La mediazione è fondamentale, soprattutto
nelle scuole, per facilitare i rapporti tra le istituzioni e le persone di
origine straniera. Ma la professione non è riconosciuta a livello nazionale e
gran parte degli operatori lavora senza tutele
Annie ha nove anni ed è appena arrivata a
Milano dalle Filippine, dove era stata lasciata dai genitori venuti a lavorare
in Italia. A scuola Annie si accorge subito che non sapere l’italiano è un
problema, non capisce neanche cosa dicono le insegnanti, lei che nelle
Filippine ha sempre avuto ottimi voti. In più, non sa com’è organizzata la
scuola italiana e non riesce a parlare con i compagni perché non ha argomenti
in comune con loro.
Innanzitutto Annie ha bisogno di un corso
di prima alfabetizzazione, che la sua scuola organizza, poi le insegnanti
devono capire il livello delle competenze che ha già acquisito e chiedono
quindi l’aiuto di una mediatrice linguistico-culturale. Connie Castro, una
donna di origine filippina con esperienza ventennale, accompagnerà la bambina
per una settimana lavorando insieme alle insegnanti. “Fare accoglienza a scuola
è gratificante, aiuti i bambini e a volte li vedi cambiare in una settimana”,
dice Castro. “Mi piace anche fare i colloqui con i genitori, a volte mi
sembrano fragili come i loro figli. Annuiscono anche se non hanno capito bene,
ma si vergognano di ammettere di non sapere bene la lingua”.
La mediazione linguistico-culturale è
presente nelle scuole italiane da più di vent’anni e ha aiutato molte Annie di
diverse origini. Ma non solo: opera in tutti i rapporti tra gli enti pubblici e
gli utenti stranieri. Nonostante l’importante ruolo svolto dalla mediazione,
non esiste ancora una normativa nazionale che definisca le qualifiche, le
mansioni e l’inquadramento contrattuale della professione. La situazione varia
da regione a regione, a volte anche da comune a comune, e la maggior parte dei
mediatori si ritrova a lavorare a chiamata, senza tutele e garanzie.
Un mondo esteso
Per il ministero dell’istruzione Annie è
un’alunna Nai (NeoArrivati in Italia), cioè arrivata in Italia “negli ultimi
due anni”. Nell’anno 2019-2020 c’erano
quasi 23mila Nai nel sistema scolastico italiano, un numero
consistente anche se rappresenta solo il 2,6 per cento del totale degli alunni
provenienti da contesti migratori. A livello nazionale gli studenti con
cittadinanza non italiana rappresentano il 10,3 per cento del totale della
popolazione scolastica, ma bisogna considerare che il 66,7 per cento di questi
sono seconde generazioni. Più di
un quarto degli alunni con background migratorio frequenta le scuole della
Lombardia.
La mediazione nelle scuole di solito
funziona ancora “a chiamata”, cioè su richiesta degli insegnanti e nell’ambito
di progetti finanziati dal comune o dal ministero dell’istruzione, che però non
sempre hanno a disposizione un numero di ore sufficiente per coprire la
richiesta. “Nell’anno scolastico 2021-2022 a Milano potevamo distribuire 560
ore tra le scuole primarie di tre zone della città e per tutte le lingue. Già a
febbraio 2022 le avevamo terminate”, racconta Eva Veroli, della cooperativa
Farsi Prossimo, che gestisce il servizio di mediazione di uno dei poli
territoriali Start, enti incaricati dal comune di Milano di supportare
le scuole in ambito interculturale.
I mediatori lavorano anche nel settore
socio-sanitario. Nel consultorio di via Monreale a Milano, per esempio, il
martedì è “la giornata delle donne arabe”: la segreteria raggruppa tutti gli
appuntamenti in un’unica mattina, quella in cui è presente Nagla Gaffar,
mediatrice araba di origine egiziana. “Seguiamo molte gravidanze dall’inizio
fino a dopo il parto, ma anche visite ginecologiche e corsi pre e post parto”,
spiega Gaffar.
A Milano si contano sedici consultori
dotati di un servizio fisso di mediazione (su diciotto sedi) e le lingue più
richieste riflettono la presenza delle comunità straniere della città: arabo,
tagalog, cinese e srilankese. “Spesso capitano situazioni di diversità
culturale”, continua Gaffar. “Per esempio si mangiano cose diverse durante la
gravidanza e per molte donne non è semplice rispettare le indicazioni. Per me
la parte più difficile è non ‘stare dalla parte’ di nessuno, né della donna né
dell’operatore”.
Il mondo della mediazione è molto esteso e
spesso i mediatori partecipano a progetti più ampi con ruoli diversi. “Da un
paio d’anni tengo dei corsi di formazione per operatori, spiego la complessità
del mondo arabo, partendo per esempio da come viviamo il Ramadan o i diversi
tipi di velo”, spiega Zeenat Raja, mediatrice di origine pachistana. “Proviamo
a portare gli operatori a ‘decentrarsi’ cioè a cercare di capire che il proprio
modo di pensare, la propria cultura non è l’unica possibile. È una competenza
importante quando lavori con i migranti”. Si tratta di un approccio che viene
dalla Francia, dove la psicoanalista e docente universitaria Marie Rose Moro ha
fondato la “clinica transculturale” per supportare psicologicamente i migranti
fragili che non sanno la lingua, delineando così alcune caratteristiche del
lavoro del mediatore e degli operatori quando hanno a che fare con persone con
background migratorio.
Punto morto
Il ruolo del mediatore è richiesto anche
in ambito giuridico-istituzionale. È il tribunale, spesso quello dei minori, a
richiederne il servizio per poter comunicare con le parti. “I casi possono
essere molto vari”, racconta Omar Raja, mediatore di origine pachistana di
seconda generazione. “Famiglie segnalate per qualche fragilità, donne che
scappano dal compagno violento. Assisto spesso minori richiedenti asilo, tutti
quei ragazzi dai 12 ai 15 anni che arrivano in Italia dopo viaggi via mare e
via terra. Oltre a fare da interprete, li aiuto a risolvere le questioni
burocratiche grazie alle mie conoscenze”.
Raja è uno studente di giurisprudenza
ormai alla fine del suo percorso e ha vissuto il lavoro da mediatore come un
preludio al suo futuro da avvocato in ambito internazionale. La professione del
mediatore, infatti, non ha un percorso di carriera definito: libero
professionista, collabora con più cooperative, chi è fortunato riesce a far
parte di progetti che prevedono un consistente monte ore in qualche centro o
consultorio.
In Lombardia, a differenza di altre
regioni come per esempio il Lazio, la professione del mediatore non è
riconosciuta ufficialmente. “Da anni combattiamo per avere un albo”, dice
Karina Vergara Scorzelli, mediatrice di lingua spagnola e presidente della
cooperativa Crinali. “Vorremmo sapere quanti siamo, avere una deontologia
professionale definita, migliorare le nostre competenze, ma siamo sempre a un
punto morto”.
Non esistono norme nazionali, anche se
alcune leggi come la 40 del
1998, la cosiddetta Turco-Napolitano, afferma che le “istituzioni possono
avvalersi di mediatori qualificati con permesso di soggiorno non inferiore a
due anni”, con l’implicito che il mediatore sia una persona con background
migratorio.
“Avevamo sperato che con l’apertura del
corso di laurea in mediazione linguistica e culturale, ormai vent’anni fa, si
delineasse in modo professionale la nostra figura ma così non è stato”,
continua Scorzelli. “Nel corso ci sono molti esami di economia che sembrano
portare gli studenti verso la mediazione commerciale. In più non si studiano il
tagalog o il romeno, lingue di due delle comunità straniere più numerose in
Italia”.
“Non è facile fare il mediatore”, concorda
Hong Yanyan, una delle poche mediatrici sinoitaliane di seconda generazione,
spiegando che nel settore privato potrebbero esserci più sbocchi lavorativi e
che a Milano diversi centri stanno attivando servizi di mediazione linguistica.
“Io ho lavorato come precaria per le cooperative per un anno o due. Poi per
fortuna ho trovato un centro medico privato che aveva molti pazienti cinesi e
cercava una persona che parlasse cinese e rispondesse al telefono. Così ho
finalmente ottenuto un contratto”.
È ancora difficile capire come si evolverà
la professione. “A volte”, conclude con amarezza Scorzelli, “è come se
aspettassero che questo lavoro muoia”.
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