioni in convenzione con le strutture sanitarie o rimborsi. A queste si appoggiano i datori di lavoro o i lavoratori autonomi per avere il welfare sanitario. Ovviamente le coperture variano molto a seconda di quanto si versa. Ci sono contratti collettivi che prevedono 100 euro l’anno di contributi, ma il ventaglio di prestazioni che spetta ai lavoratori è comunque ampio anche se non tutti ne fruiscono.

Ma alle mutue si può iscrivere anche chi non lavora, pagando sempre una quota annuale. “Sono circa 1,5 milioni le persone che hanno scelto questa strada”, spiega Massimo Piermattei, direttore della società di mutuo soccorso CAMPA e presidente del Consorzio Mu.Sa., che raccoglie appunto le mutue specializzate in sanità. Infine, ci sono le compagnie di assicurazione. Le polizze dei singoli (sanitarie o infortuni) riguardano, stima Piermattei, circa 4 milioni di persone. Il giro d’affari era di circa un miliardo nel 2021 e di meno di 700 milioni nel 2013. Anche in questo caso c’è stata una crescita, trainata da persone che si possono permettere spese importanti, anche superiori ai mille euro l’anno, per sottoscrivere una polizza. Non solo, il sistema del welfare aziendale ha tirato dentro anche le compagnie di assicurazioni, alle quali talvolta si rivolgono i Fondi di nuova costituzione che da soli non riescono a gestire i grandi contratti di categoria con tanti dipendenti.

“Noi mutue siamo diverse – spiega Piermattei – Siamo no profit, a chi ad esempio esce dal mondo del lavoro continuiamo ad offrire assistenza dietro contribuzione volontaria. Le polizze assicurative sanitarie di solito durano fino a 70 anni e poi basta e comunque escludono la copertura di malattie preesistenti. Noi cerchiamo di integrare il pubblico dove non arriva”. Il problema è che dietro l’enorme sviluppo di questi anni delle forme integrative non c’è una regia e il mercato non sempre è in grado di premiare i soggetti più virtuosi.  “Il sistema pubblico non può rinunciare al suo ruolo, ma il fenomeno della sanità integrativa favorisce l’accessibilità alle cure sanitarie riducendo il divario tra chi può spendere per fruire di prestazioni private e chi non ne ha la possibilità”, dice Piermattei.

Il brutto esempio inglese

Al di là degli aspetti economici c’è da farsi un’altra domanda riguardo all’esternalizzazione di servizi sanitari ai privati. E cioè: come cambia la qualità delle cure quando si coinvolge il privato in modo importante? Se lo è chiesto la rivista Lancet, che ha pubblicato alcuni mesi fa uno studio a suo modo dirompente. I ricercatori hanno valutato l’andamento della mortalità nel Regno Unito, un Paese dove molti pezzi di sanità sono stati affidati al privato dal 2012, quando il governo conservatore ha avviato una riforma (l’Health and social care act) in base alla quale il “National health system” è stato completamente ripensato. Si è osservato un periodo che va dal 2013 al 2020 e si è visto che per ogni unità percentuale di attività sanitaria ceduta al privato c’è stato in incremento di 0,38 cosiddetti “decessi evitabili” grazie a tempestivi interventi sanitari, anche di prevenzione, ogni 100 mila abitanti.

Perché è successo? Sempre secondo lo studio, tra l’altro, i fornitori a scopo di lucro tendono a ridurre i costi, ad esempio abbassando il numero degli operatori. Inoltre, ci potrebbe anche essere un meccanismo di selezione dei pazienti “più redditizi” (per i quali il lavoro è meno complicato a parità di rimborso della prestazione da parte del pubblico) creando di conseguenza una concentrazione di casi complessi nel sistema sanitario nazionale. “Ricordiamo che tale meccanismo strutturale è stato chiamato in causa nella situazione pandemica in Lombardia, con una sanità privata di rilevante qualità, ma orientata ad attività programmate e più remunerative e una conseguente debolezza delle strutture pubbliche in cui si concentravano le attività intensive, con un conseguente squilibrio fra domanda e disponibilità di posti letto”, spiega Marco Geddes da Filicaia, esperto di sanità pubblica e collaboratore di Saluteinternazionale. “Anche in Italia uno studio è arrivato a risultati analoghi: un incremento di 100€ pro capite di spesa sanitaria pubblica equivaleva a una riduzione dell’1,47% della mortalità evitabile”, aggiunge Geddes. Il lavoro, realizzato da ricercatori senesi, però è datato, risale a dieci anni fa e prende in considerazione il periodo compreso tra il 1993 e il 2003. “E i decessi sono solo la punta dell’iceberg in quanto sono solo gli eventi più catastrofici. Se le morti evitabili aumentano, quanti sono i casi dei pazienti non adeguatamente gestiti? Quali conseguenze per pazienti e famiglie in seguito ad un peggioramento della qualità delle cure?  Per molti politici che propugnano il primato del privato sul sistema sanitario pubblico conviene analizzare i dati e le ricerche scientifiche”, scrivono invece Gabriele Gallone, esperto di statistica e epidemiologia, e Chiara Rivetti, segretaria regionale del sindacato Anaao del Piemonte.

Lo scenario, insomma, è piuttosto preoccupante. Anche se l’organizzazione sanitaria in Italia è diversa da quella dell’Inghilterra, bisogna osservare bene cosa succederà nella qualità dell’assistenza dei prossimi anni, quando senza cambi di rotta l’attività sanitaria privata diventerà sempre più significativa. Per il resto, la politica dovrà rispondere prima o poi alla domanda principale: quanto vale la vita degli italiani?

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