sabato 4 febbraio 2023

L’Italia torna al turismo delle rovine - Anna Lombroso

 

Si sa che l’uomo medio contemporaneo, promosso ormai ad animale metropolitano, immagina il resto del mondo, al di là del suo rione, come una arcadia, un paesaggio confezionato in forma di location per le sue gite fuori porta, le soap e punteggiato di tanti Rio Bo: tre casettine dai tetti aguzzi, popolati di gente affabile destinata a mettersi al servizio del turista in veste di affittacamere, locandiere e oste, pronto a prodigarsi con i piatti nel solco della tradizione ma già piegati all’innovazione.
In realtà chiunque davvero poi attraversi questo Paese troppo lungo si accorge che soprattutto nel mezzogiorno sono tanti i paeselli fantasma, le “casettine” in rovina, gli esercizi chiusi o con le serrande tirate giù e davanti due o tre vecchi seduti al tavolino traballante, non c’è la scuola, non c’è la farmacia, non c’è il pronto soccorso, resiste qualche botteguccia che imita su scala un supermercato, di giovani non se ne vedono. Sono ben pochi quelli beneficati da tenzoni televisive intese a selezionare i borghi più belli, anche se quasi tutti i paeselli italiani possono esibire un santo, una chiesetta con affresco e pala d’altare, un sito archeologico di qualche civiltà sepolta.

Sono questi quelli “meritevoli” di valorizzazione, tanto che per l’inossidabile ex ministro Franceschini la conversione di uno dei paesaggi più belli e leggendari del mondo in albergo diffuso, la cancellazione dell’identità culturale del paese che ha “inventato” il museo, la destinazione d’uso della Sicilia, né più né meno di Briatore, in una stesa di campi da golf con i paeselli intorno condannati a casa vacanza e dei residenti rimasti a inservienti, facchini, baristi, era diventata un’ossessione.
Dobbiamo a lui – un anno fa – l’iniziativa per finanziare con un 1 miliardo 250 borghi, attraverso due linee di azione con 420 milioni di euro a 21 borghi individuati da Regioni e Province autonome e 580 milioni di euro destinati ad almeno 229 borghi selezionati tramite avviso pubblico rivolto ai Comuni per consentire l’accesso alle risorse del Piano Nazionale Borghi previsto dal PNRR.
La prima direttrice di azione con uno stanziamento di 420 milioni prevedeva la realizzazione di un numero limitato di interventi di carattere esemplare, uno per ciascuna Regione o Provincia Autonoma per un totale di 21, “grazie all’insediamento di nuove funzioni, infrastrutture e servizi nel campo della cultura, del turismo, del sociale o della ricerca: scuole o accademia di arti e dei mestieri della cultura, alberghi diffusi, residenze d’artista, centri di ricerca e campus universitari, residenze sanitarie assistenziali (RSA) dove sviluppare anche programmi a matrice culturale, residenze per famiglie con lavoratori in smart working e “nomadi digitali” (sic)”.
La seconda linea d’intervento mirava alla realizzazione di progetti locali di rigenerazione culturale di almeno 229 borghi storici. In particolare, 380 milioni dovevano “sostenere le proposte presentate dai Comuni” mentre 200 milioni di euro dovevano essere indirizzati “quale regime di aiuto a micro, piccole e medie imprese localizzate o che intendono insediarsi nei borghi selezionati”.

Si dice che arrivarono prima della scadenza del marzo 2022, 1800 proposte tutte intese a promuovere la rigenerazione in chiave “culturale e turistica”, come unica via per favorire socializzazione, ripopolamento, coesione. Basta guardare ai 21 Rio Bo selezionati: c’è Sirolo che vuole rilanciare un teatro sorto nelle vecchia cave dismesse, c’è Cunziria, una frazione abbandonata di Vizzini, in provincia di Catania, dove gli unici esseri viventi sono una cagna e i suoi cuccioli, tra case abbandonate e macerie, resti di «un mirabile esempio dell’architettura rurale della Sicilia orientale, nonché testimonianza dell’archeologia industriale del secolo XIX dove, sino agli anni Sessanta del secolo scorso, si operava, grazie ad un ingegnoso sistema di utilizzazione delle acque, la lavorazione delle pelli».
Il fatto è che per spendere i quattrini conquistati, servirebbero idee, competenze, organizzazione, non come a Livemmo, un comune della Valsabbia, in provincia di Brescia, dove i residenti vorrebbero realizzare “nuove piste ciclopedonali, ristrutturare edifici pericolanti e farli diventare alloggi per i turisti, creare una rete wi-fi libera, convertire alcuni capannoni abbandonati e trasformarli in luoghi di lavoro per artigiani del legno e produttori di formaggio”, ma l’unica risorse professionale incaricata dei progetti è un funzionario che gestisce l’ufficio comunale, guida lo scuolabus, disbriga le pratiche, gestisce l’amministrazione.
Non rincuora vedere come si è espressa la creatività delle amministrazioni, largamente condivisa dalla popolazione. Ci si trova tutta la paccottiglia imperante e i canoni vigenti, iniziative green, ospitalità e accoglienza con la conversione di un paesaggio in location, il mito della digitalizzazione in posti leggendariamente esclusi dalla rete. E possiamo aggiungere quelle iniziative care al norcino di regime, il Farinetti, con i finti laboratori artigianali che producono cioccolata Venchi, con le latterie che confezionano le crescenze della Coop e i lavoratori ormai trasformati in figuranti, pronti al selfie col turista.

da qui

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