mercoledì 30 aprile 2025

Non lamentiamoci dei dazi altrui quando è l’Europa a distruggere la piccola impresa - Mauro Crimi*


Un articolo del sito ufficiale della CNA (Confederazione Artigiani e Imprenditori d’Italia) di questa mattina esordisce così: “Siamo preoccupati dalle conseguenze che l’introduzione dei dazi americani potrebbe determinare sul nostro sistema produttivo e in particolare su artigiani, micro e piccole imprese italiane, sempre più internazionalizzati”. Per poi proseguire: “Speriamo perciò in una rapida mossa del governo italiano nell’ambito della sua autonoma ‘business diplomacy’ nonché in una maggiore ragionevolezza del presidente Donald Trump e del suo staff”. Da responsabile del Mezzogiorno della Cna però non la penso esattamente così. E vi spiego perché.

Quando il saggio indica la luna, lo stolto guarda il dito

Perché soffermarsi solo sulla politica dei dazi che il governo Trump vuole attuare in America senza fare autocritica rispetto al nostro sistema-mercato europeo? La politica delle certificazioni rappresenta oggi una vera e propria gabbia burocratica per le piccole imprese europee, la politica della CE, obbliga anche le piccole imprese a dotarsi delle certificazioni più svariate, da quella linguistica a quella delle competenze informatiche, a quella sulla cybersicurezza, pur di rimanere ancorati al cosiddetto “mercato europeo”, insieme all’eccessiva quantità di regolamentazioni rischiano di avvelenare la vita delle piccole imprese artigiane.

Guardare al futuro economico dell’Europa vuol dire avere una visione e costruire un indirizzo preciso, guardare il dazio che è solo una strategia economica di un paese, quando internamente abbiamo regole e leggi che limitano dall’interno le piccole imprese italiane ed europee, sono queste le vere politiche andrebbero abbattute e che distruggono l’impresa stessa.

Non possiamo lamentarci degli altri quando tutto quello che fa l’Europa distrugge la piccola impresa, le peculiarità identitarie di un territorio, delle piccole comunità. Bisognerebbe proteggere e valorizzare saperi secolari, oggetti e tecnologie, che abbiamo solo noi e che tutto il mondo ci invidia. Noi piuttosto che salvaguardare tutto questo tendiamo a distruggerlo, a standardizzare tutti i prodotti. Le multinazionali sono le uniche che in Europa trovano terreno fertile, le piccole imprese di artigianato di pregio sono sempre ostacolate e mai avvantaggiate seriamente.

Abbiamo un sistema di certificazioni così complicato e farraginoso che per esempio all‘Assemblea Regionale Siciliana per l’aggiudicazione dell’appalto delle divise vengono accettate solo le imprese meglio certificate, in genere aziende dalle grandissime dimensioni, mentre vengono escluse tutte le aziende piccole, magari locali, magari con un prodotto qualitativamente migliore. Insomma vince la certificazione sulla qualità del prodotto. Tutto questo è inaccettabile per un sistema economico come il nostro, composto per il 99% da piccole e medie imprese e che di questo 99% il 95% è rappresentato dalle piccole imprese e il restante 95% dal sistema delle microimprese.

I Paesi si sviluppano economicamente laddove si sviluppa il settore manifatturiero, che porta con sé conoscenze e know-how, le imprese piccole sono l’anticamera dello sviluppo di un’impresa. In Europa abbiamo distrutto questo settore e non salvaguardiamo quello che rimane.

Quali contromisure dovrebbe attuare l’Ue

L’Europa stessa dovrebbe attuare una politica di dazi doganali, non è solo protezionismo ma è qualcosa che impreziosisce il mercato, oggi l’Europa è aperta al peggio: merce cinese del sudest asiatico. I dazi non servono per creare l’autarchia ma per impreziosire il mercato.

Per chi produce artigianato artistico, ricoprendo micro nicchie di mercato, il dazio non è un problema, anzi impreziosisce i prodotti. L’Europa non protegge il proprio mercato e non protegge chi produce qualità, l’Europa va verso l’appiattimento. Se avessimo dovuto seguire le direttive europee non avremmo più dovuto produrre ricotta, perché non pastorizzata, quindi piuttosto che salvaguardare le produzioni che ci hanno fatto grandi nel mondo, andiamo verso l’appiattimento del mercato.

Quando gli artigiani italiani devono spedire all’estero è richiesta una quantità di certificazioni incredibile come se stessero esportando un carrarmato, abbiamo mille cavilli, lacci e laccetti che rallentano l’esportazione della nostra merce, come se il paese non volesse fare uscire i prodotti. Non possiamo lamentarci dei sistemi altrui quando la nostra politica è un cavillo e rallenta piuttosto che sostenere le imprese artigiane.

Il dazio in America lo pagherà il consumatore straniero e i nostri prodotti non ne risentiranno, è più una strategia comunicativa che altro. I prodotti italiani continueranno ad essere venduti e chi li consumerà pagherà di più, ma fa parte del gioco. Come sartoria Crimi da anni studiamo le aree geografiche in cui conviene rivolgerci, ma questo è il gioco delle imprese, altrimenti si fa gli impiegati statali.

Bisogna spingere l’Europa ad avviare una politica commerciale seria.

*Sarto e rappresentante per il Mezzogiorno della CNA

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martedì 29 aprile 2025

Defendeus sa terra nostra: a Teulada, un convegno su salute, ambiente e poligoni - Carlo Bellisai

 

Si è svolto sabato 26 aprile a Teulada il convegno DEFENDEUS SA TERRA NOSTRA, promosso dal movimento A FORAS, che da oltre dieci anni propone iniziative di informazione e di lotta contro le basi e i poligoni militari in Sardegna. Sul territorio di Teulada e, in parte, su quello del comune di Santa Maria Arresi, ricade una delle più ampie servitù militari dell’isola, pari a 7500 ettari, a cui vanno aggiunte le acque prospicenti.

Davanti ad un pubblico di alcune decine di persone, di cui una buona metà abitanti del paese, i relatori si sono concentrati sulle ricadute sulla salute e sull’ambiente delle esercitazioni militari e sulle azioni legali intentate dalla società civile.

Il fisico e attivista Massimo Coraddu ha parlato delle indagini epidemiologiche svolte, dalle quali risulta che tra gli abitanti delle case e dei terreni agricoli prossimi al poligono militare si è riscontrata un’incidenza di mortalità doppia rispetto a quella riscontrata a Teulada centro. Queste persone hanno subito detonazioni pari o superiori ai 120 decibel, oltre la soglia del dolore uditivo, con probabili conseguenze sulla funzione, hanno respirato polveri sottili dense di elementi tossici.

Ha poi ricordato il caso della così detta Penisola Delta, un istmo del promontorio che da almeno trent’anni è stato usato come bersaglio durante le periodiche esercitazioni. Il Ministero della Difesa, costretto dai ricorsi delle associazioni, ha deciso infine di bonificarla, dopo che per anni l’aveva definita “imbonificabile.” Ma al momento non c’è nessun piano di bonifica, se non quello di aprire una strada, facendo brillare gli ordigni inesplosi e portando via i detriti. Ma soprattutto si vuole bonificare quel martoriato istmo, solo allo scopo di riprendere a bersagliarlo.

Graziano Bullegas, di Italia Nostra-Sardegna, ha approfondito il discorso dal punto di vista del danno ambientale, ricordando che all’interno dell’area militare e nel tratto di mare limitrofo esistono due aree protette SIC, di salvaguardia ambientale. Ma come può essere compatibile la protezione della flora e della fauna con la deflagrazione delle bombe? Diremmo incompatibile. E se anche si procedesse davvero alla bonifica della penisola delta, si dimentica che la maggior parte degli ordigni utilizzati durante le esercitazioni finisce in mare. Sulla Valutazione di Impatto Ambientale presentata dalla Difesa, le associazioni Italia Nostra, Assotziu Consumadoris Sardigna, Unione Sindacale di Base hanno fatto ricorso al TAR, di cui si attende il giudizio.

La parola passa quindi all’avvocato Paolo Pubusa, che ricorda che oltre alle basi militari, in Sardegna è presente anche la fabbrica di armamenti della RWM e che le battaglie legali su poligoni e armi si sono spesso intrecciate. Rivela, tra l’altro, che nei documenti presentati dal Ministero della Difesa non c’è traccia dell’esigenza che, dopo la bonifica, si ricominci a bersagliare; questo perché altrimenti faticherebbero a spiegarne il senso.

L’avvocato Giulia Lai riporta invece indietro la memoria al processo penale per disastro ambientale, svoltosi a Cagliari nei confronti dei quattro generali che avevano responsabilità dirette nella gestione delle esercitazioni a Capo Teulada. Sono stati assolti nel 2024 “perché il fatto non sussiste.”

Ma la sorpresa arriva leggendo le motivazioni della sentenza che ammette “che risulta dimostrata la compromissione dell’ecosistema e il rapporto causa-effetto tra esercitazione e inquinamento.” Ma subito dopo, al contrario, ribadisce che “l’attività addestrativa militare risponde agli impegni istituzionali ed agli accordi internazionali della Difesa.”

Si è parlato della salute, si è parlato dell’ambiente, due principi che dovrebbero essere tutelati. Ma constatiamo che esiste anche un terzo principio, quello della sicurezza nazionale, quello della così detta difesa. Che passa sopra gli altri due come un carrarmato.

Aggiungiamo che si può allora chiedere di quale difesa si parla? Difendersi dalle malattie, con una buona sanità territoriale, difendersi dall’inquinamento con le comunità energetiche. La difesa non deve essere armata, ma solidale. Tutto il resto, il Ministero, gli eserciti, l’aviazione, le fabbriche di morte, i droni-killer, fanno parte di altri interessi, quelli del profitto disumano.

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lunedì 28 aprile 2025

Volevo rispondere a Fubini sul gas russo ma ho rinunciato: lo stile mellifluo non mi appartiene – Ferdinando Boero

 Tutte le mattine ascolto Prima Pagina, di Rai Radio Tre. Questa settimana c’è Federico Fubini, del Corriere della Sera. Specialista di economia. Parla con voce pacata, melliflua, e molti ascoltatori che telefonano si complimentano per come conduce la trasmissione. Il 17 aprile ha parlato del gas russo. Un tempo molto conveniente per noi, ci informa: i prezzi erano molto vantaggiosi. Ma, se dovessimo ricominciare a comprare da loro, i prezzi sarebbero senz’altro più alti, visti i prezzi degli altri fornitori. Fubini suggerisce, quindi, che se oggi compriamo gas da altri, a prezzi più alti, i russi alzerebbero anche loro i prezzi. Così, dico io, continueremmo a comprare dagli altri, visto che non ci sarebbe differenza.

Mi gratto la testa e, mentre sta distillando altre pillole di saggezza interpretativa di quel che legge dai giornali, scrivo un messaggio alla redazione. Gli ascoltatori possono scrivere messaggi oppure telefonare. Ecco il mio messaggio: “Se ci sono più fornitori di una merce ci avete sempre detto che i prezzi sono più bassi per la concorrenza, ora ci dite il contrario: prima compravamo solo dalla Russia, ma ora con più fornitori il prezzo del gas russo salirà ! Ma perché raccontate queste storie? Nando“. Gli ascoltatori devono firmare i messaggi con il nome, niente cognome, e specificare da dove li mandano. Niente messaggi anonimi. C’è differenza se un messaggio lo ha scritto Nando oppure Asdrubale. E se lo manda da Suzzi ha significato ben differente se, per caso, lo dovesse mandare da Pizzonero.

 

La redazione trova interessante il mio messaggio e risponde: Se vuole la richiamiamo per il filo diretto. Ho chiamato, in passato, ma è capitato che il giornalista mi interrompesse senza lasciarmi finire, distorcendo quel che gli stavo dicendo, senza lasciarmi possibilità di replica. Mentre penso se accettare o no, Fubini legge con entusiasmo un articolo di Fabrizio Cicchitto, un bruco che da craxiano ha metamorfosato in farfalla: berlusconiano. Il curriculum di Cicchitto è garanzia di qualità dei suoi giudizi e Fubini dice: è uno che la politica la conosce bene.

Rispondo all’offerta di intervento con un No grazie. Tempo di scrivere e Fubini ci delizia con altre perle di saggezza, tipo i conti che ha fatto su quanto ci metteremo ad estinguerci visto che muore più gente di quanta ne nasce. Riconosce, però, che troppi giovani se ne vanno, ma per lui 2 più 2 fa 22. Il tasso di fertilità attuale è basso (2) e i pochi giovani che facciamo se ne vanno (2). Non gli viene il dubbio che, con offerte di condizioni lavorative migliori i giovani si fermerebbero nel nostro paese e che i tassi di fertilità potrebbero aumentare (4)? Tiene separate le due variabili (22) e non gli viene il dubbio che l’alta mortalità attuale è dovuta al fatto che noi, i figli dei baby boom, siamo tantissimi e che siamo arrivati alla fine del nostro ciclo di vita?

Se i rappresentanti di una coorte (si chiama così il gruppo di individui di una data generazione) molto numerosa arrivano alla fine del ciclo di vita, ci sarà un boom delle morti, come c’è stato il boom delle nascite che ha portato a quella coorte. Morti noi, le condizioni si ristabilizzeranno se i giovani resteranno in Italia perché il paese ha qualcosa da offrire. E il tasso di fertilità aumenterà. Si risolleverà anche l’Inps, visto che i morti non prendono la pensione. A meno che il nonno, rimasto vedovo, sposi la badante ucraina di 22 anni e le lasci la pensione di reversibilità, una volta passato a miglior vita, con il sorriso sulle labbra. Non tutti i vecchietti si possono permettere le Olgettine ma, nel loro piccolo, possono cercarne almeno una.

 

Fubini mi ricorda molto Severgnini e Mieli. Gentilissimi, non perdono mai la calma, pacati. E distillano perle di saggezza dall’alto del più autorevole quotidiano italiano: è lo stile che piace tanto ai benpensanti, altrimenti detti moderati. Non dico che sia necessario affrontarli con lo stile di Sgarbi che, poveretto, è entrato in depressione forse perché si è reso conto di agire come un guitto, una macchietta, e non un fine intellettuale. Però anche persone pacate perdono la pazienza quando capiscono che le si sta prendendo in giro, tipo Prodi. Scherzo, Prodi è uno di quelli che ci prendono in giro.

Penso a Massimo Cacciari che scrive libri molto arzigogolati, infarciti di dotte citazioni in lingua originale, ma che, di fronte a gente così si inalbera e li manda a quel paese, usando un linguaggio da angiporto. Anche Franco Battiato, che di solito parlava di dervisci e di centri di gravità permanente, arrivato in certi ambienti usò terminologie poco rispondenti a quello che ci si sarebbe aspettato da lui. Così facendo si passa dalla parte del torto, e si viene espulsi per fallo di reazione.

Nessun problema a interagire con gente così, ad armi pari. Ma sul Corriere si scrive solo se si pratica quello stile, a quanto pare. Subdole banalità spacciate come perle di saggezza, addolcite dal miele. E da un sorrisino di compatimento, alla Mieli.

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sabato 26 aprile 2025

I veicoli fuori uso sono rifiuti pericolosi - Grig

 

I veicoli non più utilizzabili non possono esser abbandonati.

Lo ricorda la Suprema Corte, con la sentenza Corte cass. Sez. III, 7 aprile 2025, n. 13282, che rammenta che “integra gli estremi del reato di cui all’art. 256, comma 1, lett. b) del d. lgs. 152/2006, la condotta del soggetto che abbia abbandonato o depositato in modo incontrollato veicoli a fine vita, quindi, fuori uso, essendo tali veicoli, ancorché muniti di targa, qualificabili come rifiuti speciali pericolosi se non bonificati mediante la eliminazione dei materiali inquinanti. 
I veicoli fuori uso sono classificati come rifiuti pericolosi (codice CER/EER 160104) sia ai sensi del d. lgs. n. 22 del 1997 che del vigente d. lgs. 152 del 2006, allorché non siano stati bonificati mediante l’eliminazione dei materiali inquinanti
”, fra cui, a titolo di esempio, olio motore, combustibili, liquidi dei freni, che devono esser rimossi con particolari metodologie per evitare fenomeni di inquinamento.

Una pronuncia di grande interesse in difesa dell’ambiente e della salute pubblica.

Gruppo d’Intervento Giuridico (GrIG)

 

 

dalla Rivista telematica di diritto ambientale Lexambiente, 17 aprile 2025

Cass. Sez. III n. 13282 del 7 aprile 2025 (UP 20 mar 2025)
Pres. Ramacci Est. Scarcella Ric. Ndaw
Rifiuti. Veicoli fuori uso quali rifiuti pericolosi.

I veicoli fuori uso sono classificati come rifiuti pericolosi (codice CER/EER 160104) sia ai sensi del d. lgs. n. 22 del 1997 che del vigente d. lgs. 152 del 2006, allorché non siano stati bonificati mediante l’eliminazione dei materiali inquinanti. Peraltro, vanno qualificati come veicoli fuori uso e pertanto rifiuti, ai sensi dell’art. 3, comma 1, lett. b), del d. lgs. 24 giugno 2003, n. 209, i veicoli a fine vita, indipendentemente dal fatto che gli stessi siano ancora muniti di targa, di cui il detentore si sia disfatto ovvero abbia deciso o abbia l’obbligo di disfarsi. Inoltre, affinché un veicolo dismesso possa considerarsi rifiuto pericoloso è necessario non solo che esso sia fuori uso, ma anche che contenga liquidi o altre componenti pericolose, perché altrimenti esso rientra nella categoria classificata con il codice CER/EER 16.01.06. In generale, un autoveicolo contiene elementi e sostanze liquide necessari al suo funzionamento (ad es. combustibile, batteria, olio motore, liquidi refrigeranti), la cui rimozione viene effettuata tramite operazioni complesse che comportano anche l’impiego di particolari attrezzature per lo smontaggio e che richiedono competenze tecniche specifiche. Una volta rimossi, i liquidi e le componenti non più utilizzabili dovranno essere gestiti come rifiuti…

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venerdì 25 aprile 2025

Groenlandia, un pezzo (coloniale) dell’Europa - Miguel Mellino

 

Con le sue preteste annessionistiche, Trump rinnova la violenza del colonialismo. Dalla quale però l'Europa non è estranea, come dimostra proprio la storia delle terre oggi «semi-autonome» dalla Danimarca

«Ci prenderemo la Groenlandia, in un modo o nell’altro». Dopo la sorprendente aggressione annessionista lanciata nei giorni del suo insediamento alla Casa bianca, che includeva anche un’imminente appropriazione sovrana del Canale di Panama e del Canada, così come una fantasia razziale genocidiaria sulla futura «rivierizzazione» di Gaza, Trump ha rilanciato le sue mire coloniali nel bel mezzo di una visita di J.D. Vance nell’isola più grande del mondo: «Ci serve, è una questione di sicurezza nazionale».

Occorre subito ricordare che questa pulsione annessionista degli Stati uniti nei confronti della Groenlandia non è affatto inedita: già nel 1867 come nel 1946 vi furono offerte americane per il suo acquisto. Il ritorno degli Stati uniti a ciò che Frantz Fanon considerava l’essenza del dominio coloniale – «Il colonialismo non è una macchina pensante, non è un corpo dotato di ragione. È violenza allo stato di natura» – sta ridestando la tradizionale «innocenza bianca» della buona coscienza progressista europea. 

La storia rimossa del colonialismo europeo

Questa variante di quella forma più generale di «nevrosi chiamata Europa» – per stare invece al Jean-Paul Sartre della prefazione a Fanon – si è manifestata senza veli nelle lezioni di suprematismo occidentale orgogliosamente impartite sul palco di Piazza del Popolo lo scorso 15 marzo. E tuttavia questa legittimazione esplicita della violenza coloniale da parte di Trump non dovrebbe sorprendere più di tanto in Europa. Va ricordato infatti che diversi paesi europei hanno ancora possedimenti coloniali formali, e che in alcuni casi fanno ancora parte dell’Ue. 

Nel 2023, in un forum internazionale sul tema della decolonizzazione svoltosi a Bali, l’Onu denunciava l’esistenza di diciassette «colonie» sparse per il globo, di cui una parte importante ancora sotto il controllo diretto di un paese europeo. Si pensi alle isole Cayman, Bermuda, Anguilla e Montserrat, alle U.S Virgin Island e alle British Virgin Island nei Caraibi; al Sahara Occidentale e all’isola di Saint Helena in Africa; alle Malvinas in Argentina, a Guam, Nuova Caledonia e Tokelau in Oceania, per non parlare poi dei territori occupati palestinesi. A queste diciassette colonie, occorre aggiungere poi le decine di «semi-colonie» e «territori d’oltremare», che pur godendo di una qualche forma di autonomia restano per lo più sotto il controllo di una ex-metropoli europea, come Aruba, Antille olandesi, Guadeloupe, Martinique, Mayotte, Reunion, Madeira e le Canarie. 

È questo anche il caso della Groenlandia, considerata dall’Ue territorio danese d’Oltremare. La Groenlandia è stata da sempre una colonia speciale per la Danimarca, qualcosa di molto simile a ciò che l’Algeria ha rappresentato per la Francia. La sua importanza per i danesi non era legata soltanto a interessi economici, ma era al centro di un particolare regime di (auto)rappresentazione simbolico e culturale nazionale. Attorno alla colonizzazione dell’isola la Danimarca ha in buona parte costruito la sua identità di nazione bianca e civilizzatrice: narrarsi come veicolo di protezione, salvezza, civilizzazione ed evangelizzazione di un territorio considerato sterminato, inospitale e semideserto e di una popolazione tanto «esotica» quanto «primitiva» equivaleva a rivendicare un proprio ruolo nel movimento europeo e progressivo della storia. Questa prima chiave coloniale di lettura viene già dal nome. Groenlandia, (da Grønland) «terra verde» in danese, sarebbe il nome scelto, secondo le saghe islandesi, dal vichingo Erik il Rosso che apparentemente si esiliò sull’isola durante il X secolo (fatto mai storicamente provato, nonostante gli insediamenti vichinghi), ossia diverse migliaia di anni dopo l’arrivo degli Inuit. Gli Inuit, il cui nome in lingua Inuktitut significa «uomini», già abitanti dell’isola hanno da sempre chiamato il proprio territorio con un altro nome: «Kalaalit Nunnat», letteralmente «terra dei Kalaalit o Inuit», ovvero «terra di uomini». Peccato però che nessuno ricordasse il fardello dell’uomo danese a Piazza del Popolo. 

Questa persistente colonialità costitutiva dell’Ue fa parte di una storia volutamente «rimossa» dal senso comune europeo; si tratta di un «atto fondativo» assente da tutte le narrazioni egemoniche e celebrative della nascita dell’Unione. Può essere importante notare che queste «colonie» e «semi-colonie» di oggi sono state rifunzionalizzate a paradisi fiscali e finanziari, a basi laboratori militari, a riserve di materie prime strategiche e terre rare, ma anche a mura-barriere-campi di contenzione-detenzione di migranti, si pensi alle enclave africane di Ceuta e Melilla. Come mostra il documentario The Spider’s Web: Britain’s Second Empire (2017) ,  l’eredità coloniale, o meglio l’intreccio storico tra capitalismo e colonialismo, si presenta in modo piuttosto visibile anche tra gli snodi principali dell’attuale capitale finanziario. Ma la sua sanguinosa centralità storica si dipana in modo spettrale anche lungo l’infrastruttura globale materiale del «capitalismo delle piattaforme» e della cosiddetta «transizione ecologica o energetica». Spossessamento coloniale-razziale, estrattivismo, sfruttamento del lavoro e predazione finanziaria si sono saldati in un’unica logica storica e criminale di dominio e accumulazione. Ecco «il capolavoro della storia moderna europea», per riprendere il Marx dell’accumulazione originaria nel Capitale

Il colonialismo danese

Tornare sulla vicenda coloniale della Groenlandia appare importante in un continente che fatica ancora a riconoscere nel suo sangue il Dna coloniale delle sue origini. Situata a 20 chilometri dal Canada, 50 volte più grande della Danimarca, e con un territorio costiero libero di ghiaccio o comunque abitabile grande quanto la Germania, la Groenlandia, di soli 57mila abitanti, è dal 2009 un territorio semi-autonomo danese. Pur avendo ottenuto questo statuto di autonomia, la Danimarca resta sovrana sull’isola riguardo politica estera, finanza, sicurezza e accordi internazionali. Popolata in maggioranza (85%) da discendenti di diversi gruppi Inuit, giunti nell’isola dallo Stretto di Bering e dall’America del Nord con diverse ondate migratorie iniziate 4.500 anni fa, i danesi rappresentano soltanto il 15% dei suoi abitanti, anche se resta difficile parlare in termini di percentuali «etniche» assolute, data l’ovvia mescolanza storica, mentre 15mila groenlandesi vivono oggi in Danimarca. 

Dopo diverse spedizioni precedenti fallite, la colonizzazione danese comincia nel 1721, e non ottocento anni fa, come affermato al parlamento europeo dal sovranista dei «Patrioti per l’Europa» Anders Vistisen, che forse includeva in modo del tutto soggettivo i primi insediamenti dei vichinghi iniziati nel X secolo, provenienti quindi dall’Islanda e non dalla Danimarca, e poi estintisi intorno al 1450. Il governo coloniale della Danimarca comincia dunque con una spedizione del tutto classica, organizzata da una compagnia mercantile norvegese e da un sacerdote luterano, Hans Edge, che vi stabilisce un avamposto missionario e commerciale. Lo scopo di Edge era riprendere i contatti con i vichinghi, di cui si erano perse le tracce nel continente e si sosteneva fossero ridiventati pagani, così da rievangelizzarli. Non trovando i pretesi vichinghi si dedicò a cristianizzare gli Inuit, dando origine a una missione che è durata diversi secoli. 

È così che inizia un vero e proprio dominio coloniale, incentrato sullo sfruttamento della pesca, foche e balene, sulla caccia ai trichechi per ottenere l’avorio delle loro zanne, sull’estrazione mineraria e sull’insediamento delle prime colonie di danesi. La storia del colonialismo danese è assai significativa, benché poco nota all’estero. E anche nella stessa storia nazionale la sua centralità è stata riconosciuta solo di recente, non senza resistenze, e in buona parte grazie alle lotte antirazziste dei migranti razzializzati di seconda generazione e alla penetrazione degli studi postcoloniali nel paese. Un importante spartiacque nella decolonizzazione del senso comune coloniale-nazionale, e non solo in Danimarca, è stata la mostra internazionale Rethinking Nordic Colonialism: A Postcolonial Exhibition Project in Five Acts del 2006 . A rafforzare questa amnesia nazionale sul passato coloniale è stata, come del resto in altri paesi europei, la narrazione di un eccezionalismo scandinavo riguardo il proprio coinvolgimento nella storia coloniale. 

Anche qui abbiamo un altro «colonialismo dal volto umano» e dalla storia assai modesta paragonata ad altre. E tuttavia benché ridotta nelle sue dimensioni temporali e spaziali, l’espansione coloniale danese-norvegese, (tra il 1536 e il 1814 furono un unico stato), ebbe un ruolo di primo piano nella formazione culturale e soprattutto economica del paese, rendendo Copenhagen una città ricca e governata da una prospera borghesia mercantile. La prima spedizione coloniale danese avviene nel 1612 nell’India meridionale, con lo stabilimento di un avamposto commerciale nell’attuale Sri Lanka, noto ancora oggi come Trankebar. Questo primo insediamento nell’India fu chiave soprattutto per il commercio del thè con la Cina. Per la gestione-estrazione economica di questi primi territori coloniali, il regno danese creò l’Asiatic Danish Company. Il regno di Danimarca-Norvegia ebbe inoltre un ruolo importante nella tratta transatlantica di schiavi attraverso i suoi insediamenti coloniali nelle coste del Ghana e soprattutto nelle isole caraibiche di St. Thomas e St. John, note anche come Virgin Islands. Tra il 1660 e il 1803 il regno scandinavo ha trafficato dall’Africa nei Caraibi 110mila schiavi. 

Nel 2018, in memoria di questo passato coloniale e in occasione del centenario della vendita di queste isole agli Stati uniti, le artiste La Vaughn Belle, delle Virgin Islands, e Jeannette Ehlers, danese, hanno creato il primo monumento pubblico nazionale dedicato a una donna nera. La loro scultura, «I Am Queen Mary», piazzata davanti a un ex magazzino coloniale di Copenhagen, rappresenta Mary Thomas, leader della rivolta sindacale «Fireburn» del 1878 a St. Croix, ex colonia danese (). 

Forse bisogna riannodare i fili di questo passato coloniale e schiavistico «rimosso» per comprendere meglio l’ostentata durezza delle politiche anti-asilo e anti-immigrazione approvate in modo bipartisan dal parlamento danese negli ultimi quattro anni, tra le più restrittive d’Europa, che comprendono, tra l’altro, un primo memorandum per l’espatrio dei richiedenti asilo in Ruanda, firmato nel 2021, e il più recente accordo con il Kosovo per inviare fino a 300 detenuti di cittadinanza straniera, inclusi migranti soggetti a un ordine di rimpatrio, da delocalizzare nella prigione kosovara di Gjilan, seguendo dunque il modello promosso non solo dall’ultradestra neofascista italiana, ma anche dalla commissione Von der Layen.   

Tra il XVIII e il XIX secolo sono state annesse al Regno di Danimarca come dipendenze coloniali anche le isole Far Oer e l’Islanda. Ma il XIX segna anche il declino dell’espansione coloniale danese, non più in grado di concorrere con il Regno unito e la Francia. È questo il periodo in cui le isole vergini caraibiche danesi vengono vendute agli Stati uniti e al Regno unito. 

Può essere importante notare che le politiche coloniali danesi in Groenlandia non sono state sempre le stesse: vi sono stati due momenti ben diversi del governo coloniale dell’isola. Dal XVIII fino alla metà del XX secolo, vi è stato una sorta di governo attraverso la «differenza», nel senso che il regime di rappresentazione coloniale danese, in ogni sfera discorsiva, tendeva a enfatizzare il «primitivismo» degli Inuit. Questo periodo è stato caratterizzato da una connivenza strutturale tra sapere, pratiche scientifiche ed etnografiche e politiche coloniali. Come è stato notato da diversi studiosi, il risultato fu una sorta di re-indigenizzazione o ri-tradizionalizzazione degli Inuit, ossia un esercizio del discorso e del potere coloniale finalizzato a mantenere una distanza gerarchica tra società civile e moderna danese e società primitiva locale. È questa la fase di maggiore proliferazione di ciò che la studiosa Ann Fienup-Riordan ha denominato, a partire da Edward Said, «Eschimo-Orientalism» (Orientalismo eschimese): un regime di rappresentazione etnografico, culturale e politico caratterizzato dall’essenzializzazione e dall’esotizzazione degli Inuit. 

Questa strategia di governo coloniale comincia a entrare in crisi con lo sbarco dell’esercito statunitense negli anni della Seconda guerra mondiale. Nel 1943 gli Stati uniti costruiscono Pituffik Base Space, centro di una rete comprendente altre sedici basi e che arriverà a ospitare quindicimila soldati. La base ebbe un ruolo logistico fondamentale anche durante gli anni della Guerra fredda, e anche oggi, benché vi siano rimasti solo duecento soldati, resta un importante snodo geostrategico di controllo e sorveglianza spaziale, ma soprattutto come scudo missilistico. Come altrove, l’insediamento dei militari statunitensi portò nell’isola le Jeep, il Jazz, la Coca Cola e altri elementi e simboli della cultura moderna urbana che furono allora apprezzati da buona parte dei groenlandesi. Da qui il consenso interno di cui godono in parte ancora gli Stati uniti. 

Il 1953 sancisce la fine dello stato coloniale classico, e così la Danimarca procedette all’annessione della Groenlandia mediante un referendum, a cui però non parteciparono i groenlandesi. Questa nuova fase si propone di «danizzare» la Groenlandia attraverso un piano sistematico di modernizzazione dell’isola sul modello sociale ed economico di quello della madrepatria. Il progetto può essere considerato come una variante delle politiche coloniali di «assimilazione forzata» o del «colonialismo d’insediamento» che ha caratterizzato altri paesi, come gli Usa, ma soprattutto il Canada e l’Australia, poiché mirato alla cancellazione della cultura locale, ovvero alla sostituzione (razziale) di una forma di vita sociale e culturale con un’altra. 

Veicolo di «modernizzazione» sono stati non solo gli investimenti privati e statali esteri, l’istruzione scolastica sistematica, la creazione di un sistema sanitario territoriale, la costruzione di nuovi e inediti agglomerati urbani, che hanno imposto agli Inuit di lasciare le loro abitazioni tradizionali, ma soprattutto l’immigrazione di lavoratori danesi. Come altrove, anche qui la politica coloniale di governo si è dispiegata attraverso il ricorso all’immigrazione come dispositivo di bianchizzazione, assimilazione e sostituzione razziale. Il governo ha incentivato l’arrivo di lavoratori danesi offrendo loro stipendi più alti di quelli dei nativi, ma anche cariche e mansioni di maggior rilievo. 

La politica coloniale si trasforma così in discriminazione e segregazione razziale esplicita e legale, in razzismo strutturale e istituzionale, provocando negli anni Sessanta movimenti di protesta anticoloniali e antimperialisti a Copenhagen. Oltre alla segregazione lavorativa e abitativa, all’assimilazione forzata e al trasferimento di una parte importante della popolazione Inuit nei nuovi alloggi urbani, la politica di «danizzazione» della Groenlandia è stata accompagnata da altre pratiche tipiche della violenza sovrana delle politiche del colonialismo d’insediamento, come la sterilizzazione istituzionale e involontaria di donne native  e l’internamento forzato di bambini Inuit in istituti educativi. Nel 1951 vennero prelevati 22 bambini eschimesi e trasferiti prima in Danimarca e poi in diversi istituti a Nuuk e altre città. Al progetto hanno partecipato anche la Croce Rossa e Save The Children, si veda in proposito il film Esksperimentet (L. Fridberg, 2010). 

Dopo l’opposizione politica e la resistenza culturale delle popolazioni locali, anche attraverso la crescente proliferazione di studi e ricerche prodotte da studiosi groenlandesi, il processo si concluse nel 1979 con l’abbandono del piano di «modernizzazione» e la concessione di uno stato di semi-autonomia maggiore all’isola: il cosiddetto «Home Rule Act». Grazie all’Home Rule Act, che assegna una maggiore autonomia politica, i groenlandesi, contrariamente alla Danimarca, decidono di lasciare l’Ue nel 1985, in disaccordo con le regole europee sulla pesca, maggiore risorsa dell’Isola. Questo nuovo statuto durerà fino alla concessione del «Self-Government Act» del 2009, che però non equivale a un’indipendenza formale totale. Tra il 2014 e il 2017, il governo groenlandese ha costituito una Commissione per la riconciliazionema al momento non sono stati fatti passi avanti significativi, soprattutto perché i governi danesi si sono rifiutati sia di parteciparvi che di enunciare alcuna dichiarazione ufficiale di perdono . Inoltre, il governo groenlandese che ha istituito la commissione è stato accusato da una parte degli abitanti dell’isola di favorire soprattutto le minoranze linguistiche filo-danesi, nonché di promuovere una visione neoliberale ed estrattivista per il futuro del loro territorio. Come abbiamo sentito dire a diversi giornalisti progressisti o liberal nei media italiani, indignati dall’arroganza imperiale di Trump, non si può negare che la Groenlandia sia un «pezzo d’Europa».  Impossibile non mettere Fanon qui in filigrana, proprio nel centenario della sua nascita : “Due secoli fa, un’ex colonia europea si è messa in testa di colmare il ritardo con l’Europa. Vi è così ben riuscita che gli Stati Uniti d’America sono diventati un mostro le cui le tare, le malattie e l’inumanità dell’Europa hanno raggiunto dimensioni spaventose”.

Le mire coloniali di Trump

Il resto è storia dei nostri giorni. Come prima cosa, la voracità estrattivista di Trump, indotta non solo dalla stessa genealogia storica degli Stati uniti, una democrazia nata dalla violenza razziale del colonialismo d’insediamento, ma anche dai bisogni di alcune materie prime e risorse energetiche essenziali per lo sviluppo dell’hi-tech, dell’intelligenza artificiale e più in generale per l’infrastruttura materiale del capitalismo delle piattaforme, di cui la Groenlandia è ricchissima, specie con lo scioglimento dei ghiacci, che rende molto più accessibile gli enormi giacimenti di petrolio, gas, uranio, ferro, oro, zinco e altre terre rare. 

Poi il divenire dell’Artico, anche questo a causa del surriscaldamento globale, un altro degli epicentri dello scontro per la supremazia globale con la Russia e soprattutto con la Cina, che da tempo investono tanto in senso militare quanto economico, logistico e commerciale in questa parte dell’emisfero polare Nord. Un dato su tutti: la Cina è il secondo partner economico della Groenlandia dopo la «madrepatria coloniale», ovvero la Danimarca. Infine, resta sullo sfondo un’altra motivazione piuttosto evidente dietro la violenza esplicitamente neocoloniale e neoimperialista di Trump: il declino progressivo della centralità egemonica degli Stati uniti nel comando capitalistico globale, e quindi la necessità di colmare il ritardo statunitense in questi settori chiave. Nella logica politica e culturale dell’ultradestra globale rappresentata da Trump, l’unica soluzione possibile a questa crisi di transizione egemonica nel modo di accumulazione capitalistico globale è spingere l’acceleratore dell’attuale regime di guerra su ogni dimensione. È ciò che nasconde, come sempre, il ricorso a una volontà di dominio esplicitamente autoritaria e fascista. Solo una coalizione decisa e radicale tra diversi istanze e movimenti contro la guerra potrà mettere un freno a questa nuova sinistra accelerazione dello Juggernaut capitalistico.

*Miguel Mellino insegna studi postcoloniali all’Università di Napoli L’Orientale. Tra i suoi libri, Post-Orientalismo. Said e gli studi postcoloniali (Meltemi, 2009), Governare la crisi dei rifugiati (Derive Approdi, 2019) e Marx nei margini. Dal marxismo nero al femminismo postcoloniale (Alegre, 2020). Ha curato l’edizione italiana di Black Marxism di Cedric Robinson (Alegre, 2023).

https://jacobinitalia.it/groenlandia-un-pezzo-coloniale-delleuropa/

giovedì 24 aprile 2025

Una risposta al decreto legge sicurezza: digiuno e disobbedienza civile - Franco Corleone


Sono rimasto sbigottito e incredulo di fronte all’emanazione di un decreto legge sulla sicurezza e ancor più per la firma del Presidente della Repubblica a un provvedimento senza i requisiti di necessità e urgenza e che segna una svolta autoritaria e un colpo allo stato di diritto.

La Società della Ragione è stata promotrice della campagna “detenute madri” e per il diritto di ogni bambina e bambino di nascere in libertà e io sento il dovere di riprendere quella bandiera con amore e intransigenza. Ho deciso di compiere un atto di testimonianza per non essere complice neppure per omissione e da questo lunedì fino al venerdì prima di Pasqua digiunerò aspettando il suono a morto delle campane di tutte le chiese per ricordare la tragedia delle carceri.

Di fronte alla criminalizzazione della resistenza passiva e della nonviolenza in carcere occorre che fuori dalle galere si manifesti con forme originali di disobbedienza civile.

Sogno una sollevazione di massa anche attraverso un referendum popolare per cancellare la scelta panpenalistica che arriva al ridicolo equiparando la canapa tessile a quella con proprietà terapeutiche e di piacere.

Occorre una mobilitazione nei sessanta giorni a disposizione per la conversione del decreto in legge e va colta l’occasione del voto dell’8 e 9 giugno sul referendum per la cittadinanza per dire Sì a una società più libera e giusta, senza odio e violenza.

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martedì 22 aprile 2025

Nel Regno Unito difendere la resistenza palestinese è diventato un crimine - Patrick Boylan

 

Oggi, in quella rinomata cittadella della libertà di espressione e della libertà di stampa che è stato il Regno Unito, se professi il tuo sostegno alla resistenza palestinese puoi essere arrestato e incarcerato, il tuo cellulare e il tuo PC possono essere confiscati e la tua casa devastata dalla polizia in assetto d’assalto; puoi addirittura perdere il tuo posto di lavoro ed essere espulso dal Paese.

Non era così in passato. Persino Karl Marx, benché strettamente sorvegliato dalla polizia, godette pienamente della libertà di espressione e di stampa mentre risiedeva a Londra dal 1849 fino alla sua morte nel 1883. Non solo poté far stampare il suo Manifesto del Partito Comunista (che invocava una rivolta armata), ma fu anche libero di distribuire il suo controverso saggio Sulla questione ebraica – un testo che, pur rispettando l’ebraismo etnico, fustiga duramente l’ebraismo economico, o “sionismo” come diremmo oggi.

Bei tempi passati.  Oggi nel Regno Unito criticare il sionismo o proclamare sostegno alla rivolta armata palestinese viene accolto con una feroce repressione.  Prendiamo il caso dei giornalisti pro-pal.

La lunga mano della lobby sionista e l’intimidazione dei giornalisti

Cosa s’intende per “lobby sionista”? Il “sionismo”, originariamente un movimento identitario e nazionalistico che rivendicava una patria per gli ebrei, oggi si è trasformato in “imperialismo fideistico”, cioè nella difesa del “diritto divino” di Israele ad occupare non solo le terre originariamente sottratte ai palestinesi, ma anche altri territori limitrofi, che si estendono fino al fiume Giordano e addirittura all’Eufrate.  Chiunque abbia questa convinzione è un “sionista”, ebreo o non ebreo che sia.  Ad esempio, i cristiani sionisti evangelici negli Stati Uniti desiderano una “Grande Israele” come presagio del ritorno di Cristo. Pertanto, il termine “lobby sionista” indica oggi una rete di sionisti, in uno o più Paesi, che cercano di favorire l’espansione territoriale di uno Stato ebraico integralista. Un ultimo punto: l’antisionismo (la posizione etico-politica – perfettamente legittima – che condanna l’espansionismo israeliano a scapito di altri popoli) non deve essere confuso con l’antisemitismo (l’ostilità vile e razzista verso gli ebrei come gruppo etnico). Cercare di equiparare le due cose è semplicemente un tentativo disonesto di screditare le critiche all’imperialismo fideistico israeliano.

Il 16 ottobre 2023, il giornalista britannico Craig Murray, attivista filo-palestinese ed ex diplomatico del Regno Unito, è stato arrestato dalla polizia antiterrorismo all’aeroporto di Glasgow, di ritorno da un incontro con lo staff di WikiLeaks in Islanda.  Gli sono stati sequestrati il PC e il cellulare e ha dovuto subire un interrogatorio di un’ora – e riguardante non solo i suoi legami con WikiLeaks. Infatti, la polizia – forse informata dalla lobby sionista del Regno Unito, che tiene d’occhio ogni spostamento di attivisti come Murray – era ben consapevole che il giornalista aveva partecipato a una manifestazione pro-palestinese mentre si trovava in Islanda e gli agenti volevano sapere cosa fosse stato detto in quell’occasione. “Non ne ho idea, non parlo islandese, ho semplicemente partecipato alla manifestazione per solidarietà”, ha risposto Murray, con grande disappunto degli agenti, che alla fine hanno dovuto rilasciarlo – senza i suoi dispositivi elettronici, però.

Il 15 agosto 2024, la polizia ha arrestato il giornalista filopalestinese Richard Medhurst al suo arrivo all’aeroporto londinese di Heathrow, apparentemente a causa dei suoi servizi a favore della resistenza palestinese, considerati “apologia (sostegno) del terrorismo”.  Gettato in cella per 15 ore, Medhurst ha dovuto dormire – semisvestito – su un freddo blocco di cemento. Alla fine il giornalista è stato rilasciato, ma con l’obbligo di presentarsi a una stazione di polizia tre mesi dopo e con l’avvertimento di fare attenzione, nel frattempo, a ciò che avrebbe scritto.

Due settimane dopo, il 29 agosto 2024, all’alba, la polizia in tenuta antisommossa ha fatto irruzione nella casa della giornalista e attivista filopalestinese Sarah Wilkinson, mettendo a soqquadro ogni stanza e confiscando il suo passaporto e i suoi dispositivi elettronici.  Con irriverente crudeltà, gli agenti hanno persino sparso sul pavimento e calpestato le ceneri della madre, che Sarah conservava in un’urna sigillata su una mensola.  Messa agli arresti domiciliari per sospetto sostegno al terrorismo, la 61enne non ha potuto nemmeno andare in farmacia a comprare le medicine di cui aveva bisogno. Essendole stato sottratto il suo telefono cellulare e non potendo uscire di casa, non ha potuto nemmeno chiedere ai vicini di farlo per lei. Ora rischia un massimo di 14 anni di carcere. Il suo crimine?  Gli articoli che ha scritto a favore della resistenza palestinese. “Vogliono instillare la paura”, ha detto, “per farmi smettere di denunciare il genocidio a Gaza; ma non ci riusciranno”.

Poi, il 17 ottobre 2024, all’alba, la polizia antiterrorismo ha fatto irruzione nella casa del noto giornalista Asa Winstanley, vice caporedattore di Electronic Intifada. Il suo telefono cellulare, il suo PC e altri dispositivi elettronici sono stati confiscati e, durante la perquisizione, il giornalista è stato continuamente intimidito.  Anche in questo caso, il suo “reato” sarebbero i suoi scritti a favore della resistenza palestinese, scritti che qualcuno evidentemente ha denunciato alla polizia come apologia del terrorismo.  Ed è facile immaginare chi poteva essere quella persona e quale potente lobby l’avesse incoraggiata a setacciare ogni parola degli articoli di Winstanley per trovare affermazioni che potessero farlo arrestare.

Questi e altri esempi di azioni repressive contro giornalisti ed attivisti filo-palestinesi nel Regno Unito sono stati denunciati in un rapporto che non lascia scampo, redatto dalle Nazioni Unite e reso pubblico una settimana fa (5/2/2025).  Il rapporto era stato inviato in via confidenziale al Primo Ministro Starmer lo scorso 4 dicembre, con la richiesta di un riscontro entro 60 giorni; trascorso tale periodo senza alcuna risposta da parte di Starmer, gli autori del rapporto – quattro Relatori Speciali delle Nazioni Unite – hanno ora scelto di rivelarne il contenuto.  “Le disposizioni del Terrorism Act 2000, del Terrorism Act 2006 e dell’Anti-Terrorism and Border Security Act 2019,” scrivono i quattro Relatori, “sembrano essere state utilizzate per indagare, detenere, raccogliere dati e perseguire attivisti politici e giornalisti, sollevando preoccupazioni per le potenziali violazioni dei loro diritti fondamentali”.

La strumentalizzazione delle leggi contro il terrorismo

Infatti, gli abusi sopra descritti – ed altri ancora, che il rapporto ONU elenca – sono stati resi possibili da una legge antiterrorismo draconiana che risale al 2000, il Terrorism Act. In particolare, la sezione 12 criminalizza qualsiasi tipo di sostegno fornito a un’organizzazione proibita e qualsiasi espressione pubblica di simpatia per tale organizzazione.

La legge elenca, poi, le organizzazioni proibite che non possono essere aiutate e di cui non si può nemmeno parlare in modo favorevole.  La maggior parte sono veri e propri gruppi terroristici, come al-Qaida e ISIS (nei Paesi musulmani), Boko Haram (in Nigeria), al Shabaab (in Somalia) e le Tigri Tamil (in Sri Lanka).

Ma nel 2019 e poi nel 2021, su pressione della potente lobby sionista nel Regno Unito, l’elenco delle organizzazioni proibite è stato ampliato per includere i due gruppi armati che si oppongono all’occupazione israeliana delle loro terre.  Uno di essi è Hezbollah, la resistenza armata creata nel 1982 per respingere l’esercito israeliano che aveva invaso e stava occupando il Libano.  L’altro è Hamas, la resistenza armata creata nel 1987 per cacciare l’esercito israeliano che occupava Gaza.

Vale la pena notare che né l’uno né l’altro di questi due gruppi era attivo o esisteva prima dell’invasione e dell’occupazione israeliana delle loro terre.  Inoltre, nessuno dei due ha mai cercato di occupare e di dominare territori israeliani.  Entrambi sono semplicemente forze difensive che cercano di scacciare le truppe straniere, segnatamente l’IDF, che occupano la loro terra.  In questo senso, possono essere paragonati ai partigiani cinesi, guidati da Mao Tse-Tung, che cacciarono gli occupanti giapponesi e fondarono la Repubblica Popolare Cinese.

Alla luce di tutto ciò, è palesemente pretestuoso designare Hezbollah e Hamas come organizzazioni “terroristiche”, soprattutto dal momento che la 20a Assemblea Generale delle Nazioni Unite (1965) ha legittimato “la lotta [armata] dei popoli sotto il dominio coloniale… per l’autodeterminazione e l’indipendenza”.  Naturalmente, la lotta per cacciare una forza straniera occupante non autorizza i resistenti a commettere crimini di guerra o crimini contro l’umanità; se ne commettono, devono risponderne davanti ad un tribunale.  Molte delle atrocità attribuite a Hamas il 7 ottobre 2024 (come la mai verificata “decapitazione di bambini”) si sono rivelate solo propaganda israeliana, ma altre, invece, sono documentate e andrebbero sanzionate, a partire dalla stessa presa di ostaggi, che è un crimine di guerra.

Dunque, Hamas – come lo stesso Hezbollah – rimangono forze di resistenza (armata), malgrado i delitti eventualmente commessi.  Chiamarli “gruppi terroristici” facendoli inserire in qualche lista nera come la Sezione 12 del Terrorism Act britannico è solo uno stratagemma per demonizzarli e per impedire che se ne parli.  E’ una vecchia tattica: durante la Resistenza in Italia, i nazisti chiamavano i partigiani italiani “banditi”, così come, durante la Resistenza in Cina, i giapponesi chiamavano i partigiani cinesi “diavoli” – in entrambi i casi, per alienare loro il consenso e la simpatia della popolazione. “Terrorista” è il termine demonizzante usato oggi da Israele per screditare le forze che si oppongono con le armi al suo espansionismo.

Conclusione

Per via della Sezione 12 del Terrorism Act, nel Regno Unito è diventato un crimine parlare favorevolmente di Hezbollah o di Hamas o anche semplicemente della “resistenza palestinese”: farlo costituisce infatti la cosiddetta apologia del terrorismo. Da qui gli arresti, le perquisizioni e le intimidazioni nei confronti di quei giornalisti e attivisti britannici che hanno osato sostenere il diritto dei palestinesi a liberare la propria terra, anche tramite la lotta armata (purché venga condotta secondo il diritto bellico e le relative convenzioni internazionali).

Ma la legge sul terrorismo, così come è stata scritta, è estremamente ampia e vaga – a tal punto che la polizia non potrebbe mai essere in grado di verificare tutte le possibili violazioni dell’articolo 12; per farlo, sarebbe loro necessario leggere tutti gli scritti di tutti i giornalisti e attivisti del Regno Unito e soppesare le sfumature di tutte le parole che usano: un compito immane, anche con l’aiuto dell’AI. Chiaramente, dunque, l’ondata di repressione dei giornalisti e degli attivisti filopalestinesi attualmente in corso nel Regno Unito, presuppone l’esistenza di una rete di “informatori” di base, in grado di fornire alla polizia le segnalazioni di cui ha bisogno.  Si tratta, molto probabilmente, di una rete di comuni cittadini britannici – ma con spiccate simpatie sioniste – alla quale è stato chiesto di tenere d’occhio determinati giornalisti e attivisti filopalestinesi e di fare una segnalazione quando essi dicono o scrivono qualcosa che possa passare per “apologia del terrorismo”, secondo la vaga definizione della Sezione 12.  Poi, chi ha reclutato questi informatori – si tratta molto probabilmente di sionisti altolocati o comunque influenti – può usare queste segnalazioni per indurre la polizia ad emettere mandati di perquisizione allo scopo di accertare i fatti. Questo stratagemma ha un duplice scopo: serve ad intimidire i giornalisti o gli attivisti in questione e, allo stesso tempo, consente alla polizia di accedere ai contatti privati sui loro rispettivi cellulari e a tutti i documenti riservati presenti nei loro computer e nelle loro apparecchiature elettroniche.  Così facendo, ecco che essi risultano totalmente spiati.  Non solo, ma anche il nome di ciascun loro contatto entrerà in una data base e, quindi, anche quella persona diventerà “schedata”.

Si tratta solo di una pura congettura?  Forse no. Un indizio dell’esistenza di una cinica operazione di questo tipo è, come sottolinea Craig Murray, la totale assenza di interventi della polizia nei casi in cui un giornalista o una personalità di spicco esprime sostegno – come ormai fanno in tanti – all’organizzazione terroristica l’HTS (Hay’at Tahrir al-Sham) in Siria.  Infatti, l’HTS, benché ufficialmente proscritto, viene ora corteggiato dall’Occidente, con il risultato che la legge sul terrorismo sembra non esistere più nei suoi confronti. La prova è che nessuno, dal Primo Ministro in giù, è mai stato arrestato o perquisito per aver espresso simpatie per questa organizzazione terroristica.

Tutto lascia pensare, quindi, che la polizia sia stata indotta a scovare e ad arrestare, ai sensi della Sezione 12, solo quegli individui che esprimono simpatie per la resistenza palestinese.  Indotta da chi? Verosimilmente dalla lobby sionista che, oltre ad avere i motivi e i mezzi, è in grado di offrire alla polizia una fitta rete di informatori.

C’è una via d’uscita a tutto questo?  Sì. Gli attivisti britannici potrebbero intentare una causa chiedendo all’Alta Corte di stabilire che, sebbene Hezbollah e Hamas siano effettivamente forze di resistenza armata, non sono da considerarsi “terroristi”. Non dovrebbero quindi figurare nel Terrorism Act e non dovrebbe essere un crimine appoggiarli.

Esiste un precedente per una sentenza di questo tipo: la Corte d’Appello del Regno Unito è stata recentemente in grado di bloccare il trasferimento di migranti dal Regno Unito al Ruanda, annullando l’inclusione di quel Paese, promossa dal governo, tra i luoghi “sicuri” per la deportazione.  Allo stesso modo, la Corte potrebbe ora annullare l’inclusione di Hezbollah e di Hamas nell’elenco dei gruppi terroristici di cui al Terrorism Act. Questo servirebbe a porre fine all’attuale repressione dell’attivismo filopalestinese, repressione che non fa altro che offuscare la reputazione del Regno Unito. Anzi, la fine della persecuzione di giornalisti e di attivisti filopalestinesi rafforzerebbe le libertà fondamentali di espressione e di stampa nel Regno Unito. Le isole britanniche tornerebbero a essere viste come la cittadella di queste libertà nel mondo.

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NOTA 1: Quest’articolo è apparso, in forma ridotta, sul mensile de L’Indipendente di febbraio 2025 (1:1, pp. 44-45) con il titolo  UK: vietato difendere la resistenza palestinese.

NOTA 2: L’autore di questo articolo, pur riconoscendo il diritto dei palestinesi a difendersi dall’occupazione israeliana usando la forza, ritiene che solo attraverso mezzi politici nonviolenti essi possano veramente raggiungere l’autodeterminazione.  Il ricorso alla violenza non fa che generare altra violenza, come si è visto. Ma perché i mezzi politici nonviolenti abbiano successo, occorre che la comunità internazionale, intervenendo, li assecondi in massa, isolando così Israele.  Se invece la guerra a Gaza e in Cisgiordania perdura, è in gran parte a causa dell’assenteismo di noi altri.  E il legittimo diritto di Israele alla sicurezza?  Come garantirlo?  Ce lo ha detto Noam Chomsky: “Il modo migliore per combattere il terrorismo è smettere di praticarlo”.

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lunedì 21 aprile 2025

“Zero euro dalla Sanità alla Difesa”. Ma la Salute rischia il collasso - Giulio Cavalli

Il ministro nega tagli alla sanità, ma il M5s denuncia: “Piano di Riarmo da 800 miliardi, zero risorse in più per medici, cure e farmaci”

Alla Camera, il ministro della Salute Orazio Schillaci ha risposto al question time con la formula più rassicurante possibile: “Nessun dirottamento di risorse dalla sanità alla difesa”. Ha parlato di “strumentalizzazioni infondate” e “accostamenti fuorvianti” tra politica sanitaria e politica militare, rivendicando “una visione integrata” e “un impegno crescente per la salute degli italiani”. Ma la realtà, fuori dal perimetro del Parlamento, è molto meno rassicurante.

La sanità pubblica è in crisi strutturale. I medici e gli infermieri italiani sono tra i meno pagati d’Europa. Gli ospedali chiudono reparti per mancanza di personale. Le liste d’attesa si allungano. Mezzo milione di persone in Italia – ha ricordato la deputata del M5s Gilda Sportiello – non ha più soldi per curarsi. Centomila sono bambini. E il governo, mentre lascia tutto questo sullo sfondo, ha accettato un piano di riarmo da 800 miliardi di euro per i prossimi anni. È questa la sproporzione che il Movimento 5 stelle ha voluto denunciare.

Sanità sotto sforzo, ma i conti dicono altro

Sportiello non ha usato giri di parole: “Com’è possibile che dopo due anni di governo, di fronte al collasso del sistema sanitario pubblico, il ministro venga a dire che va tutto bene? Com’è possibile che il suo governo abbia accettato un piano di riarmo europeo da 800 miliardi e non trovi risorse per la sanità pubblica? Lei sa che le persone sono in apprensione perché non sanno se dovranno rinunciare alle cure perché non hanno soldi per curarsi?”. Domande nette, prive di contorno ideologico, che chiedono una risposta politica alle quali è seguita l’autodifesa istituzionale del ministro.

Schillaci ha ricordato l’aumento del Fondo sanitario nazionale: 5 miliardi in più nel 2024 rispetto all’anno precedente, 16 miliardi in più rispetto al 2020, e 20 nel 2026. Ma non ha detto che questi numeri non bastano. Non tengono conto dell’inflazione. Non colmano le lacune strutturali che da anni affliggono il sistema sanitario. Non servono a fermare l’emorragia di professionisti che abbandonano gli ospedali pubblici per emigrare all’estero o rifugiarsi nel privato.

Le priorità del governo non sono neutrali

Il ministro ha anche assicurato che la salute è “una priorità assoluta”. Ma intanto si accumulano le rinunce alle cure, le prestazioni negate, i ticket inaccessibili. In molte regioni si muore prima, semplicemente perché si nasce nel posto sbagliato. Il ministro ha promesso un aggiornamento dei Lea, i livelli essenziali di assistenza, ma senza spiegare con quali fondi e in quali tempi. E senza dire come intenda garantire davvero l’accesso universale alle cure mentre la spesa sanitaria privata supera i 40 miliardi l’anno e la medicina diventa un lusso per chi può permettersela.

La questione posta dal M5s non è una provocazione, ma un punto politico. A fronte di un piano di riarmo da 800 miliardi e dei circa 30 miliardi che farebbero capo all’Italia – il più imponente della storia – il governo sostiene di non avere margini per assumere medici, costruire presidi territoriali, garantire farmaci salvavita. Se non è un dirottamento di risorse, è sicuramente una gerarchia di priorità.

La realtà è lì, nelle ambulanze che aspettano fuori dai pronto soccorso, nei pediatri che mancano, nei centri per le malattie rare lasciati a se stessi. E nei genitori che si chiedono se riusciranno a pagare la prossima visita specialistica.

Il ministro dice che le accuse sono “strumentalizzazioni”. Ma forse la vera strumentalizzazione è usare la parola “priorità” per descrivere un sistema che lascia indietro i più fragili e trova sempre nuove risorse per le armi.

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domenica 20 aprile 2025

Lettera aperta di Extinction Rebellion sulle false affermazioni pubblicate su “La Verità”


La lettera aperta riguarda un articolo apparso su La Verità che riporta affermazioni false e lesive della dignità e dell’immagine di Extinction Rebellion e delle persone che manifestano con XR. La richiesta di smentita, inoltrata alla redazione de La Verità, non ha ricevuto alcuna risposta, in violazione della deontologia professionale e di quanto previsto dalla Carta dei diritti e dei doveri dei giornalisti.

di Extinction Rebellion

Il 10 aprile scorso, il quotidiano La Verità ha pubblicato un articolo di Fabio Amendolara, a corredo di un’intervista a Lucio Pifferi, capo dell’Antiterrorismo. Nell’articolo si afferma che Extinction Rebellion sia un movimento violento, riprendendo, senza alcuna verifica fattuale, il contenuto del recente report della Polizia di Stato. Il testo dell’articolo recita: ‘Un particolare attivismo è stato registrato dal movimento  ambientalista Extinction Rebellion, che ha organizzato azioni eclatanti in città come Bari, Bologna, Milano e Torino. Le violenze durante queste manifestazioni hanno portato alla denuncia di 114 attivisti.

Nell’articolo in questione si parla di “violenze durante” le manifestazioni di Extinction Rebellion, un’affermazione falsa che non rispecchia le modalità e lo spirito con cui Extinction Rebellion agisce.

Extinction Rebellion è un movimento che ha la nonviolenza come principio fondante, che mai si è macchiato di condotte violente di qualsivoglia natura. Essere descritti come violenti, con un’interpretazione dei fatti lontana da quanto realmente accaduto durante le manifestazioni di Bari, Bologna, Milano e Torino, è una violazione della deontologia professionale del giornalista; ed è qualcosa che ci sorprende e ci addolora, poiché la violenza è quanto di più lontano dal nostro sentire e agire, profondamente nonviolento, pacifico e saldamente ancorato ai principi democratici e costituzionali. Riteniamo inoltre sia profondamente lesivo della dignità e dell’immagine pubblica del movimento e delle persone ad esso aderenti.

Extinction Rebellion ha chiesto a La Verità di rettificare pubblicamente quanto scritto da Fabio Amendolara, in accordo con quanto previsto dalla Carta dei diritti e dei doveri dei giornalisti, senza ricevere alcuna risposta. Come già era successo, purtroppo, l’estate scorsa, quando il 24 luglio, sulle pagine di Repubblica Torino, venne pubblicato un articolo, firmato dalla giornalista Marta Borghese, che citava come “episodi di violenza” nei confronti della stampa due azioni di Extinction Rebellion nella sede RAI di Torino. Affermazioni false, riportate in piazza dal presidente dell’Ordine dei Giornalisti del Piemonte, Stefano Tallìa, e riprese da Repubblica senza alcuna verifica su quanto veramente accaduto.

Con la consapevolezza che una democrazia si può dire realmente tale solo se i cittadini sono messi nella condizione di avere opinioni informate,  accedendo a notizie complete e verificate, Extinction Rebellion si affida al senso etico della stampa italiana per ribadire ancora una volta che la nonviolenza è la filosofia fondante del movimento, parte essenziale del suo DNA e la sua forza più grande. Nonostante le proteste realizzate possano essere considerate ‘eclatanti’, nessuna delle persone che scende in piazza con XR può essere  etichettata come persona violenta. L’unico obiettivo è portare l’attenzione sull’urgenza della crisi climatica e sulle responsabilità delle élite politiche e finanziarie per le quali il profitto e la convenienza personale valgono più della salute e della vita delle popolazioni.

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venerdì 18 aprile 2025

Liberare il voto con una firma per il proporzionale - Francesco Casula

 

Fino al 1979 per le elezioni regionali in Sardegna vigeva una legge elettorale che sostanzialmente prevedeva il proporzionale puro. Così, per esempio nelle elezioni del 1974 il Partito liberale con 22.159 voti (2,78%) otteneva un seggio. E ugualmente un seggio otteneva il Partito repubblicano con 20.570 voti (2,58%).

L’11 luglio del 1979, a mezzanotte, come i ladri di Pisa, l’ultimo giorno della Settima legislatura, PCI e PSD’AZ, con una leggina, introducono una quota di sbarramento per poter essere eletti: il 3%. Verrà approvata con la complicità e compiacenza della DC. Ma i veri responsabili sono i comunisti e i sardisti: hanno paura i primi di Democrazia Proletaria e i secondi dei Movimenti neosardisti. Insomma, non vogliono concorrenti alla loro sinistra! E come si eliminano? Ma con la prepotenza e le leggi liberticide!

Comunque, anche quella legge forcaiola impallidisce a fronte della mostruosità liberticida della legge oggi in vigore.

Emanata dal Consiglio regionale nel 2013 e leggermente modificata nel 2018 ha mostrato nelle elezioni del 2014 come in quelle del 2019 e del 2024 tutta una serie di storture e di gravissimi limiti: soprattutto quello di attentare brutalmente alla “rappresentatività”. Tanto da escludere dal Consiglio regionale nel 2019 la rappresentanza di 61.383 elettori (8,07% dei votanti); nel 2014 addirittura 137.000 elettori (17,87% dei votanti); mentre nel 2024 70.927 elettori (9,6%).

 Così, in virtù di una legge truffaldina, grazie alle altissime soglie di sbarramento (del 10% per le Coalizioni e e del 5% per singole forze) paradossalmente è avvenuto che con poche centinaia di voti qualche gruppo o movimento (coalizzato con i grossi Partiti e a loro subalterno) ha potuto accedere al Consiglio regionale; altri – presentandosi autonomamente – pur ottenendo migliaia di voti sono stati esclusi. Una brigungia manna. E insopportabile.

In alternativa a questo imbroglio e per sanare questa stortura liberticida, la proposta non può che essere il proporzionale: una testa un voto. Per affermare il principio di eguaglianza del voto stesso: il mio voto non è possibile che non valga niente o poco in rapporto a quello di altri.

In questa direzione si muove la Proposta di legge elettorale di Iniziativa Popolare denominata “Liberiamo il Voto”, sostenuta da un numeroso gruppo di personalità: giuristi, intellettuali, attivisti civici.

Il primo articolo, non a caso recita:”Il Popolo sardo è rappresentato dal Consiglio regionale, eletto a suffragio universale diretto con sistema proporzionale”.

Questi gli altri quattro articoli:

     Art. 2

– Il Consiglio regionale elegge tra i suoi membri il Presidente della Regione.

– L’elezione consiliare del Presidente della Regione ha luogo per scrutinio palese, a maggioranza assoluta dei membri dell’assemblea nel primo scrutinio e a maggioranza semplice dalla seconda votazione.

– Il Presidente della Regione nomina il Vicepresidente e gli altri membri della Giunta regionale.

    Art. 3

– La mozione di sfiducia deve essere firmata da almeno un quinto dei membri del Consiglio regionale e non può essere messa in discussione prima di tre giorni dalla sua presentazione.

– Il voto di sfiducia del Consiglio regionale determina le dimissioni del Presidente della Regione, se nelle quarantotto ore successive è eletto un successore a maggioranza assoluta dei membri dell’assemblea.

– La mancata approvazione della questione di fiducia posta dal Presidente della Regione determina le dimissioni del Presidente e lo scioglimento del Consiglio, se entro venti giorni non è eletto un successore a maggioranza assoluta dei membri dell’assemblea.

Art.4

Le dimissioni volontarie del Presidente della Regione determinano lo scioglimento del Consiglio regionale, se entro venti giorni non è eletto un nuovo Presidente a maggioranza assoluta dei membri nel primo scrutinio o a maggioranza semplice nel secondo scrutinio.

Art.5

Nel periodo intercorrente tra le dimissioni e la nuova elezione del Presidente la Giunta regionale è presieduta dal Vicepresidente della Regione.

Come si può evincere chiaramente due sono i punti principali:

1. Il proporzionale puro: un   capo, un voto.

2. Il superamento dell’elezione diretta del Presidente. Non si sottovaluti questo principio. L’elezione diretta, al di là della demagogia, evoca l’incultura regressiva pericolosa e inquietante di tempi bui, l’incultura del capo (la locuzione “capo del governo” fu introdotta con legge fascistissima nel 1925, al posto di “Presidente del Consiglio”); l’incultura dell’uomo solo al comando (non al governo!) e del decisionismo autoritario. Di qui, per esempio il premierato con la capocrazia, di cui favoleggia l’amica di Vox, non a caso nipotina di quella incultura del ventennio.

Sostenere questa Proposta, per intanto apponendo la firma, è a mio parere, un dovere etico, prima ancora che politico. Lo si può fare in tutti i Comuni della Sardegna.

da qui