Stigma, tabù, opportunismo, una bassa
remunerazione, concorsi deserti, mancanza di formazione, l’opposizione della
politica: perché in molte regioni la legge 194 del 1978, che ha depenalizzato
l’aborto, è ancora inattuata
All’ospedale civile dell’Annunziata di
Cosenza, in Calabria, i ginecologi sono tutti obiettori di coscienza.
Nell’ospedale calabrese l’interruzione di gravidanza è possibile solo due volte
alla settimana quando è presente il medico “a gettone” che pratica l’ivg. “A
più di sei mesi dalle dimissioni dell’unico ginecologo non obiettore
dell’Annunziata, il servizio è ancora carente e procede a singhiozzo”, spiegano
le attiviste del collettivo cosentino Fem.In che a dicembre
hanno incontrato la direttrice amministrativa dell’ospedale, ottenendo la
promessa di stipulare una convenzione per avere altri due medici a contratto e
garantire il servizio sul territorio.
Ma “questo a oggi non si è ancora
verificato e a svolgere il servizio c’è un solo medico”, scrivono le attiviste
sulla loro pagina Facebook. Sul caso ha presentato un’interrogazione
parlamentare la deputata Anna Laura Orrico, il 18 gennaio.
L’ospedale di Cosenza non è un caso
isolato in Italia: secondo
la relazione del ministero della salute presentata nel 2022, il 64,6 per cento dei
ginecologi italiani era obiettore di coscienza nel 2020, un tasso in leggera
diminuzione rispetto al 2019, mentre erano obiettori il 44,6 per cento degli
anestesisti e il 36,2 per cento del personale non medico.
Tuttavia il report Mai
dati dell’associazione Luca Coscioni, curato da Chiara Lalli e Sonia
Montegiove (diventato
un libro nel 2022), chiarisce che la situazione in alcune zone del paese è
ancora peggiore, perché i dati della relazione ministeriale non sono
aggiornati. Secondo il report, in Italia sarebbero 72 gli ospedali che hanno
tra l’80 e il 100 per cento di obiettori di coscienza tra il personale
sanitario; ventidue gli ospedali e quattro i consultori con il 100 per cento di
obiettori tra tutto il personale sanitario, 18 gli ospedali con il 100 per
cento di ginecologi obiettori e infine 46 le strutture che hanno una
percentuale di obiettori superiore all’80 per cento.
Medici di serie b
Così, di fatto, a 45 anni
dall’approvazione della legge che ha depenalizzato l’aborto in Italia entro il
terzo mese di gravidanza, il tasso di obiezione tra i medici e il personale
sanitario è talmente alto da rendere problematica o impraticabile
l’interruzione di gravidanza in molte zone del paese: le donne che vogliono
ricorrere all’ivg faticano a trovare informazioni, devono aspettare molto tempo
per abortire oppure sono costrette a spostarsi in un’altra regione per fare
l’operazione.
Dall’indagine di Lalli e Montegiove,
basata su richieste di accesso civico generalizzato alle regioni, emerge che il
Molise è la regione con la più alta percentuale di obiettori: su due strutture
ospedaliere in totale, una ha tutti i medici ginecologi obiettori, mentre
nell’altra sono obiettori otto medici su dieci. Seguono la Puglia – su 35
ospedali otto sono con obiezione al 100 per cento – e le Marche, dove in due
strutture ospedaliere (Fermo e Jesi) tutti i medici sono obiettori.
In Molise l’ivg si pratica solo
nell’ospedale di Campobasso e l’unico medico non obiettore della regione,
Michele Mariano, è stato diverse volte costretto a rimandare la pensione,
perché ai concorsi indetti per la sua sostituzione non si presentava nessuno.
Secondo Mariano la maggior parte dei colleghi è obiettore “perché chi fa aborti
non fa carriera: trovatemi un primario che ne faccia. In Italia c’è la chiesa,
e finché ci sarà il Vaticano che detta legge il problema ci sarà sempre. E poi
perché la maggioranza dell’opinione pubblica – e dei colleghi – considera chi
pratica l’ivg come qualcuno da mettere da parte, ginecologi di serie b, che
fanno qualcosa di brutto”.
Anche secondo Marina Toschi, ginecologa
dell’Aied, il problema è soprattutto il giudizio legato all’aborto: “La
difficoltà di accedere all’aborto in zone come le Marche è legato a diversi
fattori, ma in primo luogo allo stigma che ancora circonda i medici che
praticano l’ivg. Spesso i ginecologi non obiettori si trovano a fare solo
aborti, con un carico di lavoro molto alto, senza una remunerazione adeguata e
subendo il discredito ancora legato a queste operazioni. Molti pensano: chi me
lo fa fare?”, commenta Toschi, che una volta ogni tre settimane andava
all’ospedale di Ascoli Piceno per eseguire interventi di interruzione di
gravidanza. Ma dal 31 gennaio 2023 la convenzione con l’Aied è stata revocata,
dopo 42 anni, senza che sia stato chiarito come sarà garantito il servizio.
“I veri obiettori sono i direttori
sanitari e quelli generali che non applicano la legge e, per esempio, lasciano
un ospedale come quello di Fermo senza servizio di ivg”, continua Toschi,
secondo cui esiste anche una carenza di personale sanitario: “I ginecologi in
generale sono pochi e servirebbero più assunzioni di medici non obiettori”,
aggiunge.
Inoltre, aggiunge la ginecologa dell’Aied,
c’è un problema di formazione professionale: “Manca la formazione sul tema
dell’ivg, ma anche sulla contraccezione. Questi argomenti sono ancora un grande
tabù nelle università italiane, in particolare in quelle cattoliche.
All’università s’insegna poco o niente come si usano i farmaci come il
misoprostolo (un farmaco abortivo) o come s’inseriscono le spirali per la
contraccezione, nonostante siano indicate dall’Organizzazione mondiale della
salute (Oms) come i migliori contraccettivi”, continua. A riprova di questo,
“le linee di indirizzo del ministero della salute che prevedono che le pillole
abortive (Ru486) siano somministrate nei consultori non sono state adottate da
molte regioni anche per mancanza di formazione degli operatori”. Per questo
secondo le attiviste del collettivo marchigiano Sisters on the block,
molte donne sono ancora costrette a spostarsi in altre regioni come l’Emilia
Romagna per abortire.
Irene Cetin, docente di ostetricia e
ginecologia all’università degli studi di Milano e primaria di ginecologia
dell’ospedale Buzzi di Milano, osserva che per molti ginecologi il problema è
legato al carico di lavoro e alla ripetitività delle operazioni di interruzione
di gravidanza: “Come primario le posso assicurare che il problema organizzativo
si presenta quando in un reparto c’è un tasso superiore al 50 per cento di
medici obiettori. In quel caso il lavoro per i non obiettori diventa rilevante.
Dal punto di vista professionale, occuparsi solo di ivg è penalizzante nella
crescita, anche perché è un’operazione semplice”.
Secondo Cetin, che è una medica non
obiettrice e fa parte della Società italiana di ginecologia e ostetricia
(Sigo), nel sistema sanitario italiano “bisogna essere molto motivati per
continuare a essere non obiettori, soprattutto se in una struttura gli
obiettori sono la maggioranza”.
Gli obiettori
Paolo Rollo, medico obiettore e primario
di ginecologia dell’ospedale Cannizzaro di Catania, sostiene che l’obiezione di
coscienza della totalità dei medici del suo reparto non impedisce all’ospedale
di fornire il servizio d’interruzione di gravidanza in maniera regolare. Rollo,
ginecologo dal 1985, ritiene giusto che nella legge italiana ci sia un articolo
che consente ai medici di non praticare aborti per ragioni personali e di
natura etica.
“Non ci deve essere nessuno stigma, né
sugli obiettori né sui non obiettori. L’importante è che il servizio sia
garantito, questo ci chiede lo stato. A prescindere dall’organico,
l’applicazione della legge 194 deve essere garantita”, afferma Rollo, secondo
cui non ci sono liste di attesa nel suo ospedale per chi vuole abortire nei termini
stabiliti dalla legge. “Abbiamo un medico non obiettore a contratto per tre
anni, per assicurare il servizio dell’interruzione di gravidanza nel nostro
reparto. Non c’è nessuna lista di attesa, le donne possono venire in
ambulatorio il giovedì, anche senza prenotazione”, afferma. Per il primario non
dovrebbero esserci ospedali che non garantiscono questo servizio, anche nel
caso in cui tutti i medici del reparto siano obiettori, perché dovrebbero
intervenire i dirigenti sanitari e attivare dei contratti ad hoc per svolgere
questo tipo di operazioni o delle convenzioni con strutture in cui il servizio
è garantito.
È della stessa opinione Mario Meroni,
primario del reparto di ginecologia dell’ospedale Niguarda di Milano, obiettore
di coscienza: “Il diritto della donna di poter effettuare un’interruzione
volontaria di gravidanza non deve scontrarsi con il diritto dei medici di avere
le proprie idee: nell’ospedale pubblico dobbiamo tutelare i diritti di tutti.
Al centro ci deve essere la donna. Ma questo può essere risolto lavorando
insieme ai consultori e organizzando il lavoro in maniera adeguata”. Secondo
Meroni, “non è vero che se il dirigente è obiettore considererà il servizio
d’interruzione di gravidanza come di serie b”, né che i ginecologi obiettori
siano favoriti nella carriera. “A Milano io sono l’unico primario obiettore,
quindi al limite è vero il contrario”, sottolinea.
Il primario sostiene che ci sia una
questione anche anagrafica sull’obiezione di coscienza: “I ginecologi più
giovani sono quasi tutti non obiettori, perché culturalmente percepiscono
l’interruzione di gravidanza in maniera diversa. Mentre la vecchia guardia ha
ragioni di ordine personale, spesso legate a motivazioni etico-religiose”.
Nell’ospedale Niguarda di Milano ci sono
otto non obiettori su 22 medici: “Ci sono stati momenti in cui avevo solo due
non obiettori, ma anche in queste condizioni è possibile garantire il
servizio”, ribadisce Meroni, che come Rollo suggerisce che primari e dirigenti
sanitari dovrebbero in questi casi collaborare con i consultori e stipulare
convenzioni con altri ospedali per attuare pienamente la legge 194.
Nessuna informazione e
pochi dati
Ogni anno arrivano decine di testimonianze
e di denunce alle associazioni che si occupano della piena applicazione della
legge, come la Libera associazione italiana ginecologi non obiettori per
l’applicazione della 194 (Laiga), l’associazione Luca Coscioni e le attiviste
di Obiezione respinta e di Non una di meno. “Nonostante la legge 194 del 1978
sia stata adottata ormai 45 anni fa, non è mai stata fornita un’informazione
chiara, pubblica e trasparente sulle modalità di accesso ai servizi di
interruzione volontaria di gravidanza e soprattutto sugli ospedali a cui ci si
può rivolgere per ricorrere a questo servizio”, spiega la Laiga.
“Questo è particolarmente problematico
dato che l’elevatissimo tasso di obiezione di coscienza lascia le donne in
balìa della sorte in un momento in cui bisogna agire in fretta per restare nei
limiti gestazionali previsti dalla legge. Le donne spesso si muovono per
sentito dire, si rivolgono a personale obiettore, perdendo tempo prezioso”,
continua la Laiga, che sul suo sito offre
una mappatura delle strutture italiane dove è possibile effettuare
l’interruzione volontaria di gravidanza, sia farmacologica sia
chirurgica.
Filomena Gallo, avvocata e segretaria
dell’associazione Luca Coscioni, spiega che “la prima cosa da fare sarebbe
aprire i dati, aggiornali, renderli noti e disponibili, in modo da avere una
fotografia attuale della situazione al livello regionale e di ogni singola
struttura. Ma questo al momento non c’è”. Secondo Gallo in ogni struttura dove
sono troppi i medici obiettori bisognerebbe indire dei concorsi per medici
prevedendo un 50 per cento di non obiettori e 50 per cento di obiettori, come è
avvenuto all’ospedale San Camillo di Roma, perché non garantire il servizio o
interromperlo “è un reato”, e “corrisponde a non attuare la legge”.
Molti concorsi di questo tipo, tuttavia,
sono bloccati dalla politica. In Liguria per esempio (dove i medici non
obiettori sono 59 su 123) la proposta di “valutare la possibilità di procedere
all’indizione di uno o più concorsi, nelle strutture ove venga ritenuto più
necessario, per l’assunzione di ginecologi non obiettori al fine di garantire
la completa attuazione della legge 194/78” è stata
bocciata dalla maggioranza di centrodestra nel consiglio
regionale il 31 gennaio.
L’associazione Luca Coscioni riceve ogni
anno decine di denunce di donne che addirittura raccontano di essere incappate
in farmacisti obiettori, che si sono rifiutati di dare loro la pillola del
giorno dopo, che è un contraccettivo. “L’obiezione dei farmacisti non è
prevista da nessuna legge e le pillole del giorno dopo sono contraccettivi e
non farmaci abortivi”, spiega Gallo. “È illegale che i farmacisti si dichiarino
obiettori”. Tuttavia, continua l’avvocata, spesso le donne che inizialmente
hanno presentato una denuncia per il mancato servizio ricevuto, poi non procedono
per via legale: “Una volta che hanno risolto il loro problema, vogliono
dimenticare il prima possibile l’esperienza negativa che hanno avuto”.
Una legge con molti
limiti
Il diritto del medico, dell’anestesista o
del personale sanitario a non operare l’interruzione di gravidanza attraverso
l’obiezione è garantito dall’articolo 9 della legge
194 introdotta in seguito a un lungo dibattito parlamentare, che ha depenalizzato l’aborto
in Italia entro il primo trimestre di gravidanza e a determinate condizioni per
la donna.
“All’epoca si cambiava radicalmente una
pratica dei medici ospedalieri pubblici, depenalizzando l’aborto che fino a
quel momento era vietato. Così si inserì questo articolo per permettere di
obiettare a quelli che avevano scelto di fare quelle professioni prima
dell’introduzione della legge e che avevano delle questioni di tipo morale. Si
permetteva quindi ai medici di continuare a esercitare la loro professione pur
essendo cambiati i loro doveri”, spiega Caterina Botti, docente di filosofia
morale ed esperta di bioetica all’università La Sapienza di Roma.
Ma per Botti, il principio dell’obiezione
di coscienza è fortemente legato all’impianto della legge, frutto di grandi
compromessi politici, che concepisce l’aborto non come “pratica di libertà
della donna”, al pari di altre tradizioni giuridiche, ma come “pratica
sanitaria a tutela della salute delle donne”.
Secondo la legge, infatti, ancora oggi
possono interrompere la gravidanza le donne che certificano “circostanze per le
quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero
un serio pericolo per la salute fisica o psichica, in relazione o allo stato di
salute, o alle condizioni economiche, o sociali o familiari, o alle circostanze
in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni
del concepito”.
Botti spiega che l’aborto, secondo la
formulazione della legge italiana, non è una scelta della donna, ma “un dovere
del medico per tutelare la salute della donna, per questo si permette al
personale sanitario di obiettare, di non adempiere cioè a quel dovere per
ragioni etiche”.
Quarantacinque anni dopo la sua
approvazione, non si può capire questa formulazione della legge se non si
considera che all’epoca “è stata frutto di grandi negoziati tra partiti che
erano molto reticenti a depenalizzare l’interruzione di gravidanza”,
depenalizzazione di cui si discuteva senza risultato dal 1971. Ma proprio in
questa prospettiva storica, secondo Botti, oggi quell’articolo che prevede
l’obiezione di coscienza “potrebbe essere superato, perché oggi chi sceglie
quella professione sa che tra i suoi doveri c’è anche quello di praticare
aborti. Chi non vuole farlo potrebbe scegliere un’altra professione, un’altra
specializzazione oppure operare fuori del servizio sanitario nazionale”.
La docente di bioetica e di storia della
medicina Chiara Lalli, autrice del libro C’è chi
dice no. Dalla leva all’aborto, come cambia l’obiezione di coscienza (Il Saggiatore),
ha posizioni simili. “L’obiezione di coscienza non dovrebbe essere ammessa per
legge”,scrive Lalli nel suo libro. “È spesso usata come un ariete per
contrapporsi a diritti individuali sanciti dalla legge, i medici che non vogliono
fare aborti per ragioni di coscienza entrano direttamente e personalmente in
conflitto con le donne che richiedono quel servizio”, continua la saggista.
“Ammettere che un medico possa fare
obiezione di coscienza è una forma di moralismo paternalistico. Si radica
nell’idea che il medico sia detentore della verità o di una verità più forte
della nostra e che pertanto sappia anche cosa sia il nostro bene e decida di
conseguenza”, continua Lalli. “Un medico non può scegliere di fare il medico e
poi esercitare questo potere per imporre la propria visione del mondo e per
sottrarsi ai suoi doveri”, conclude nel saggio.
Non è sulle stesse posizioni Mirella
Parachini, ginecologa, attivista radicale, vicepresidente della Federazione
internazionale degli operatori di aborto e contraccezione (Fiapac) e tra i
fondatori dell’associazione Luca Coscioni. Secondo Parachini, l’obiezione di
coscienza può convivere con il diritto all’aborto. “Non sono contraria
all’obiezione di coscienza, perché è presente anche in paesi in cui l’aborto è
accessibile come la Francia e il Regno Unito. Permettere l’obiezione di
coscienza presenta problemi organizzativi, ma si può conciliare con la garanzia
di un accesso rapido: dovrebbe essere la struttura che non fa ivg a informare
la donna e addirittura a prenotare l’intervento in strutture in cui l’ivg è
praticata. Le donne non dovrebbero trovarsi nella condizione di cercare da sole
le strutture o tramite amiche e conoscenti, né dovrebbero aspettare più di due
settimane per sottoporsi all’operazione”, continua Parachini, secondo cui un
sistema di incentivi anche economici per i medici non obiettori favorirebbe
l’attuazione del sevizio.
C’è un dato, infine, che secondo la
ginecologa dovrebbe farci riflettere: “Il numero degli aborti è in costante
diminuzione in Italia dal 1978, quando la legge è stata approvata. Invece gli
aborti clandestini rimangono stabili, secondo la relazione ministeriale, e sono
stimati tra i 15mila e i ventimila all’anno. Questo dato, che si conferma anche
negli ultimi anni, nasconde un aumento in percentuale degli aborti clandestini
nelle aree in cui l’ivg è meno accessibile”. Questo è un altro punto che
dovrebbe spingere le istituzioni a garantire l’applicazione della legge su
tutto il territorio nazionale.
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