domenica 19 febbraio 2023

La grande crisi del sistema sanitario pubblico

(di Carlo Bonini (coordinamento editoriale), Michele Bocci, Antonio Fraschilla – repubblica.it)

 Liste d’attesa infinite, medici che lasciano gli ospedali, malati di tumore che non riescono a fare esami ed interventi in tempo utile per salvarsi la vita. E, ancora, pronto soccorsi diventati dei gironi infernali. La sanità pubblica italiana sta morendo e ha bisogno di soldi per sopravvivere. Eppure, il governo non sembra averne consapevolezza. Vanta infatti di aver incrementato il fondo sanitario nazionale (che effettivamente sta crescendo) ma finge di ignorare che intanto il suo valore percentuale rispetto al Pil sta calando. Il che significa che il finanziamento e pure la spesa, anche confrontati con l’inflazione, di fatto si stanno riducendo. Un chiaro segnale di disinvestimento.

Le grida d’allarme ormai arrivano da ogni parte: dai sindacati, dalle Regioni, dai medici, dagli infermieri e dagli stessi cittadini prigionieri delle liste di attesa. In generale, da chiunque abbia a cuore un sistema che ha regalato agli italiani un’eccellenza pubblica praticamente unica in Occidente. Il numero di letti ospedalieri diminuisce e sul territorio non si creano servizi adeguati ad assistere chi non viene ricoverato. Ci sono medici che fuggono da alcuni reparti nei quali non vogliono andare neanche i camici bianchi appena assunti. L’offerta specialistica rallenta e i cittadini che non vogliono aspettare devono spendere altri soldi per comprare le prestazioni sanitarie. Il privato così cresce e nei prossimi anni continuerà a farlo con ancora più forza, fino a diventare un pezzo fondamentale del sistema di assistenza. Chi non potrà pagare resterà tagliato fuori dalle cure. O le avrà di peggiore qualità.

Il vuoto

In questi venti anni, con i governi di Berlusconi, Monti, Letta, Renzi, Gentiloni, Conte, Draghi e ultimo Meloni, c’è stata una continua erosione del sistema. Si è creato un grande vuoto, perché la domanda di salute e di cure è incrementata a causa dell’aumento della popolazione di due milioni di persone, della crescita dell’età media e del venir meno del tessuto di relazioni familiari. Così la sanità privata si è radicata sempre di più dalla Lombardia alla Sicilia e, guarda caso, ha rafforzato i suoi rapporti con la politica con un continuo entra ed esci da porte girevoli: ci sono grandi patron della sanità privata sbarcati in politica, come Antonio Angelucci, e politici diventati oggi presidenti di gruppi importanti della sanità privata, come l’ex ministro Angelino Alfano. C’è un modello, quello di Roberto Formigoni in Lombardia, sposato ormai da un bel pezzo del Paese, dai governi Cuffaro in Sicilia a quelli del centrodestra e del centrosinistra in Calabria, Puglia e Lazio.

Ma questo riempire il vuoto ha un costo che qualcuno paga ogni giorno: chi non ha assicurazioni sanitarie, chi non ha redditi elevati da permettersi migliaia di euro per esami e interventi. Non i poveri, anzi non solo i poveri, ma una buona parte delle famiglie italiane che rinunciano ormai ad altre spese per curarsi. Perché non solo nella costosa e ricca Milano dei colossi della sanità privata, dall’Humanitas al San Raffaele, ma anche nell’ospedale pubblico del più profondo dei Sud occorre pagare per avere cure in tempi accettabili. Le segnalazioni di cittadini costretti a spendere per fare prima non si contano e arrivano da tutto il Paese.

Invertire la tendenza si può ma non bastano gli incrementi da 2 miliardi del fondo sanitario (sui 128 di quest’anno) sventolati dalla destra al governo come un successo. Va alzata la percentuale della spesa sanitaria rispetto al Pil, diretta mestamente verso un misero 6,1% a detta dello stesso esecutivo. Appunto, ci vogliono grandi investimenti. Un piano per la sanità da almeno 18 miliardi. Ma sarebbe meglio da 25.

65 mila posti letto perduti

C’è il piccolo ospedale di città che non aveva ragione di esistere, perché si trovava vicino a centri più grandi, ma c’è anche la struttura che in una zona isolata garantiva assistenza ai cittadini. In vent’anni In Italia gli ospedali pubblici sono passati da 777 a 516, mentre il numero di quelli privati accreditati è stabile e adesso le cliniche sono quasi lo stesso numero dei centri pubblici. E mentre la sanità si è ritirata, la popolazione è cresciuta, passando dai 57 milioni del 2001 agli attuali 59. Tra il 2001 e il 2019 i posti letto sono diminuiti quasi di un terzo, cioè di 65 mila. Nel 2020 con il Covid si è stati costretti ad aprirne 40mila, destinati a chiudere di nuovo in questi anni. Anche in questo caso, lo sbalzo per il privato è stato meno importante.

Dietro alla riduzione di ospedali e letti c’è prima di tutto un miglioramento clinico e tecnologico della sanità, che ha portato a ridurre le degenze e, ad esempio, ad operare in day surgery problemi che un tempo richiedevano il ricovero. La medicina cresce, le strutture diminuiscono. Fin qui non ci sarebbero problemi. “Sì, certo, questo è vero – spiega Carlo Palermo, presidente del principale sindacato degli ospedalieri, Anaao – La medicina è cambiata ma se ci paragoniamo a tutte le altre grandi nazioni il calo del numero di letti da noi è stato troppo accentuato”. Soprattutto, secondo il sindacalista, non è andato di pari passo con la crescita di altre attività di cura: “Penso all’assistenza territoriale. Basta vedere l’accesso spropositato ai pronto soccorso di persone con problemi banali, che andrebbero seguite altrove, per capire che qualcosa non torna. E nel frattempo aumentano i malati cronici che finiscono nei reparti di emergenza e non hanno un letto dove essere ricoverati”. Per Palermo “mancano tutte le strutture intermedie, i famosi ospedali di comunità. Ma siamo anche senza assistenza domiciliare, strutture di fisioterapia. A sviluppare tutto questo dovrebbe pensarci il Pnrr ma il problema è che manca il personale. Ecco, chi lo fa viaggiare il nuovo sistema?”.

Il numero dei camici bianchi negli ultimi 20 anni è stabile, intorno ai 108 mila. “Il punto – dice Palermo – è prima di tutto che i dottori italiani sono tra i più anziani. Il 56% ha più di 55 anni mentre in Inghilterra non raggiungono il 20%. Succede quindi che ogni anno vadano in pensione più persone di quelle che entrano nel sistema. Poi non basta vedere il totale ma bisogna andare nei reparti. Pronto soccorso, anestesie, chirurgie generali, pediatrie hanno ormai ben noti problemi di personale. Ci sono settori, come l’emergenza, dai quali i colleghi scappano, magari per mettersi in proprio e lavorare a gettone. È stata sbagliata la programmazione nel decennio precedente e ora è difficile recuperare. I ministri alla Salute Giulia Grillo e Roberto Speranza hanno incrementato in modo consistente i contratti di formazione ma ci vorrà ancora un po’ di tempo prima di vedere gli effetti, visto che per specializzarsi ci vogliono 4 o 5 anni”.

Liste di attesa

Sono la spina nel fianco, la dimostrazione della crisi di organici e organizzazione del sistema pubblico, il motivo che spinge migliaia di persone ogni giorno verso il privato. Le liste di attesa non si riescono ad alleggerire, malgrado i piani, le riforme e le strategie che tengono continuamente impegnate le Regioni. Quello che è accaduto a causa del Covid descrive bene la situazione. Nel 2019 in Italia il sistema sanitario faceva quasi 230 milioni di visite ed esami specialistici, dicono i dati di Agenas, l’Agenzia sanitaria nazionale degli enti locali. Con la pandemia l’attività è calata e in molte persone hanno saltato gli accertamenti: consulti, risonanze, ecografie, tac. Così, nel 2021 la domanda è aumentata. Ebbene, il sistema non è stato in grado di rispondere a questa crescita. In quell’anno infatti le prestazioni specialistiche sono state 194 milioni, cioè il 15% in meno rispetto al periodo precedente alla pandemia. Con un’offerta così ridotta, e la domanda che addirittura è aumentata, le attese sono cresciute, portando molte persone a chiedere una risposta rapida pagando, magari per avere la libera professione intramoenia dei camici bianchi pubblici.

Le attese riguardano anche gli interventi chirurgici. I tumori, in base alle indicazioni ministeriali, vanno operati entro 30 giorni nel 90% dei casi. È l’obiettivo che è stato dato a tutte le amministrazioni locali. Se si guarda quello alla prostata, la gran parte delle Regioni non raggiunge assolutamente la sufficienza. Il Piemonte si è fermato al 40%, il Friuli al 32%, la Liguria al 29% e l’Umbria addirittura al 18%. Significa che molti di coloro che hanno quel tipo di cancro, il più diffuso tra gli uomini, aspettano due, tre, quattro o addirittura cinque mesi prima di entrare in sala operatoria. Qualcuno ha difficoltà a rispettare i tempi anche per il tumore al polmone. In Campania si opera in 30 giorni solo nel 45% dei casi. Va meglio, in tutte le Regioni, con la mammella. Poi c’è il problema degli screening oncologici perduti, e non recuperati, a causa del Covid. Si tratta di circa 2,5 milioni di prestazioni che si cercano di recuperare. Un’operazione nella quale ha detto di volersi impegnare anche il ministro alla Salute Orazio Schillaci.

È di questi giorni la storia di un uomo fiorentino che ha già fatto la visita pre operatoria ma aspetta da oltre 90 giorni che gli venga rimosso proprio il tumore della prostata a Careggi. Parliamo di un paziente che vive in una Regione considerata tra le migliori per la sanità. Lui non ha scelto l’intramoenia. È stata costretta a farlo invece M.F., una signora che da mesi attende di essere chiamata per una delicata operazione alla schiena. Stanca di non potersi più muovere, ha messo mano al portafoglio e chiesto all’equipe del primario che l’aveva presa in carico all’ospedale Cannizzaro di Palermo di essere operata in libera professione: 11 mila euro con un medico dello staff del primario, 20 mila euro con il primario. Per magia le è stato fissato l’intervento in 10 giorni. Poi ci sono gli esami. La tac per un sospetto tumore alla prostata fissata, sempre in Sicilia, per ottobre di quest’anno, subito ottenuta pagando, oppure l’esame istologico di una donna di 36 anni che non arriva da tre mesi e spinge i Nas ad avviare un’indagine sull’anatomia patologica di Gallipoli. Chi ha un’assicurazione è fortunato. A Roma una donna malata di tumore al colon è stata operata in una clinica privata in cinque giorni dall’esame diagnostico perché aveva una copertura sanitaria grazie al suo lavoro, all’Asp di Roma solo per fare l’esame l’attesa era di diversi mesi. Parliamo di vita o di morte.

Ma sono esempi che raccontano solo una parte minima del problema. Nessuna Regione, forse nessuna struttura sanitaria, è risparmiata dalle attese.

La spesa scende

I numeri raccontano una storia di ritirata dello Stato e contemporanea avanzata dei privati. Secondo i dati appena pubblicati dall’ufficio studi della Camera, nel 2001 la spesa sanitaria pubblica ammontava a 70 miliardi di euro, con un incremento del dieci per cento rispetto all’anno precedente: un aumento quindi molto maggiore dell’inflazione. Dal 2002 l’incremento annuale si è stabilito mediamente sempre sotto l’inflazione (ad eccezione di un balzo nel 2005) attestandosi a quota 115 miliardi di euro nel 2019, l’anno prima della pandemia. Scrivono i tecnici della Camera: “L’andamento della spesa sanitaria pubblica in Italia, in base ai dati dell’Istituto nazionale di statistica ha fatto registrare tra il 2000 e il 2008 un aumento di circa il 3%, superiore all’aumento del Prodotto interno lordo. Il rapporto di tale spesa rispetto al Pil si è attestato oltre il 6%. Dal 2009 al 2017, il tasso di variazione medio anno rispetto al Pil era gradualmente sceso attestandosi intorno allo 0,1%, il rallentamento della componente pubblica della spesa sanitaria fino al 2019 ha avuto ripercussioni sulla crescita della spesa sanitaria privata sostenuta dalle famiglie, aumentata in media di circa il 2,5%”. Dove non arriva il pubblico arrivano le tasche degli italiani insomma.

Anche l’Università Cattolica, non certo un covo di statalisti, nell’ultima relazione sulla spesa sanitaria dell’Osservatorio conti pubblici, scrive: “Gli aumenti moderati e comunque inferiori all’inflazione degli anni successivi possono aver creato problemi in vari ambiti a fronte delle esigenze crescenti legate all’invecchiamento della popolazione e all’elevato costo dei nuovi farmaci e nuove tecnologie. […] Gli aumenti registrati in questo periodo non sono stati sufficienti a tenere il passo con l’inflazione. Se si valuta la spesa in termini reali, si registra un calo che l’ha riportata attorno ai valori del 2004”. Insomma, la spesa sanitaria negli ultimi venti anni alla fine tra accelerazioni e frenate si è ridotta e di molto. E il raffronto con gli altri Paesi è impietoso: secondo l’Oecd Health Data nel 2020 la spesa pubblica nominale pro-capite nel Regno Unito è stata pari a 5.019 dollari, in Germania 6.939, in Francia 5.468 in Italia  3.747.

I privati e i miliardi che mancano

I soldi pubblici in sanità non bastano. E soprattutto non basteranno nei prossimi anni. L’Italia non solo investe meno di Paesi come Francia e Germania per finanziare l’assistenza ai suoi cittadini ma resta molto più in basso anche sommando a quella dello Stato la spesa privata (che vale il 2,2% del Pil). E se nel 2021 la spesa pubblica è arrivata al 7,3% del Prodotto interno lordo il governo Meloni ha stimato una riduzione, fino a scendere nel 2025 al 6,1%. Pochissimo. Un dato che smentisce le parole di giubilo della maggioranza per i 2 miliardi l’anno in più stanziati per il Fondo sanitario nazionale fino al 2025 .

E il calo è ancora più pesante se si considera che nei prossimi anni i bisogni e le spese sanitarie tenderanno a crescere. A spiegare il meccanismo è Mario Del Vecchio, docente di Management sanitario all’Università di Firenze e direttore dell’osservatorio sui Consumi privati in Sanità della SDA Bocconi. “La popolazione invecchierà e inoltre ci saranno innovazioni tecnologiche e farmacologiche. Ci sarà bisogno di più denaro per la sanità”. Del Vecchio stima che nel prossimo decennio ci vorrebbe una crescita della spesa sanitaria di 1-1,5 punti di Pil, cioè tra i 18 e i 25 miliardi. Una bella cura ricostituente per permettere al sistema pubblico di rispondere ai bisogni e alle attese dei cittadini. “Già oggi abbiamo dei buchi rispetto ai diritti, un razionamento implicito, del quale le liste di attesa sono un esempio. La sanità non dà quello che promette. Ecco, figuriamoci cosa potrà avvenire tra qualche anno”. Il problema è soprattutto politico. “A vedere le manovre di chi governa, ci sono altre priorità nell’agenda della politica ma anche degli italiani. Si punta sulla riduzione delle tasse o delle bollette, su trasferimenti monetari sulle pensioni o sul reddito di cittadinanza. Non su aumentare il fondo sanitario nazionale. E non parlo di uno o due miliardi di aumento. Bisogna ragionare in termini di percentuali di Pil”.

Visto che lo Stato non vuole mettere più denaro sulla sanità e i cittadini non vogliono l’aumento delle tasse, il problema della mancanza di quei 18-25 miliardi cadrà sul privato. “Una prima possibilità potrebbe riguardare un impegno del mondo del lavoro, con i sistemi mutualistici – dice Del Vecchio – Ma anche qui mi sembra che più di tanto non si voglia o possa crescere, visto che la priorità è quella di un abbassamento del costo del lavoro. Allora resta la spesa del privato per le prestazioni oppure per un’assicurazione o una mutua”. Si finisce lì, a quella che qualcuno chiama seconda gamba del sistema sanitario, che in Italia sta diventando sempre più importante. “Il punto è che in questo modo chi non può pagarsi nemmeno un’assicurazione viene tagliato fuori. Di questo rischio bisogna parlarne, per organizzare un sistema di protezione. Altrimenti l’iniquità sarà molto più alta. Vanno evitate contrapposizione pubblico-privato, aiutate le persone a spendere meglio i soldi per la sanità”. L’argine così, però, è rotto. La politica e il sistema pubblico dovrebbero porsi il problema di adeguare le attese alle risorse che la collettività è disposta a investire. “Deve essere chiaro che con il 6,1-6,4% del Pil si può assicurare un certo livello di risposta, ma non quello di Paesi come la Francia e la Germania, che è il 50% in più”.

Il rischio catastrofe per le Regioni

Non è una questione di destra o di sinistra. Le Regioni gestiscono la sanità, che rappresenta l’80% del loro bilancio, e conoscono bene il problema dei finanziamenti. In più, in questa fase storica, a dare una mazzata ai bilanci ci si sono messe le spese extra per il Covid e quelle per le bollette. Così tutti gli assessori alla Salute hanno scritto al ministro Orazio Schillaci usando termini particolarmente pesanti per descrivere quanto sta accadendo. Parlano del rischio di “conseguenze catastrofiche” per il sistema pubblico a causa dell’insufficienza delle risorse economiche, della carenza di personale, dei rincari di materie prime e consumi energetici. Evidentemente i 2 miliardi in più di fondo sanitario stanziati ogni anno fino al 2025 dal governo anche secondo loro non bastano. “La sostenibilità economico-finanziaria dei bilanci sanitari è fortemente compromessa dall’insufficiente livello di finanziamento del sistema sanitario nazionale, dal mancato finanziamento di una quota rilevante delle spese sostenute per l’attuazione delle misure di contrasto alla pandemia e per l’attuazione della campagna vaccinale, dal considerevole incremento dei costi energetici sostenuti dalle strutture sanitarie e socio assistenziali, pubbliche e private accreditate, dal continuo incremento dei prezzi delle materie prime, dei materiali e dei servizi per effetto dell’andamento inflattivo”, hanno scritto le Regioni.

A coordinare gli assessori alla Salute nella Conferenza Stato-Regioni è Raffaele Donini dell’Emilia-Romagna. La sua posizione dimostra come negli enti territoriali a questo punto interessi giusto il colore di chi governa. “Da un lato dobbiamo depoliticizzare la sanità – dice – Adesso è inutile stare a dire di chi è la responsabilità del sottofinanziamento o buttarla in una contrapposizione politica fine a se stessa. Sappiamo tutti che i problemi arrivano da almeno un decennio di programmazione non adeguata. Però adesso al governo c’è Giorgia Meloni. O il suo esecutivo si occupa, con urgenza, di garantire alla sanità la sostenibilità finanziaria e di incentivare la formazione di nuovi medici, oppure la sanità gli esploderà fra le mani”. Più chiaro di così. La sua Regione, dice, per ora regge ma anche chi ha le spalle robuste di un servizio regionale forte alla lunga, “dopo tre o quattro anni che reperisce risorse proprie per far fronte a spese straordinarie del Covid e dell’energia” rischia di cedere.

E poi Donini aggiunge: “Da un altro lato dobbiamo politicizzare la questione, nel senso più nobile del termine, facendo sì che la sanità pubblica universalistica torni al centro dell’agenda nazionale. Noi Regioni abbiamo situazioni molto diversificate ma su sostenibilità finanziaria e carenza di professionisti siamo unite. Pensiamo al tema dell’urgenza. I medici mancano a tutti. Ce ne sono 12 mila e nei prossimi anni ne andranno in pensione 4 mila e tanti chiederanno di essere trasferiti in altri reparti. A fronte di queste uscite, ne entreranno solo 1.500. Ecco, questo è un problema nazionale”.

Anche l’assessore dell’Emilia sa che se non arrivano più soldi il privato guadagnerà spazio. “Allora però deve essere integrato, non competitivo con il sistema pubblico. Ci dobbiamo confrontare affinché si collochino nelle traiettorie che noi indichiamo come necessarie per la nostra sanità”. Forse la Regione di Donini riuscirà a farlo ma non è detto che anche le altre riescano, o vogliano, percorrere la stessa strada.

L’offerta privata

Il vuoto, come detto, viene colmato sempre se la domanda resta uguale. Vale in politica, vale in economia, vale in un settore che incrocia queste diverse sfere: la sanità. Secondo l’ultimo rapporto Oasi dell’Università Bocconi dedicato al sistema sanitario, se nel 2000 le strutture sanitarie territoriali accreditate (che ricevono rimborsi dal sistema pubblico) come laboratori, ambulatori, strutture residenziali e non, consultori, centri di salute mentale e altri erano il 38,9 % dell’offerta sanitaria totale pagata dallo Stato, nel 2020 questa percentuale è salita al 58%. Con alcune Regioni che hanno subito una esternalizzazione dell’offerta sanitaria enorme: nello stesso arco di tempo il Piemonte è passato da una presenza di strutture accreditate sul totale di quelle territoriali del 23,9 al 64%, in Lombardia si è passati dal 34 al 70%, l’Emilia Romagna dal 31 al 57%,  in Puglia dal 38 al 63%, in Sicilia, dove la privatizzazione spinta è iniziata già nei primi anni Novanta con i governi berlusconiani, è rimasta stabile al 61 %.

Oggi la spesa sanitaria pubblica per l’assistenza privata accreditata, compresa quella ospedaliera, vale il 17% del budget pubblico, 400 euro pro-capite a fronte di una spesa del sistema sanitario pro-capite complessiva di 2.298 euro (nel 2019 la spesa per i privati era pari a 378 euro).

Sia chiaro, il tema non è che i privati siano il male, il pubblico il bene. Il tema è, come detto, che i buchi vengono colmati se la domanda resta uguale. E nel privato, ma anche nel pubblico, chi paga ha una corsia preferenziale ormai del tutto evidente.

Di certo c’è che i grandi gruppi hanno visto incrementare i fatturati in questi anni e anche di cifre importanti. Il gruppo San Donato della famiglia Rotelli, un colosso del settore che da solo gestisce 19 ospedali compreso il San Raffaele di Milano, nel 2014 fatturava 1,3 miliardi di euro, nel 2019, anno pre covid, ha fatturato 1,7 miliardi. Il Policlinico San Donato, che fa parte del gruppo, nel 2016 fatturava 151 milioni, nel 2021 171 milioni. La società Humanitas Mirasole, della famiglia Rocca fatturava 438 milioni nel 2019, nel 2021 la cifra è salita a 534 milioni.

La spesa diretta per privati

Una fetta importante della spesa sanitaria pubblica va ai privati accreditati. Ma a questa cifra va aggiunta la spesa diretta delle famiglie italiane, cosiddetta “out of pocket” proprio perché a carico dei cittadini. Una cifra cresciuta in questi anni, di pari passo con il venir meno della risposta del servizio pubblico. Secondo l’Istat la spesa diretta per privati (anche in regime di intramoenia nelle strutture pubbliche) delle famiglie era pari a 34,4 miliardi di euro nel 2012, nel 2021 è arrivata a quota 41 miliardi di euro. In questa cifra c’è la spesa diretta e quella attraverso regimi assicurativi o di finanziamento attraverso istituzioni senza scopi di lucro. Una crescita negli ultimi dieci anni del 20%, pari a 7 miliardi di euro in più.

Ma per quali settori gli italiani si rivolgono al privato? Oltre venti miliardi di euro sono stati spesi per visite specialistiche, servizi dentistici, servizi di diagnostica e per servizi paramedici (cioè infermieri, psicologi, fisioterapisti ecc.). Altri 15 miliardi di euro sono stati spesi per l’acquisto di farmaci, attrezzature terapeutiche e altri prodotti medicali come siringhe, garze e così via. Quasi 6 miliardi di euro sono stati spesi per i ricoveri ospedalieri e in strutture sanitarie di assistenza a lungo termine. Tutte queste voci sono in costante crescita negli ultimi anni, e tendenzialmente cresceranno ancora. E come detto riguardano anche il sistema di intramoenia nell’ospedalità pubblica: cioè la possibilità di usufruire di strutture pubbliche ma in regime “privato” diciamo così, pagando insomma: nell’ultimo anno prima del Covid secondo il ministero della Salute in Italia la spesa pro-capite per la libera professione intramuraria è stata pari a 14 euro, con picchi in Emilia Romagna (23 euro), Toscana (22), Piemonte (21), Veneto e Lombardia (17).

In generale si tratta di spese che incidono direttamente nel bilancio delle famiglie al di là delle tasse che già si pagano per l’assistenza sanitaria pubblica e convenzionata. Secondo l’ultimo studio Oasi della Bocconi, la spesa privata volontaria per servizi sanitari nel 2019 incideva per il 2,2% del Pil, nel 2021 la cifra è salita al 2,4%. Per fare un raffronto, in Germania nel 2021 la spesa privata diretta è stata pari all’1,8% del Pil, in Svezia 1,6, nel Regno Unito 2,1, solo per osservare sistemi sanitari che hanno alla base una filosofia del tutto diversa tra loro. In ogni caso la cifra è inferiore a quella italiana. Questo a conferma che il mito della sanità pubblica è ormai tale: un mito appunto. Gli italiani spendono molto di più di altri europei per la spesa sanitaria privata diretta.  E questo è un elemento nuovo nella storia di questo Paese, fondata sul “mito” della sanità e dell’istruzione pubblica.

La crescita delle assicurazioni

Uno dei fenomeni legati alle difficoltà della sanità pubblica è la crescita del ricorso a forme sanitarie integrative. Oggi sono circa 20 milioni gli italiani che hanno una copertura aggiuntiva. Si tratta di una buona parte dei lavoratori dipendenti, ma anche autonomi, e di chi ha deciso comunque di tutelarsi anche al di fuori della professione. Gli altri devono affidarsi al sistema pubblico oppure pagarsi le prestazioni private senza alcun tipo di rimborso.

Sono molto diversi i tipi di assistenza integrativa che si possono avere. Il primo, e il più diffuso, riguarda una quindicina di milioni di persone assistite con il welfare contrattuale e aziendale, che vale oltre 3 miliardi di euro l’anno. Nel 2013 gli assistiti erano 7 milioni, quindi c’è stata un’esplosione del settore. È successo perché nel 2018 i decreti Turco e poi Sacconi hanno dato nuovo slancio ai fondi sanitari, che si voleva si concentrassero su prestazioni non garantite dal pubblico, come l’odontoiatria, l’assistenza socio-sanitaria e la riabilitazione, ma poi si sono allargati. La normativa fiscale prevede la deducibilità di quanto versato a enti o casse che si occupano di sanità integrativa e man mano che venivano rinnovati i contratti collettivi veniva inserito l’obbligo della sanità integrativa. Hanno così avuto un enorme rilancio le mutue, soggetti no profit, che in cambio di una contribuzione annuale garantiscono prestazioni in convenzione con le strutture sanitarie o rimborsi. A queste si appoggiano i datori di lavoro o i lavoratori autonomi per avere il welfare sanitario. Ovviamente le coperture variano molto a seconda di quanto si versa. Ci sono contratti collettivi che prevedono 100 euro l’anno di contributi, ma il ventaglio di prestazioni che spetta ai lavoratori è comunque ampio anche se non tutti ne fruiscono.

Ma alle mutue si può iscrivere anche chi non lavora, pagando sempre una quota annuale. “Sono circa 1,5 milioni le persone che hanno scelto questa strada”, spiega Massimo Piermattei, direttore della società di mutuo soccorso CAMPA e presidente del Consorzio Mu.Sa., che raccoglie appunto le mutue specializzate in sanità. Infine, ci sono le compagnie di assicurazione. Le polizze dei singoli (sanitarie o infortuni) riguardano, stima Piermattei, circa 4 milioni di persone. Il giro d’affari era di circa un miliardo nel 2021 e di meno di 700 milioni nel 2013. Anche in questo caso c’è stata una crescita, trainata da persone che si possono permettere spese importanti, anche superiori ai mille euro l’anno, per sottoscrivere una polizza. Non solo, il sistema del welfare aziendale ha tirato dentro anche le compagnie di assicurazioni, alle quali talvolta si rivolgono i Fondi di nuova costituzione che da soli non riescono a gestire i grandi contratti di categoria con tanti dipendenti.

“Noi mutue siamo diverse – spiega Piermattei – Siamo no profit, a chi ad esempio esce dal mondo del lavoro continuiamo ad offrire assistenza dietro contribuzione volontaria. Le polizze assicurative sanitarie di solito durano fino a 70 anni e poi basta e comunque escludono la copertura di malattie preesistenti. Noi cerchiamo di integrare il pubblico dove non arriva”. Il problema è che dietro l’enorme sviluppo di questi anni delle forme integrative non c’è una regia e il mercato non sempre è in grado di premiare i soggetti più virtuosi.  “Il sistema pubblico non può rinunciare al suo ruolo, ma il fenomeno della sanità integrativa favorisce l’accessibilità alle cure sanitarie riducendo il divario tra chi può spendere per fruire di prestazioni private e chi non ne ha la possibilità”, dice Piermattei.

Il brutto esempio inglese

Al di là degli aspetti economici c’è da farsi un’altra domanda riguardo all’esternalizzazione di servizi sanitari ai privati. E cioè: come cambia la qualità delle cure quando si coinvolge il privato in modo importante? Se lo è chiesto la rivista Lancet, che ha pubblicato alcuni mesi fa uno studio a suo modo dirompente. I ricercatori hanno valutato l’andamento della mortalità nel Regno Unito, un Paese dove molti pezzi di sanità sono stati affidati al privato dal 2012, quando il governo conservatore ha avviato una riforma (l’Health and social care act) in base alla quale il “National health system” è stato completamente ripensato. Si è osservato un periodo che va dal 2013 al 2020 e si è visto che per ogni unità percentuale di attività sanitaria ceduta al privato c’è stato in incremento di 0,38 cosiddetti “decessi evitabili” grazie a tempestivi interventi sanitari, anche di prevenzione, ogni 100 mila abitanti.

Perché è successo? Sempre secondo lo studio, tra l’altro, i fornitori a scopo di lucro tendono a ridurre i costi, ad esempio abbassando il numero degli operatori. Inoltre, ci potrebbe anche essere un meccanismo di selezione dei pazienti “più redditizi” (per i quali il lavoro è meno complicato a parità di rimborso della prestazione da parte del pubblico) creando di conseguenza una concentrazione di casi complessi nel sistema sanitario nazionale. “Ricordiamo che tale meccanismo strutturale è stato chiamato in causa nella situazione pandemica in Lombardia, con una sanità privata di rilevante qualità, ma orientata ad attività programmate e più remunerative e una conseguente debolezza delle strutture pubbliche in cui si concentravano le attività intensive, con un conseguente squilibrio fra domanda e disponibilità di posti letto”, spiega Marco Geddes da Filicaia, esperto di sanità pubblica e collaboratore di Saluteinternazionale. “Anche in Italia uno studio è arrivato a risultati analoghi: un incremento di 100€ pro capite di spesa sanitaria pubblica equivaleva a una riduzione dell’1,47% della mortalità evitabile”, aggiunge Geddes. Il lavoro, realizzato da ricercatori senesi, però è datato, risale a dieci anni fa e prende in considerazione il periodo compreso tra il 1993 e il 2003. “E i decessi sono solo la punta dell’iceberg in quanto sono solo gli eventi più catastrofici. Se le morti evitabili aumentano, quanti sono i casi dei pazienti non adeguatamente gestiti? Quali conseguenze per pazienti e famiglie in seguito ad un peggioramento della qualità delle cure?  Per molti politici che propugnano il primato del privato sul sistema sanitario pubblico conviene analizzare i dati e le ricerche scientifiche”, scrivono invece Gabriele Gallone, esperto di statistica e epidemiologia, e Chiara Rivetti, segretaria regionale del sindacato Anaao del Piemonte.

Lo scenario, insomma, è piuttosto preoccupante. Anche se l’organizzazione sanitaria in Italia è diversa da quella dell’Inghilterra, bisogna osservare bene cosa succederà nella qualità dell’assistenza dei prossimi anni, quando senza cambi di rotta l’attività sanitaria privata diventerà sempre più significativa. Per il resto, la politica dovrà rispondere prima o poi alla domanda principale: quanto vale la vita degli italiani?

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