L’era del greenwashing potrebbe essere durata un pugno di anni. Il periodo nel corso del quale le grandi aziende si sono sentite costrette a pubblicare (timidi) piani di transizione, a mascherare realtà troppo spesso scomode, a mostrare al mondo una maschera più verde che nera come il carbone o il petrolio sembra già quasi un ricordo. Il susseguirsi di crisi ed emergenze ha imposto una nuova retorica, ribadita anche nel piano Draghi adottato con entusiasmo dall’Europa intera: quella del “adesso non c’è più spazio”. Adesso bisogna fare “le cose serie”. Come se rispettare i diritti umani o combattere la crisi climatica fossero questioni accessorie.
Ma facciamo
qualche passo indietro, ripercorriamo le tappe che ci hanno portati fin qui e
cerchiamo di capire perché il greenwashing potrebbe essere sul punto di
lasciare il posto a una nuova era. Quando Laurent Fabius, all’epoca presidente
della ventunesima Conferenza mondiale sul clima delle Nazioni Unite
(Cop21) fece scoccare il martelletto di legno che segnava la chiusura del
summit e l’approvazione dell’Accordo di Parigi, si è creduto in un
sussulto da parte dei leader mondiali. Era il mese di novembre del 2015.
Negli Stati Uniti il presidente era Barack Obama. In Francia c’era François
Hollande. In Germania Angela Merkel. E pur con tutte le riserve che si possono
avere nei loro confronti, la realtà è che sembra passato un secolo.
Quel mondo
lì aveva mostrato di ascoltare la scienza. Certo, dalle parole si
sarebbe dovuto passare ai fatti. Ma per lo meno si affermò, nero su bianco,
che il mondo avrebbe dovuto centrare un obiettivo preciso: limitare la
crescita della temperatura media globale ad un massimo di 2 gradi centigradi,
entro la fine del secolo, rimanendo il più possibile vicini agli 1,5 gradi. E a
condividere la necessità furono tutti i governi. Perfino i petro-Stati del
Golfo, perfino la carbonifera India, perfino la Russia di Putin.
Per farlo,
era necessario però un impegno collettivo. Le istituzioni nazionali
avrebbero dovuto dettare la linea con leggi ad hoc. Gli enti locali avrebbero
dovuto fare altrettanto. Le aziende avrebbero dovuto accettare di adottare
piani di transizione epocali, investendo non più nell’ottica breve-termista
propria del neoliberismo ma con uno sguardo volto all’orizzonte. Banche e
investitori avrebbero dovuto riorientare le loro strategie, anche qui superando
le logiche del profitto ad ogni costo nel più breve tempo possibile.
Per dare
corpo a quell’impegno, insomma, serviva un cambio di paradigma.
Occorreva aprire una nuova via, un nuovo metodo. Occorreva che tutti
prendessero coscienza dell’emergenza. Come è stato successivamente con la
pandemia.
Per molte
grandi aziende, però, “l’emergenza” è stata un’altra: cercare di mantenere il
più possibile il business as usual facendo però credere (a
governi, a clienti, a investitori) di essere parte in causa nella lotta contro
i cambiamenti climatici. È in quella fase che è nato il greenwashing.
Campagne mediatiche, sverniciate di verde sui loghi, iniziative (alcune anche
reali, ma di dimensioni irrisorie rispetto al resto delle attività), alleanze,
dichiarazioni, proclami, annunci in pompa magna e strette di mano. Al solo – o
per lo meno principale – scopo di ripulirsi la faccia, ma non la coscienza.
Diciamolo: in realtà, moltissime di quelle grandi aziende, di quelle banche, di quei fondi d’investimento e anche molti di quei governi attendevano soltanto un evento, una crisi, un inciampo, una scusa qualsiasi per tornare sui loro passi. La prima spallata è arrivata con la pandemia, e con la successiva “necessità di ripartire”, di rilanciare le economie, le macchine produttive. E di farlo in fretta. Già lì c’è stato chi ha cominciato a spiegare che la transizione ecologica è bella, sì. È giusta, sì. Ma «qui bisogna fare i conti con la realtà».
Il secondo
evento è stato l’invasione dell’Ucraina. La “necessità” di
sostenere la pace non tentando in ogni modo di dialogare bensì armando Kiev. «Servono
miliardi», si disse. E anche alcune politiche climatiche avrebbero dovuto
aspettare, o essere almeno ridimensionate, procrastinate. Il Green Deal
approvato dall’Unione europea nel 2020 era insomma bello, sì. Utile, sì. Ma
«adesso è tornata la guerra in Europa».
La terza
spallata è arrivata con la crisi energetica. La “migliore”
possibile per chi sfrutta carbone, petrolio e gas. Quale occasione più ghiotta
per dire che, con la diminuzione delle forniture russe di fonti fossili, non si
poteva più rinunciare a quelle a disposizione in Occidente?
Da ultimo,
poi, è arrivato il colpo finale: l’elezione di Trump, il
conseguente disimpegno americano sullo scacchiere orientale e l’immediato
appello al riarmo da parte di Bruxelles e delle diplomazie del Vecchio
Continente. Decine, centinaia, forse migliaia di miliardi dovranno essere spesi
per costruire missili, carri armati, caccia, droni, bombe. O per l’intelligenza
artificiale legata a scopi militari.
Per le
aziende il messaggio è stato chiarissimo. Un “liberi tutti” che probabilmente
ha fatto mangiare le mani a chi ha investito milioni in campagne pubblicitarie,
ha dipinto di verde cani a sei zampe, ha inventato slogan o aggiunto “green
power” al proprio nome. Così, negli ultimi anni grandi banche e fondi
d’investimento hanno uno a uno abbandonato le alleanze per il clima. Compagnie petrolifere
internazionali hanno rivisto i loro piani di sostenibilità. Società minerarie
hanno ricominciato a guardare al futuro fregandosi le mani. Per non parlare del
finanziamento alla produzione di armi, sul quale lo sdoganamento è ormai
totale, la propaganda martellante, le proposte di vie alternative messe
sostanzialmente a tacere dai mezzi d’informazione mainstream. E in Europa non
si parla d’altro se non di smantellare le peraltro insufficienti
normative su ambiente, clima e diritti umani che negli ultimi anni
erano state faticosamente approvate.
Del
greenwashing, insomma, non c’è più bisogno. Via via, rimarrà solo qualche
strategia di marketing volta a non perdersi per strada nicchie di clienti
sensibili rispetto alla necessità di difendere foreste, natura, biodiversità,
equilibri climatici. Senza più neppure bisogno di salvare la faccia. Cosa che, almeno,
porta con sé una grande chiarificazione tra chi fingeva di preoccuparsi per il
clima e chi, invece, lo faceva sul serio. Benvenute, benvenuti: è
iniziata l’era del postwashing.
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