Quando si
parla di economia alternativa e di economia solidale negli ultimi quindici
anni, il pensiero va subito alle logiche da seguire per creare e far evolvere sistemi di produzione,
di scambio e di consumo che siano completamente diversi da quelli tipici
dell’economia dominante , in genere di tipo capitalistico, e che
siano in grado, almeno concettualmente, di sostituirsi ai comportamenti basati
sulla concorrenza portata agli estremi, sulla crescita senza limiti , ai
guadagni e all’accumulazione di ricchezza come obiettivo centrale, sempre
presenti in tutti gli attori e che tante conseguenze negative hanno causato a
tante popolazioni e agli stessi equilibri del pianeta. Il primo schema emerso e
subito adottato in molti luoghi (almeno nell’esperienza italiana), è
quello dei distretti di economia
solidale.
Esaminando
le esperienze subito moltiplicatesi e ancora oggi in corso, lo schema adottato
era semplice, anche se ovviamente faticoso nella sua applicazione pratica.
Comportava individuare attività che seguissero logiche diverse, in
particolare produzioni che non
seguissero i criteri di tipo industriale e chimico imposti dal sistema
dominante, tipi di produzione primaria biologiche (ma anche basate
sui principi della permacultura, della bioenergetica, ecc.), e che
utilizzavano spesso varietà e semi antichi o tipici dei luoghi;
vendite basate su rapporti diretti tra agricoltori e consumatori, prezzi
fissati in comune che tenessero insieme presenti le condizioni alle quali
operavano i contadini e i livelli reali di reddito degli acquirenti; famiglie
che curavano particolarmente le qualità dei cibi evitando al massimo quelli
industrializzati e quelli eventualmente dannosi per la salute; contatti e
scambi anche culturali tra produttori e consumatori con visite e conoscenze
reciproche dirette anche a migliorare le condizioni di vita dei villaggi e dei
piccoli centri urbani. In alcuni casi si tendevano a realizzare anche forme
economiche più complesse, come iniziative di prefinanziamento da parte dei
consumatori nei confronti dei produttori e l’organizzazione di feste e
mercati legati alle stagioni e alle tradizioni locali.
Si operava
quindi in direzione di una continuativa estensione dei territori coinvolti e
della costituzione di sistemi
economici a piccola scala molto innovativi e diversificati, che dovevano
nel tempo moltiplicarsi e intensificarsi. Le esperienze così
connotate si sono moltiplicate specie nei primi anni 2000 e costituivano
il presupposto per allargare progressivamente le aree interessate, sottratte in
misura crescente alle lusinghe del capitale.
Nei primi
anni erano molto chiare la visione alternativa adottata e le potenzialità di
processi sempre più estesi e coinvolgenti, un vero e proprio “modello” o
immagine sociale molto attraente. Oggi
dobbiamo constatare che il numero delle aree coinvolte si è ridotto e
soprattutto perchè si sono realizzate su una scala molto minore del previsto le
espansioni orizzontali sui territori? E’ una domanda che dobbiamo
porci se non vogliamo restare vincolati a schemi superati o se vogliamo evitare
di perdere di fatto esperienze preziose che potrebbero fornirci indicazioni
fondamentali.
Una seconda modalità di azione che sembra aver perso la capacità di
spinta e di moltiplicazione che caratterizzavano i suoi inizi mi sembra sia
costituita dai gruppi di acquisto solidale, non tanto perché il loro numero non
è aumentato come si auspicava (sicuramente ne continuano a sorgere in varie zone), quanto perché molti di essi sembrano aver
perso di fatto la componente alternativa e solidale, e funzionano
solo con acquisti collettivi e di prodotti alimentari migliori, avendo scarse
relazioni con i produttori e approfondendo assai poco le tematiche generali
della industrializzazione dei cibi e del loro rispetto per l’ambiente .
Ma
soprattutto risulta assi raro che si preoccupino di ampliare la loro area di
azione e o di generare altre iniziative similari nel loro territorio o in
quelli vicini. Sembrano anche essere piuttosto rare le iniziative di “gemmazione” di altri Gas una volta
superato un certo numero di aderenti oppure di ricercare nuovo forme di
relazione con i produttori a ciascuno di essi più noto, ad esempio
sperimentando forme di prefinanziamento delle attività agricole o lanciando
forme di collaborazione e scambio anche a livello culturale.
Nella fase più creativa i Gas erano stati visti come dei nuclei di base
di una economia dei consumi alternativa, e soprattutto come dei gruppi di
persone particolarmente motivate e qualificate per diffondere l’economia
solidale a scala territoriale, sperimentando in particolare la costituzione di
entità di governo a livello locale radicalmente alternative.
Oggi queste
speranze sono ancora realizzabili oppure devono essere di fatto abbandonate?
Dobbiamo anche chiederci se abbiamo fatto tutti gli sforzi necessari per
stimolare all’interno dei vecchi e nuovi gas l’emergere di esigenze più alte
rispetto al solo consumo alimentare più qualificato e se oggi (con la crisi
economica e con l’accelerazione della crisi ambientale) esistono le
condizioni per una loro massiccia partecipazione ad attività e campagne
di interesse più generale, sempre nell’ambito delle logiche dell’economia
solidale.
Un interesse
particolare , nell’ottica dell’economia solidale, riveste la campagna Bilanci di Giustizia, che da
molti anni coinvolge intere famiglie nella elaborazione di accurate analisi dei
loro consumi, con lo scopo di ridurre progressivamente quelli più dannosi per
l’ambiente e di effettuare scelte anche non alimentari più orientate alla
tutela degli equilibri del pianeta.
Sul piano
pratico, può sembrare un lavoro faticoso (che peraltro può in gran parte essere
svolto dai membri adolescenti o dagli anziani ancora attivi della famiglia) ma
i risultati sono ottimali in termini di incidenza sui meccanismi economici e
della comprensione approfondita dei danni ambientali dei comportamenti
giornalieri. In realtà questo tipo
di metodologia dovrebbe essere adottata, su scale diverse, in quasi tutte le
esperienze di economie alternative e solidali che decidessero di valutare
costantemente in termini quantitativi le dimensioni reali della sottrazione
dalle logiche dominanti e della crescita effettiva del sistema alternativo.
Emergerebbero
anche i punti di maggiore difficoltà ad ottenere risultati concreti e insieme
il valore reale della costruzione di una economia di tipo solidale funzionante
secondo logiche sue proprie. In altre parole, stabilire forme di collaborazione
concrete tra i diversi gruppi impegnati, per mettere a punto strumenti
quantitativi e procedure controllabili farebbe nascere (e gestire) un nuovo
campo di elaborazione e di riflessione anche strategica.
Una analisi diversa sembrano invece richiedere le esperienze di
agricoltura alternativa , che negli anni più recenti sono in fase di
moltiplicazione in diversi territori.
Molte delle
realtà di agricoltura biologica risultano essere interessate a collegarsi tra
loro, in genere con forme consortili, per raggiungere dimensioni più
capaci di inserimento sui mercati tradizionali e su quelli sostenibili e
alternativi. Più di recente, sono
emerse iniziative che si definiscono CSA, cioè una agricoltura sostenuta dai
consumatori, che fa riferimento anche ad esperienze estere analoghe.
Oltre a
definire schemi ben determinati di rapporti tra agricoltori e consumatori, in
molti casi si approfondiscono i contenuti di una “politica del cibo” che riguarda un centro urbano o un territorio
delimitati, attraverso la costituzione di “Consigli per il cibo” che
fanno incontrare tutti gli operatori , gli esperti e i funzionari locali
competenti e nel cui ambito vengono formulati criteri e strategie di intervento
in tutti i comparti privati e pubblici coinvolti.
A giudicare
dalle prime esperienze avviate, si tratta di una forma molto avanzata di rapporti tra produzione agricola, politiche
alimentari, qualità del cibo e scelte dei consumatori; esistono molte esperienze
all’estero e alcune in Italia, (Milano, Roma, ecc.).
Si può
notare che relazioni fortemente alternative tra produttori e consumatori
sono tra le più avanzate sul piano economico in campo agricolo-alimentare,
anche se le dimensioni e le estensioni raggiunte da queste esperienze sono
ancora piuttosto limitate, mentre i tempi delle trasformazioni necessarie sono
sempre più ristretti, data la velocità e le accelerazioni che caratterizzano in
questa fase i meccanismi climatici.
In altre parole, quali metodi si possono mettere in pratica per
moltiplicare rapidamente queste esperienze alternative? Come si riesce a coinvolgere
sempre più famiglie in relazioni dirette con produttori di beni di consumo
essenziali? L’organizzazione sempre più frequente di mercati non tradizionali,
in particolare quelli fortemente caratterizzati dalla vendita di prodotti
tipici locali, può essere accompagnata da attività dimostrative e formative
volte ad esaltare la convenienza dei prodotti alternativi in contesti dominati
dalle logiche dei supermercati?
Più di recente, si sta analizzando più attentamente il fenomeno dei
“patti” tra agricoltori e consumatori, in quanto si tratta di uno strumento che
dovrebbe agevolare fortemente tali relazioni innovative. Però di patti se ne possono
immaginare molti tipi, da quelli che prevedono addirittura forme diverse di
prefinanziamento delle attività agricole, arrivando perfino alla programmazione
delle coltivazioni sulla base del contributo economico, dei desideri e delle
capacità di consumo delle famiglie coinvolte, e d’altra parte possono stimolare
una presenza costante dei consumatori finali sulle terre coltivate, attraverso
una partecipazione non passiva alle varie fasi delle attività agricole.
Ci si può chiedere, tuttavia, se queste relazioni si possono
realmente sviluppare all’interno delle maggiori concentrazioni urbane
oppure se i patti possono essere difficili da immaginare per le
produzioni intensive o molto specializzate.
In ogni caso
le esperienze in corso dovrebbero essere al più presto analizzate al fine di
evidenziare le caratteristiche emergenti e le difficoltà che incontrano, onde
immaginare senza ritardi soluzioni e forme più congrue.
Durante i
più recenti incontri a scala sia nazionale che regionale o territoriale delle
organizzazioni che si riconoscono nell’economia solidale, si è spesso cercato
di individuare le logiche più profonde che vengono seguite o che stanno
emergendo. In questa sede non è possibile trattare questo tema in modo
scientifico, e le considerazioni che seguono sono al massimo delle prime
approssimazioni analitiche.
In primo
luogo, che rapporti hanno le
singole organizzazioni con le reti alle quali aderiscono o con quelle dalle
quali si tengono distanti? In effetti negli ultimi anni è il
concetto stesso di “rete” che è stato messo in discussione e in molti
territori è stato lasciato cadere o si è svuotato lentamente.
Negli ultimi anni sembra che si stia risvegliando l’esigenza di
programmare rapporti più sistematici tra organismi che aderiscono a forme di
coordinamento, però non sembra si aspiri a realizzare forme organiche di
relazioni, quanto
piuttosto si mettono in piedi – con molta semplicità e senza ricorso a delle
formalizzazioni o alla formulazione di documenti che contengono principi e
finalità da condividere – delle forme di puro collegamento, spesso solo
comunicativo e su base informatica, evitando obiettivi di incontro e di
scambio, e limitandosi a organizzare mobilitazioni per scopi specifici e
limitati nel tempo.
Nel corso dell’ultimo anno si sono ottenuti risultati non indifferenti in
termini di manifestazioni e campagne, mentre i rari tentativi di potenziare le
integrazioni hanno finora mostrato molti limiti.
Per quanto
riguarda in particolare l’economia alternativa e solidale solo di recente si è
rilanciata una sede nazionale di relazioni basate su adesioni e con obiettivi
predefiniti, mentre sembra prevalgano le situazioni di uno splendido isolamento
e di massima autonomia operativa.
Sempre
nell’ottica delle caratteristiche dell’economia solidale, resta aperto il
problema del perché venga ignorata
quasi completamente l’importanza del “lavoro di rete”, cioè del ruolo che le
relazioni di scambio e di collaborazione tra le organizzazioni aderenti
ad una rete possono mettere in moto con molta creatività, e i risultati che si
possono ottenere in termini di diffusione e di potenziamento verso l’esterno di
una rete ben funzionante.
La
condivisione degli impegni assunti e dell’interesse reciproco tra gli aderenti
può inoltre aumentare enormemente il peso di una rete nei suoi confronti verso
l’esterno, rendendo più facili ed efficaci i tentativi di allargamento della
rete stessa e di una maggiore incidenza sulle realtà circostanti.
In molti casi, il lavoro di rete viene inoltre considerato un onere
aggiuntivo rispetto alle attività necessarie per mantenere in vita le
rispettive organizzazioni, trascurando quindi il fattore di proiezione verso
l’esterno della rete nel suo complesso.
Se questo
elemento di analisi è corretto, questa potrebbe essere una spiegazione
(parziale e incompleta) delle difficoltà incontrate dalle esperienze di
economia solidale a diffondersi nei territori vicini e a cominciare a costruire sistemi economici
alternativi sempre più complessi.
Se questo è
vero, la persistenza di pochissime reti e il sostanziale rifiuto da parte dei
collegamenti, molto numerosi ma poco integrati, oggi esistenti di
trasformarsi in reti più complesse e dinamiche è destinato a prolungarsi nel
tempo, riducendo di molto le potenzialità di diffusione e di articolazione sui
territori dell’intera gamma di esperienze di economia solidale.
Si può solo sperare che l’uso di nuove terminologie, come ad esempio l’
assunzione del termine “economie trasformative” possa in realtà rappresentare
un cambiamento profondo dei comportamenti nelle relazioni tra organismi di
economia solidale, accompagnati da una molto maggiore quantità di scambi di
esperienze e da un maggiore impegno per moltiplicare tali esperienze sui
territori, aumentando nel contempo la diffusione e la mutazione di relazioni
sostanziali.
Un ulteriore
aspetto richiede di essere analizzato in profondità. Negli ultimi anni si è
parlato spesso di “beni comuni”,
anche se poi le esperienze basate sulla loro identificazione e sul loro
impossessamento sono rimaste piuttosto limitate e non sembrano essersi
abbastanza maturate. Esiste tuttavia una vasta letteratura in materia, che però
non sembra essere stata fortemente acquisita dal mondo dell’economia solidale.
Questa teorizzazione si basa su alcuni concetti base, che si possono richiamare
in modo molto sintetico.
Ogni
comunità, dal villaggio alle cittadine, dovrebbe individuare sul rispettivo
territorio le componenti del loro patrimonio naturale o artistico considerate
essenziali e da conservare intatte ad ogni costo.
Quindi un
ruscello o un fiume, una fonte, una zona di foresta, una spiaggia, una collina
con la sua vegetazione intatta, ma anche una miniera non più in uso o una
produzione agricola tipica; ma anche chiese, monumenti zone archeologiche, case
dove abitavano personaggi noti, ma anche una festa tradizionale o un mercato
particolarmente attraente.
Questi beni
dovrebbero essere documentati, dichiarati di interesse per la collettività
locale e poi protetti e valorizzati, nell’interesse delle più grandi comunità
di appartenenza e anche di un turismo qualificato. Questi beni diventati comuni permettono alle comunità di organizzarsi per
difenderli e valorizzarli e di svolgere tutte le attività che permettono di
proteggerle da qualunque danno e di usarle senza logorarle.
La moltiplicazione su ogni territorio di questa visione collettiva di
base potrebbe costituire un ostacolo fondamentale per tutte le iniziative
esterne animate solo da scopi di lucro e far scomparire ogni passività rispetto
ad azioni scorrette da parte di imprese e governi nazionali e regionali.
In Italia
possiamo ricordare l’esperienza durata quattro anni di Riace, distrutta
in poche settimane da un ministro che la considerava “pericolosa” per la
propria politica contraria ad ogni movimento migratorio, e la situazione di
Napoli, dove si sono realizzati già otto centri culturali e di animazione
sociale, di grande utilità per le popolazioni di quartieri finora privi di
interventi di questa natura.
Queste ipotesi legate al sorgere di forme di autorganizzazione di base
dovrebbero essere considerate di estremo interesse per le economie
solidali in via di costruzione, perché costituiscono un ampliamento della
visione complessiva e prefigurano dei processi di sperimentazione di livelli
intermedi di gestione dei territori e delle comunità che partono dal
basso.
Oltre a
queste considerazioni , suggerite dalle esperienze di economia solidale già
operanti, si possono poi ricordare alcune esigenze, che dovranno con ogni
probabilità essere affrontare nei prossimi mesi ed anni, se l’obiettivo di
espandere l’economia solidale non vuole essere spinto ai margini di fenomeni
sociali e ambientali ormai in fase acuta.
In primo
luogo, le esperienze di economia
solidale, che un tempo erano praticamente all’avanguardia per le scelte in
favore delle produzioni biologiche, oggi dovrebbe tenere conto in misura molto
maggiore degli effetti della crisi climatica (oltretutto in via di
accelerazione), causati da fenomeni molto complessi e da eventi estremi.
Tutte le
esperienze dovrebbero chiedersi se i loro piani di lavoro tengono conto del
peggioramento in corso e delle mutate condizioni di vita specie nelle grandi
città e nelle zone maggiormente inquinate, e contemporaneamente discutere se le
soluzioni nelle produzioni e nei consumi finora proposte includono i
comportamenti – ad esempio, ridotti consumi energetici, alimentazione
strutturalmente diversa, rispetto delle risorse idriche, rimboschimenti,
interventi idrogeologici, ecc. – che stanno diventando sempre più
urgenti. E’ sicuramente un lavoro non facile, soprattutto per i tempi sempre
più stretti, ma che non può essere evitato e che dovrebbe iniziare subito.
Un secondo
aspetto riguarda le spinte e le procedure per una più rapida diffusione delle
diverse forme di economia solidale, onde coinvolgere sempre più zone di
territorio e fasce di popolazione; in particolare dovrebbero essere elaborate forme di “gemmazione”, cioè di
riproduzione delle esperienze in corso in altre zone degli stessi territori o
addirittura in territori più distanti.
Molte
esperienze si sono finora evolute e ingrandite a partire da se stesse, come se
il collegamento con la matrice iniziale fosse l’unica garanzia di
rispetto delle proprie idee e dei propri progetti iniziali, mentre forse oggi
dobbiamo con maggior sicurezza proiettare all’esterno il nostro patrimonio
culturale affinché molte più persone riescano a sottrarsi agli effetti negative
delle nostre società di appartenenza.
Una terza
considerazione riguarda la
necessità di far adottare i principi dell’economia solidale in campi che finora
non hanno visto emergere esperienze significative di questo tipo. Gli
esempi di settori che non hanno espresso forme analoghe a quelle
alternative e solidali potrebbero essere molti; a titolo di esempio ricordiamo
le attività produttive di tipo industriale ma che non si possano ricondurre
alla Green economy, l’artigianato,
le imprese occupate e dirette da operai che richiedono il sostegno delle
popolazioni vicine, le prime lavorazioni di prodotti alimentari non su
basi industriali, le piattaforme informatiche che agevolano gli scambi di
prodotti alternativi, e così via.
Infine,
occorrerà mettere a punto delle modalità di collaborazione, anche solo puntuale
o di breve periodo, con altri movimenti, reti e forme varie di collegamenti e
coordinamenti (non ultimi quelli espresse dai giovani delle scuole e dalle
donne che difendono le loro priorità), che perseguano obiettivi socialmente
rilevanti e urgenti.
Per
concludere, sempre a titolo puramente indicativo, si possono indicare alcune linee di lavoro che dovrebbero essere
sempre in via di svolgimento sia all’interno dei collegamenti e delle reti, sia
dei territori con maggiori potenzialità di diffusione dell’approccio di
economia solidale:
1. Momenti di discussione e
approfondimento sui problemi sociali di maggiore urgenza, onde aumentare la
sensibilità politica all’interno e nei confronti dell’esterno
2. Momenti di autoformazione abbastanza
sistematici (percorsi di lettura, gruppi di discussione collettiva,
possibilmente con un facilitatore e dei materiali predisposti
3. Momenti di formazione di giovani già
attivi, aperti a partecipazioni di altri organismi e del territorio
4. Elaborazione di analisi nei
territori in cui si opera e in quelli vicini, onde individuare urgenze,
difficoltà e scadenze di partecipazione
5. Analizzare con continuità esperienze
significative, anche in territori lontani, dalle quali trarre suggestioni e
stimolazioni
6. Mappare gli organismi similari che
sono attivi nel proprio territorio e in quelli vicini, aggiornando
periodicamente le diverse situazioni
7. Produrre dei semplici dossier dove
siano contenuti materiali informativi e video sulle attività svolte dalla rete
e dai territori dove si opera, e curarne la distribuzione ad un certo numero di
organismi che possono interessare la rete; la creazione di un sito sarebbe
auspicabile, ma richiede una alimentazione garantita da un certo numero di
persone
Tutte queste attività non vanno perseguite insieme, anche se non si deve
dimenticare che non appena avviate possono alimentarsi reciprocamente (se si incontra una
organizzazione non aderente si integra la mappa, i materiali per la
formazione si possono inserire sul sito, esistono già dei blog che possono
essere utilizzati, e così via).
Un ultima riflessione
riguarda le reti già esistenti o appena formate che organizzano apposite
assemblee con l’obiettivo di tracciare le linee di azione condivise e con la
speranza di poter subito dopo definire piani di mobilitazione e di attività
largamente condivise.
Durante la
quarantena ho avuto la possibilità di esaminare attentamente i resoconti di
alcuni di questi incontri che, essendosi svolti tramite zoom, realizzavano in
contemporanea il testo di tutti gli interventi.
Pur
trattandosi di incontri molto partecipati, nella maggior parte dei casi i
singoli presenti presentavano gli
obiettivi o le caratteristiche della rispettiva esperienza oppure evidenziavano
un particolare modo di azione, quasi fossero contenuti sufficienti per
l’operato collettivo.
In altre
parole, solo pochissimi enunciavano modalità d’azione che potessero coinvolgere
tutti e chiedevano agli altri di pronunciarsi sul merito, in modo da poter
iniziare a costruire un pacchetto di idee e di priorità sulle quali garantire
il massimo della partecipazione.
In sostanza dai testi sembrava prevalere un forte attaccamento alla
validità della rispettiva esperienza e una visione molto limitata del le
esigenze del mondo esterno e delle urgenze di azioni comuni e allargate (capaci tra l’altro di
risultare attraenti per organismi ancora non contattati).
Se questa
descrizione è realistica (si spera sempre che questi tentativi di lettura più
approfondita delle realtà del movimento vengano criticate e dando però luogo ad
elaborazioni più profonde e più condivise) si può tentare di individuare le
cause di questi atteggiamenti e di evidenziarne i limiti, in modo da pervenire a
delle proposte di riduzione od eliminazione di tali limiti, e quindi di dare
spazio a comportamenti più avanzati, dei quali c’è un estremo bisogno.
Sembra molto probabile che le singole esperienze, per quanto valide e
rappresentative, abbiano in realtà dedicato poco tempo alle analisi delle
realtà economiche e sociali a scala nazionale (a parte una ovvia collocazione “a sinistra” e una
partecipazione politica tradizionale conseguente), cioè tutte le intense e impegnative attività svolte negli anni sono state
assorbenti al punto che si è poco pensato a come esse avrebbero potuto
contribuire a cambiate il loro territorio o a modificare i meccanismi
complessivi di danno ambientale.
In altre parole, sembra aver prevalso la
logica del colibrì (“io faccio la mia parte”) di fronte all’incendio,
atteggiamento eticamente valido e umanamente ammirevole, ma che intanto ha
visto rafforzarsi fino alla soglia della catastrofe i meccanismi economici
dominanti e diffondersi il degrado delle strutture sociali nazionali.
Oggi, dati i
livelli estremi raggiunti durante una pandemia mondiale (isolamento,
quarantene, limiti agli spostamenti, ecc.) e i tempi non superiori agli otto anni per intervenire in modo
efficace sul riscaldamento globale, sembra opportuno aggiungere al
livello di impegno raggiunto da tutte queste realtà una capacità maggiore e
crescente di analisi generali e di lotte concrete, in modo da superare la
soglia critica dell’incidenza sulla realtà.
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