Non so se c’è un male che è solo dell’Italia, un male che ci è cresciuto dentro in silenzio e ora è qui come un collutorio che passa di bocca in bocca, un filo di saliva che dice di una rabbia, di un rancore senza rimedio. Non è una rabbia confinata in un ceto sociale, in una regione geografica, è un uccello che zoppica in ogni palude e quando vola sparge le sue piume in ogni cielo.
È incredibile che non sia messa a fuoco questa grande scontentezza che si
coglie in ogni luogo. C’è nelle facce qualcosa di rigido, come se nessuno si
sentisse libero, nessuno sentisse di portare la sua vita dove vuole, ma solo
può tenerla sull’orlo di un precipizio portatile che ci segue ovunque andiamo.
E se qualche ragazzo si suicida o qualche personaggio famoso che cade in
depressione, non sono eventi che bastano a farci interrogare veramente sullo
sconforto in cui siamo caduti.
Non credo
sia una questione politica. Non credo sinceramente ci sia uno sgomento per le
guerre in corso. Anzi, le guerre è come se fossero lo sfondo, il contorno, il
cuore della questione è la crisi di ognuno, una crisi che è insieme di
scontentezza e solitudine, due baratri che si mettono uno sull’altro e quindi
raddoppiano il vuoto da colmare.
Non si può chiedere al governo di fare qualcosa, sono vicende che gli esseri
umani devono regolare attraverso il gioco della vita. Non è tanto una questione
di successo economico e forse neppure di trovare un amore. Il male di cui sto
parlando ha toccato l’osso che nessuno ha mai visto, è come se fosse fuori da
ogni diagnostica possibile. Ognuno lo sente e ognuno dovrebbe solo provare a
pronunciare onestamente quel che sente. Nessuno può venirci in soccorso se non
mettiamo a fuoco che siamo tutti in una condizione di emergenza, come se ci
fosse caduta una trave sulla pancia dopo un terremoto a cui nessuno ha fatto
caso. E la terra continua a tremare e la nostra vita non si aggiusta, è sempre
alle prese con qualche disturbo, qualche malessere più o meno grave.
Non possiamo
andare tutti in ospedale, anzi, dovremmo diventare noi stessi luoghi di cura,
infermieri della nostra comunità. La trave non possiamo toglierla da sopra la
nostra pancia, ma solo dalla pancia degli altri. L’unica cura possibile è
curare gli altri. Non è una scelta di bontà, siamo obbligati a essere generosi.
Chi non lo ha capito è un attardato e può solo farci perdere tempo coi suoi
sofismi. Questo è il momento dei coraggiosi. Non è il tempo di quelli che
descrivono la luce ma non la danna. Si dia inizio a una nuova stagione, la
stagione di chi crede che alla fine dei nostri giorni ci rimane solo ciò che
abbiamo dato.
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