In tutte le democrazie
occidentali, sempre più si va verso una sanità privata e l'outsourcing di istituzioni che
prima erano gestite dallo Stato: un recente convegno all'Istituto Mario Negri
ha riportato l'attenzione su questi temi, analizzandone le implicazioni.
Privatocrazia: oltre il mantra
della parità pubblico-privato in sanità è l'eloquente
titolo di un convegno organizzato dall'Istituto Mario Negri di Milano lo scorso
6 febbraio, e che ha affrontato con nettezza la contraddittorietà di un sistema
sanitario nato pubblico nel 1978 e poi scivolato in una problematico condominio
con la sanità privata, che in regioni come la Lombardia ha decisamente preso il
sopravvento su una controparte pubblica via via più debole e impoverita. La
fondamentale legge 833 del 1978 aveva fatto dell'Italia un avamposto
dell'applicazione del costituzionale diritto alla salute nel mondo intero,
sancendo l'universalità della copertura del Servizio sanitario nazionale.
In questo momento, il nostro sistema sanitario è ancora effettivamente
universale. Tuttavia, alcuni principi stanno venendo meno, come quello per il
quale tutti i cittadini devono essere curati nello stesso modo. Non è così, in
un'Italia dove non solo permangono, ma si acuiscono, disparità di assistenza
tra regione e regione così gravi da portare a una differenza di 13 anni di vita
in salute tra chi abita in Alto Adige e chi abita in Calabria.
Accesso negato nel pubblico, le
scorciatoie nel privato
Anche la globalità delle prestazioni erogate è ormai messa in discussione:
la gamma delle prestazioni in capo al servizio sanitario è molto ampia nel
testo di legge ma, nella realtà, i LEA (livelli essenziali di assistenza) che
avrebbero dovuto essere il "pavimento" sotto il quale non bisognava
scendere, sono ora una chimera irraggiungibile in molte situazioni nazionali:
LEA e LEP (livelli essenziali di prestazioni) sono ormai diritti esigibili per
prestazioni non disponibili, in termini di presenza regionale, di tempi
d'attesa e di qualità non sufficiente. Infine, i ticket sanitari sono
differenziati per regione, pur su LEA identici.
Nel 2016, l'Italia era al 6° posto per percentuale di popolazione che non
accedeva ai servizi sanitari; nel 2021 tale percentuale è salita all'11%, in
tutte le regioni ma soprattutto al Sud. La crisi economica, accentuata dalla
pandemia, ha portato alla rinuncia a spendere per la propria salute o
all'impoverimento a causa dei consumi sanitari. La migrazione sanitaria, indice
della disuguaglianza assistenziale, è aumentata del 50%, con trasferimento di
risorse dalle regioni più povere alle regioni più ricche (e soprattutto al loro
settore privato, più o meno convenzionato, più o meno mascherato) e, per di
più, tali risorse sono spendibili solo da alcuni ceti sociali.
Quando è stata emanata la legge 833, la fiscalità era concepita in modo
tale che il concorso alla spesa sanitaria era suddiviso in base alle risorse
economiche di ciascun cittadino; ora, però, la progressività fiscale è stata
gradualmente mutilata, con la conseguenza di alleviare il peso ai ricchi e di
scaricarlo maggiormente sui poveri. In Italia ci sono 50 miliardari che hanno
la stessa ricchezza dei 18 milioni più poveri: va impedito che la salute
diventi l'appannaggio dei più ricchi.
Nei quarant'anni passati dal varo della legge, gli italiani hanno
introiettato i principi di una sanità pubblica che, pur essendo
sotto-finanziata (il fondo sanitario nazionale è il 6,1% del PIL, sotto il
minimo adeguato di 6,5 secondo l'ONU e la metà della percentuale tedesca), ha
prodotto ottimi indicatori di sopravvivenza, molto migliori, per esempio, di
quelli degli USA, che pure devolvono alla sanità il 15% del PIL. Devono,
perciò, vigilare perché tale eccellenza sanitaria generalista non vada
progressivamente erodendosi: l'ipotesi di legge dell'"autonomia regionale
differenziata", invece di spingere verso l'uguaglianza tra le regioni,
tende ad accentuarla. Si pensi che la spesa sanitaria pubblica finanzia ora
fornitori pubblici per il 70% e per il 30% fornitori privati, ma le percentuali
si stanno avvicinando; portabandiera di questa tendenza sono Veneto, Lombardia
ed Emilia-Romagna, che vogliono avocare a sé la governance di tutti gli enti
sanitari e persino della prescrivibilità dei farmaci, pretesa che viene meno al
dovere di solidarietà nazionale.
Il tramonto della sanità pubblica
A dispetto di tutte le prove esistenti sul rapporto inverso tra salute dei
cittadini e assenza di un sistema sanitario universalistico, ovunque, in
Occidente, vi è un restringimento della sanità pubblica a favore di quella
privata. Negli Stati Uniti esso è palese (limitazione della popolazione
assistita e riduzione delle prestazioni disponibili), ma anche in Italia questa
tendenza è in atto da più di un decennio, serpeggiando, talvolta, in modo
"carsico", con la riduzione dell'accessibilità alle prestazioni, con
la defiscalizzazione che toglie risorse alla sanità pubblica, con l'affidamento
a privati di servizi assistenziali e diagnostici, con la collocazione in
edifici privati di presidi di sanità pubblica.
Dagli anni '70, d'altronde, è in atto in tutte le democrazie occidentali,
una trasformazione della sanità in senso neoliberistico, in cui il primato è
attribuito al mercato, che impone l'esternalizzazione (outsourcing) di
tutte le istituzioni che un tempo erano in mano allo stato, in un regime in cui
il privato diventa co-gestore delle risorse pubbliche. In Italia, per ora,
l'esternalizzazione ha raggiunto solo marginalmente il nocciolo della cosa
pubblica, ma lo sta assediando. La progressiva introduzione di strategie di
mercato nella conduzione della res publica ha millantato una
maggiore efficienza e un risparmio per i cittadini, ma nei paesi dove essa è
più pronunciata (USA) ha già fallito in molti settori, da quello della sanità a
quelli dell'istruzione e persino a quello militare.
È, comunque, un errore valutare la privatizzazione solo o soprattutto in
termini costi-benefici economici: occorre valutarla rispetto al suo peso sulla
legittimità stessa delle istituzioni democratiche. Come è stato ribadito
durante il convegno, lo stato non è un'azienda, ma il luogo di esercizio dei
diritti umani in assenza di dominio e di arbitrio. Questa è la lezione di Kant:
nello stato pre-civile, è l'individuo a decidere i limiti della libertà altrui,
in base al proprio potere fisico o economico. Solo lo stato democratico può
definire e implementare i diritti, in nome della collettività. Le
esternalizzazioni, che delegano ai privati grandi discrezionalità su tali
diritti, mettono quindi a repentaglio le basi stesse della democrazia:
l'appalto a organizzazioni private di funzioni pubbliche inficia la possibilità
di controllo da parte dello stato, che ne viene depotenziato, mina la capacità
di vigilanza civica, determinando la cosiddetta "apatia civica", per
la molteplicità degli attori in ballo e per la difficoltà di riconoscere i
responsabili di eventuali carenze di servizio.
Persino le associazioni no profit possono contribuire a depotenziare le
funzioni pubbliche, spesso mischiando laico e religioso e albergando, in mezzo
a organizzazioni socialmente benemerite, altre affette da corruzione.
Privatizzandosi, insomma, lo stato abdica alla sua responsabilità primaria
di creare situazioni di giustizia per tutti, in assenza di dominio. Silvio
Garattini ha chiuso il convegno con una lectio magistralis che
ha richiamato tutti i temi cari alla medicina democratica, dalla sostenibilità
ambientale alla non liceità morale dei brevetti sui farmaci utili, dalla
facilità di autorizzazione di famaci inutili alla necessità di allineare le
assunzioni e la retribuzione del personale sanitario alle medie europee e di
aumentare il fondo sanitario nazionale. Vale la pena di leggerla (o ascoltarla)
per intero.
Ascolta l'intervento
integrale di Silvio Garattini
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