Mentre nei
caveau delle banche centrali si accumulano lingotti dorati, l’Amazzonia muore.
Il nuovo rapporto di Greenpeace, Toxic Gold, fotografa con
precisione chirurgica un commercio avvelenato: quello dell’oro estratto
illegalmente nei territori indigeni brasiliani, che distrugge foreste,
contamina ecosistemi e alimenta un mercato globale opaco.
Dal 2018 al
2022, la superficie interessata da attività minerarie illegali nelle terre
indigene del Brasile è aumentata del 265%. Il governo di Lula ha
lanciato operazioni di contrasto e controllo, ma i dati del monitoraggio
2023-2024 mostrano una dinamica inquietante: l’attività si sposta da una terra
indigena all’altra, come un tumore in metastasi. Laddove arretra, come nei
territori Yanomami, Munduruku e Kayapó, si espande altrove: nel Sararé, l’area
deforestata è raddoppiata in un anno.
Il processo
è ben noto: si entra con ruspe, si devasta il suolo, si usa mercurio per
separare l’oro, si inquina l’acqua e si distrugge ogni equilibrio ecologico. Il
garimpo non è più un’attività artigianale: è un’industria criminale con mezzi
pesanti, logistica avanzata e protezioni politiche. Le comunità indigene pagano
il prezzo più alto. Secondo Fiocruz, l’84% della popolazione di nove
villaggi Yanomami è contaminata da mercurio. Tra il 2019 e il
2022, 570 bambini sotto i quattro anni sono morti per cause evitabili.
Un sistema
perfettamente oleato per lavare oro e responsabilità
L’oro
estratto illegalmente entra poi nella catena di distribuzione attraverso un
sistema di falsificazione dei documenti, complicità istituzionali e triangolazioni
internazionali. Le DTVM (Distribuidoras de Títulos e Valores Mobiliários), che
dovrebbero controllare l’origine del metallo, si limitano ad accettare
autocertificazioni cartacee. Il risultato? Oro di provenienza sconosciuta, o
peggio, nota e taciuta, si mescola a quello legale.
Il terminale
più emblematico di questa filiera è la Svizzera. Nel 2022, le
importazioni elvetiche di oro dal Brasile hanno superato le esportazioni
registrate dal paese sudamericano del 67%. Un’anomalia da 9,7 tonnellate. E nel
2023, il divario è stato del 62%. L’oro entra da Dubai – spesso registrato come
“riciclato” – oppure direttamente con spedizioni “fantasma”, in alcuni casi
persino trasportato in valigia. Viene raffinato e poi rivenduto con il marchio
di garanzia più prestigioso al mondo: “oro svizzero”.
Le autorità
elvetiche si trincerano dietro il principio di neutralità e dietro una
legislazione che non impone l’indicazione del paese di estrazione. Ma questa
“neutralità con benefici” – come la definisce il rapporto – ricorda quella già
sperimentata durante la Seconda guerra mondiale, quando le banche svizzere
compravano l’oro saccheggiato dal regime nazista.
Quando la
finanza internazionale affonda le mani nella terra indigena
Anche l’Europa ha
le sue colpe. Il regolamento europeo sui minerali dei conflitti (3TG), in
vigore dal 2021, prevede obblighi di due diligence, ma non include la Svizzera
tra i paesi a rischio. Né affronta i rischi ambientali, come il disboscamento e
la contaminazione da mercurio. Una lacuna che rende il regolamento inefficace
di fronte all’ecocidio in corso.
Il mercato
dell’oro è alimentato anche dai grandi acquirenti istituzionali. Le banche
centrali, oggi, detengono circa un quinto dell’oro mai estratto nella storia.
Nel 2024, il settore pubblico ha acquistato oltre mille tonnellate. Nonostante
rappresenti meno del 23% della domanda globale, il loro potere sul mercato
resta sproporzionato. E anche la loro responsabilità.
Il vertice
mondiale sul clima COP30, previsto a novembre a Belém, nel cuore
dell’Amazzonia, sarà il banco di prova. Lì si deciderà se affrontare seriamente
la questione del commercio dell’oro o continuare a fingere che l’oro svizzero
luccichi più dell’oro tossico dell’Amazzonia.
Per ora, tra
le piogge di mercurio, i bambini contaminati e le foreste in fiamme, resta una
sola certezza: finché l’oro continuerà a essere un rifugio sicuro per gli
investimenti, l’Amazzonia sarà un campo di battaglia per la sopravvivenza.
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