Si sa che
l’uomo medio contemporaneo, promosso ormai ad animale metropolitano, immagina
il resto del mondo, al di là del suo rione, come una arcadia, un paesaggio
confezionato in forma di location per le sue gite fuori porta, le soap e
punteggiato di tanti Rio Bo: tre casettine dai tetti aguzzi, popolati di gente
affabile destinata a mettersi al servizio del turista in veste di
affittacamere, locandiere e oste, pronto a prodigarsi con i piatti nel solco
della tradizione ma già piegati all’innovazione.
In realtà chiunque davvero poi attraversi questo Paese troppo lungo si accorge
che soprattutto nel mezzogiorno sono tanti i paeselli fantasma, le “casettine”
in rovina, gli esercizi chiusi o con le serrande tirate giù e davanti due o tre
vecchi seduti al tavolino traballante, non c’è la scuola, non c’è la farmacia,
non c’è il pronto soccorso, resiste qualche botteguccia che imita su scala un
supermercato, di giovani non se ne vedono. Sono ben pochi quelli beneficati da
tenzoni televisive intese a selezionare i borghi più belli, anche se quasi
tutti i paeselli italiani possono esibire un santo, una chiesetta con affresco
e pala d’altare, un sito archeologico di qualche civiltà sepolta.
Sono questi
quelli “meritevoli” di valorizzazione, tanto che per l’inossidabile ex ministro
Franceschini la conversione di uno dei paesaggi più belli e leggendari del
mondo in albergo diffuso, la cancellazione dell’identità culturale del paese
che ha “inventato” il museo, la destinazione d’uso della Sicilia, né più né
meno di Briatore, in una stesa di campi da golf con i paeselli intorno condannati
a casa vacanza e dei residenti rimasti a inservienti, facchini, baristi, era
diventata un’ossessione.
Dobbiamo a lui – un anno fa – l’iniziativa per finanziare con un 1 miliardo 250
borghi, attraverso due linee di azione con 420 milioni di euro a 21 borghi
individuati da Regioni e Province autonome e 580 milioni di euro destinati ad
almeno 229 borghi selezionati tramite avviso pubblico rivolto ai Comuni per
consentire l’accesso alle risorse del Piano Nazionale Borghi previsto dal PNRR.
La prima direttrice di azione con uno stanziamento di 420 milioni prevedeva la
realizzazione di un numero limitato di interventi di carattere esemplare, uno
per ciascuna Regione o Provincia Autonoma per un totale di 21, “grazie
all’insediamento di nuove funzioni, infrastrutture e servizi nel campo della
cultura, del turismo, del sociale o della ricerca: scuole o accademia di arti e
dei mestieri della cultura, alberghi diffusi, residenze d’artista, centri di
ricerca e campus universitari, residenze sanitarie assistenziali (RSA) dove
sviluppare anche programmi a matrice culturale, residenze per famiglie con
lavoratori in smart working e “nomadi digitali” (sic)”.
La seconda linea d’intervento mirava alla realizzazione di progetti locali di
rigenerazione culturale di almeno 229 borghi storici. In particolare, 380
milioni dovevano “sostenere le proposte presentate dai Comuni” mentre 200
milioni di euro dovevano essere indirizzati “quale regime di aiuto a micro,
piccole e medie imprese localizzate o che intendono insediarsi nei borghi
selezionati”.
Si dice che
arrivarono prima della scadenza del marzo 2022, 1800 proposte tutte intese a
promuovere la rigenerazione in chiave “culturale e turistica”, come unica via
per favorire socializzazione, ripopolamento, coesione. Basta guardare ai 21 Rio
Bo selezionati: c’è Sirolo che vuole rilanciare un teatro sorto nelle vecchia
cave dismesse, c’è Cunziria, una frazione abbandonata di Vizzini, in provincia
di Catania, dove gli unici esseri viventi sono una cagna e i suoi cuccioli, tra
case abbandonate e macerie, resti di «un mirabile esempio dell’architettura
rurale della Sicilia orientale, nonché testimonianza dell’archeologia
industriale del secolo XIX dove, sino agli anni Sessanta del secolo scorso, si
operava, grazie ad un ingegnoso sistema di utilizzazione delle acque, la
lavorazione delle pelli».
Il fatto è che per spendere i quattrini conquistati, servirebbero idee,
competenze, organizzazione, non come a Livemmo, un comune della Valsabbia, in
provincia di Brescia, dove i residenti vorrebbero realizzare “nuove piste
ciclopedonali, ristrutturare edifici pericolanti e farli diventare alloggi per
i turisti, creare una rete wi-fi libera, convertire alcuni capannoni
abbandonati e trasformarli in luoghi di lavoro per artigiani del legno e
produttori di formaggio”, ma l’unica risorse professionale incaricata dei
progetti è un funzionario che gestisce l’ufficio comunale, guida lo scuolabus,
disbriga le pratiche, gestisce l’amministrazione.
Non rincuora vedere come si è espressa la creatività delle amministrazioni,
largamente condivisa dalla popolazione. Ci si trova tutta la paccottiglia
imperante e i canoni vigenti, iniziative green, ospitalità e accoglienza con la
conversione di un paesaggio in location, il mito della digitalizzazione in
posti leggendariamente esclusi dalla rete. E possiamo aggiungere quelle
iniziative care al norcino di regime, il Farinetti, con i finti laboratori
artigianali che producono cioccolata Venchi, con le latterie che confezionano
le crescenze della Coop e i lavoratori ormai trasformati in figuranti, pronti
al selfie col turista.
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