venerdì 31 marzo 2023

La fine di internet - Geert Lovink

 

Il collasso sarà la nostra liberazione o la nostra rovina?

Alessandro Sbordoni intervista Geert Lovink

In questa intervista, ho parlato con Geert Lovink del suo ultimo saggio Extinction Internet, l’hauntologia di Mark Fisher, il ricordo di Bernard Stiegler, il movimento Extinction Rebellion e i fantasmi dell’accelerazionismo

Alessandro Sbordoni: Oggi il realismo digitale ci fa sentire come se un altro Internet non fosse più possibile. In un tuo saggio intitolato Extinction Internet affermi che Internet sta volgendo al termine e che è tempo per teorici, artisti, attivisti, designer e sviluppatori di immaginare cosa resta dopo la fine di Internet per come l’abbiamo conosciuto. Che cosa possiamo fare come utenti di Internet?

Geert Lovink: In una situazione come la nostra, descritta da forme culturali ed economiche di stagnazione e recessione, la rivoluzione delle generazioni più giovani non è molto verosimile. Oggi, la sottocultura non può svilupparsi in opposizione alla cultura dominante. Questa è la ragione fondamentale per cui ci troviamo in questa situazione. Per quanto riguarda Internet, abbiamo visto la concentrazione del potere, la centralizzazione e la monopolizzazione che proviene sia dallo Stato che dalle aziende. Eppure, così come per il cambiamento climatico, tutti gli allarmi sono caduti nel vuoto. Internet è oggi caratterizzato da una strana sintesi di dipendenza digitale e sorveglianza statale. Tutto questo crea la sensazione che non ci sia via d’uscita; non sappiamo dove andare. Nel frattempo, siamo ancora impantanati nelle paludi della piattaforma.

 

La verità è che la capacità dell’individuo di impersonare il cambiamento è scomparsa. Mentre le forme avanzate della stagnazione si sono dimostrate molto pericolose.

 

AS: Mi ritorna alla mente ciò che diceva Mark Fisher riguardo la scomparsa di quei presupposti che hanno reso possibile il modernismo nel XX secolo.

In Spettri della Mia Vita, per esempio, Mark Fisher parla di una disconnessione del circuito tra la musica sperimentale e la musica popolare. Anche tu hai lavorato con la musica. Nel 2020 hai pubblicato un album ispirato al tuo libro Nichilismo Digitale, il cui sound è un miscuglio di acid house, musica ambient e paesaggi sonori apocalittici. Secondo te, oggi, la musica può ancora fomentare il cambiamento nella società? Sto pensando a ciò che hai scritto in un tuo articolo del 2020, Extinction Bauhaus: “L’arte può […] svolgere un ruolo importante per le ‘sfide sociali’ — come acceleratore di problematiche.” Se la musica punk è stata un ottimo esempio di questo negli anni ’70, quale potrebbe essere la sua controparte nel XXI secolo? O sei d’accordo con Mark Fisher quando afferma che il circuito tra underground e cultura popolare è stato scollegato?

GL: Sono molto d’accordo con Mark Fisher su questo punto. Sono inoltre convinto che Mark Fisher fosse una persona unica che ha fatto molta ricerca interiore non certo piacevole. I più giovani sono sicuramente attratti da lui anche per questo; è stato uno dei pochi critici della cultura, insieme a Franco Berardi, ad averlo fatto. Gli altri non erano in grado di ammettere di essersi bloccati; non potevano o non volevano riconoscere che le forme di protesta e resistenza più tradizionali non avevano più senso. La verità è che la capacità dell’individuo di impersonare il cambiamento è scomparsa. Mentre le forme avanzate della stagnazione si sono dimostrate molto pericolose. Gli stati mentali depressivi che portano alla rabbia e all’ansia possono creare danni irreversibili agli individui e, infine, alla società in generale.

Nei miei ultimi lavori, ho tentato implicitamente di rispondere a questa domanda: perché Mark Fisher si è suicidato? E in modo simile, perché Bernard Stiegler si è tolto la vita? Intendo parlare del suicidio come metafora. Chiediamoci allora: cosa succede quando guardiamo in fondo all’abisso? A essere sinceri, non molte persone sono inclini a discutere apertamente di questo. Certo, queste persone vogliono fare cambiamenti radicali e affrettarsi a trovare soluzioni positive. Ma cosa accade se il processo stesso ristagna? E cosa succede quando le forme collettive di edonismo, dalle feste, alle droghe e così via, non sono più delle opzioni disponibili? Questo è quello che è successo durante i lunghi lockdown per il COVID-19, ad esempio. Sia la musica che il ballare sono modi per sublimare quei tetri stati mentali attraverso la poesia, il rap ed esperienze corporee estatiche. Ma c’è un altro lato di tutto questo: la ricezione di teoria e idee attraverso suono, musica e video piuttosto che nella forma classica e disciplinata della lettura assorta. La distrazione e l’irrequietezza sono effettivamente vere e proprie realtà neuroscientifiche: realismo corporeo.

Un’altra domanda che mi sono fatto ultimamente riguarda l’identificazione con questo stato oscuro. Come insegna la psicoanalisi, è necessario comprendere la situazione per trasformarla — questo è anche un principio del marxismo: se non studiamo la situazione attuale, come possiamo cambiarla? La nostra ricerca tuttavia potrebbe anche condurci verso uno stato mentale pericoloso, il quale non ci offrirà una via d’uscita. Credo questo sia il punto in cui ci troviamo in questo momento.

 

AS: Sembra che stiamo parlando di una sorta di delirio, che di nuovo mi sembra attinente a una particolare lettura del realismo capitalista di Mark Fisher. Nelle sue opere, Mark Fisher ha sviluppato un’analisi psicopatologica del tardo capitalismo, alla quale anche tu hai contribuito con il tuo libro Nichilismo Digitale. Tuttavia, nella tua intervista con Franco Berardi del maggio 2022, e, più recentemente, in Extinction Internet, sei parso scettico sulla potenzialità di questo approccio di produrre cambiamenti politici nella società. Anche la filosofia di Bernard Stiegler, in aggiunta a quella di Mark Fisher e Franco Berardi, ha influenzato il tuo lavoro. In analogia con Bernard Stiegler, hai parlato di Internet come pharmakon: allo stesso tempo cura e veleno. Potresti approfondire il concetto di pharmakon e come questo potrebbe essere applicato alle tue teorie?

GL: Per usare un’espressione più comune, abbiamo a che fare sia con il problema che la soluzione. Quindici anni fa, pensavamo che Internet sarebbe stata la soluzione a molti problemi, tra cui la questione dei media centralizzati che riguarda appunto le infrastrutture e la logistica decentralizzate, i sistemi di distribuzione e così via. C’è voluto molto tempo per rendersi conto — anche grazie a Evgeny Morozov, Sherry Turkle, Douglas Rushkoff, Andrew Keen e molti altri critici di Internet — che Internet era diventato parte del problema. Dal punto di vista del pharmakon, problemi e soluzioni s’intrecciano. È necessario capire che non appena siamo in grado di guardare in faccia il problema, possiamo già scorgere la soluzione all’orizzonte. Quando ho incontrato Bernard Stiegler la situazione era simile a quella in cui ci troviamo di nuovo, adesso. Era il 2013, e stavamo gestendo il network Unlike Us, un’iniziativa creata nel contesto della critica ai social media e dello sviluppo di alternative a Facebook e Twitter, fondata nel 2011. In quel periodo, ho anche lavorato con Harry Halpin e Yuk Hui per documentare la critica sui social media di Bernard Stiegler e il suo coinvolgimento nello sviluppo di alternative negli anni 2012 – 2013. Questo lato della sua carriera non è ben noto, purtroppo, ma ha lavorato molto a queste alternative. In fin dei conti, conosciamo Bernard Stiegler dai suoi testi e libri. Non ha lasciato troppo spazio per tutti gli sviluppi in cui è stato direttamente coinvolto sul fronte delle alternative. Al momento, sono convinto che conosceremo un altro Bernard Stiegler nei prossimi cinque o dieci anni; in effetti si sa ancora relativamente troppo poco di tutto questo. Stava lavorando a nuove forme di organizzazione; ha organizzato una scuola estiva nel centro della Francia, e che anch’io ho frequentato; per non dimenticare il lavoro dell’IRI al Centre Pompidou, con sede in un piccolo ufficio nel cuore di Parigi. Poi, nel 2014, c’è stata l’invasione dell’Ucraina, seguita dall’abbattimento del MH17, la guerra in Siria, la crisi dei rifugiati europei, culminata con la Brexit e le elezioni di Donald Trump. E infine, ovviamente, l’epidemia di COVID-19. Bernard Stiegler è morto nell’agosto del 2020. Sono convinto ci siano sempre dei momenti in cui è possibile mettere a punto delle soluzioni per evitare il collasso. Dobbiamo studiare la crisi. Questa è la collassologia — o l’insegnamento del collasso. Analizziamo il disastro. Ma quale effetto ha su di noi? Ci condurrà alla liberazione o alla nostra stessa rovina?

Sono convinto ci siano sempre dei momenti in cui è possibile mettere a punto delle soluzioni per evitare il collasso. Dobbiamo studiare la crisi. Questa è la collassologia – o l’insegnamento del collasso. Analizziamo il disastro. Ma quale effetto ha su di noi? Ci condurrà alla liberazione o alla nostra stessa rovina?

 

ASNel tuo ultimo saggio, suggerisci un’analogia tra Extinction Internet ed Extinction Rebellion. La premessa di una relazione come questa sembra sia l’assenza di una vera e propria differenza tra digitale e analogico, un’ipotesi che hai assecondato in Extinction Internet e, prima ancora, nel tuo articolo Extinction Bauhaus del 2020. Qual è il significato di questa affermazione?

GL: Avendo fatto parte di questi movimenti sociali per molti decenni, la risposta viene da sé. Il valore del coinvolgimento diretto è qualcosa che condivido in gran parte anche con Franco Berardi. Ma pure la domanda su quale tipo di strategie valga la pena sviluppare è importante. È rilevante menzionare Black Lives Matter qui, o i movimenti contro la crisi degli alloggi, contro gli affitti elevati e contro il forte aumento della disuguaglianza sociale. Nel caso di Extinction Rebellion, c’è un legame con ciò che in Francia è noto come collassologia e quello che io ho chiamato lo stack delle crisi, il quale, devo ammetterlo, è una forma distorta del concetto di stack introdotto da Benjamin Bratton. Non penso più che il modo in cui Benjamin Bratton definì lo stack sia di alcuna utilità per noi oggi.

Nel caso della nostalgia per la rete, dovremmo cercare di capire che la nostalgia per le comunità di Internet negli anni ’90 riguarda qualcosa che esisteva realmente all’epoca. Queste comunità non erano dei fantasmi.

Lo stesso vale per il modello più tecno-ingegneristico dello stack, in circolazione da circa quarant’anni e che Benjamin Bratton ha ulteriormente perfezionato: una stratificazione di cavi, fino al desktop, all’interfaccia, al profilo e infine all’utente. Ma oltre alla versione digitale dello stack, c’è anche uno stack dei prezzi e uno stack del razzismo (incluso il retaggio della schiavitù e del colonialismo). Quest’ultimo, naturalmente, è di grande rilevanza per il movimento Black Lives Matter. La domanda si fa più difficile quando parliamo di Extinction Rebellion perché è un movimento ancora nel suo periodo formativo. Saremo in grado di capirne di più soltanto nei prossimi anni, se non decenni. Ciò che è fondamentale per tutti questi movimenti sociali emergenti, in ogni caso, è riunirsi e fare esperienza attraverso delle modalità di organizzazione, dibattito informato e creando culture che favoriscano un cambiamento radicale.

 

AS: In una nota a piè di pagina di Extinction Internet, abbozzi un parallelo tra l’hauntologia di Mark Fisher e la riabilitazione di Internet, ad esempio da parte dell’Institute of Network Cultures. Alla luce di questo, volevo chiederti: che cosa ne pensi della nostalgia per la rete?

GL: Sono convinto che sia sempre possibile creare nuove comunità. Sono inoltre convinto, come Tiziana Terranova, che il tecno-sociale esiste e sarà sempre più rilevante per il futuro. Nel caso della nostalgia per la rete, dovremmo cercare di capire che la nostalgia per le comunità di Internet negli anni ’90 riguarda qualcosa che esisteva realmente all’epoca. Queste comunità non erano dei fantasmi. Per di più, c’è un’altra forma di nostalgia che è legata al software, agli strumenti e alle piattaforme che sono state utilizzate nel passato. La nostalgia riguarda un mondo che è perduto e che non c’è più. Ovviamente, possiamo sempre tentare di ricrearlo e creare sostituti del passato. Possiamo sempre costruire monumenti per commemorarne la storia. Questo è quello che sto facendo in questo momento, ad esempio, mentre scrivo la mia storia personale degli anni ’90. Ciononostante, sappiamo bene che la nostalgia per Internet esiste già per i millennial. Sia che si tratti di Tumblr, MySpace o dell’intero mondo dei blog interconnessi attraverso i feed RSS; tutto ciò non esiste più. Al giorno d’oggi potremmo persino parlare di una sorta di nostalgia per Twitter.

 

Avremmo bisogno di modificare e reinscenare, o addirittura mettere in scena per la prima volta, il dibattito accelerazionista. I veri dibattiti accelerazionisti sono quelli che sono ancora davanti a noi.

 

ASGli anni ’90 sono stati definiti da una certa euforia per Internet. Proprio in questo periodo si delineò un approccio filosofico noto come accelerazionismo. Oggi, l’accelerazionismo è spesso identificato con il lavoro di Nick Srnicek, il quale è inoltre citato all’interno delle tue opere. Qual è la tua opinione sull’accelerazionismo?

GL: Questi sono dibattiti che hanno avuto luogo, ma che in qualche modo non sono realmente accaduti. Al tempo stesso, penso che non li abbiamo presi abbastanza sul serio. Dove si può rintracciare il dibattito accelerazionista? Su blog, mailing list, social media? Buona fortuna a ricostruirlo; e questo è un bel problema. Ci sono alcuni testi chiave qua e là, ma dov’è il dibattito? Il dibattito accelerazionista è qualcosa che le generazioni future troveranno molto difficile da capire perché queste discussioni non sono state adeguatamente documentate — figuriamoci centralizzate e messe in scena. Fortunatamente, oggi possiamo trovare maggiori informazioni sul “socialismo digitale” e sulla pianificazione socialista nell’era della logistica su larga scala secondo Amazon e i centri dati.

Naturalmente, avremmo bisogno di modificare e reinscenare, o addirittura mettere in scena per la prima volta, il dibattito accelerazionista. Questo vorrebbe dire affrontare la complessità geopolitica, per cui potrebbero essere sviluppate azioni accelerazioniste, per esempio, riguardanti l’acquisizione delle infrastrutture, la logistica e il ruolo della pianificazione centralizzata. Forse un modo di guardare a questo è dire che i veri dibattiti accelerazionisti sono quelli che sono ancora davanti a noi.


La versione originale di questa intervista è stata pubblicata su Blue Labyrinths.


Alessandro Sbordoni è uno scrittore italiano. Collabora con la rivista inglese Blue Labyrinths e della rivista italiana Charta Sporca per cui ha pubblicato estratti del suo lavoro più recente, Semiotica della Fine. Vive e lavora a Londra. Geert Lovink è teorico dei media e studioso di Internet. È autore, tra gli altri, di Uncanny Networks (2002), Dark Fiber (2002), e Nichilismo digitale. L’altra faccia delle piattaforme (2019). Coideatore della mailing list Nettime e di ADILKNO (Foundation for the Advancement of Illegal Knowledge), nel 2004 ha fondato l’Institute of Network Cultures all’Università delle Scienze Applicate di Amsterdam.

da qui

giovedì 30 marzo 2023

Pastori sardi o ricotta sintetica? - Navdanya International

Il cibo vero, genuino, è l’espressione di come il nostro organismo sia profondamente interconnesso alla natura e alla rete della vita. Anche se ne abbiamo quasi interamente perso la consapevolezza, il nostro organismo è talmente legato alla natura, che il nostro microbioma intestinale forma un macro-organismo continuo con il microbioma del suolo.

Questa connessione è tale che la debilitazione anche di un solo aspetto della nostra rete alimentare si ripercuote direttamente sulla nostra salute. Con l’avvento dell’agricoltura industriale, siamo stati sistematicamente allontanati dalle relazioni profonde e intrinseche che ci legano al cibo e alla Terra. Questo distacco dal mondo naturale è alla radice delle molteplici emergenze globali che affrontiamo oggi: la crisi ecologica, la crisi sanitaria e la crisi dei mezzi di sussistenza. Esse non sono separate, ma interconnesse e nascono dalla crescente dipendenza da un paradigma disfunzionale.

Il sistema alimentare industriale e globalizzato, basato sull’utilizzo di sostanze chimiche, sulle monocolture e su filiere lunghe e insostenibili, rappresenta un chiaro esempio della negazione del legame profondo tra la nostra salute e quella del pianeta. La perdita di biodiversità causata dall’agricoltura industriale, sta progressivamente facendo ammalare la Terra e i suoi abitanti, inclusi gli esseri umani.

Attraverso l’imposizione del modello agricolo industriale, le grandi multinazionali del settore agrochimico e sementiero hanno potuto realizzare enormi guadagni a scapito delle piccole realtà contadine e delle comunità locali, che stanno progressivamente scomparendo. Gli interessi di queste grandi aziende sono incompatibili con il modello agroalimentare delle piccole economie locali, basate sul rispetto della salute delle persone e del territorio. Ora le stesse grandi multinazionali che hanno contribuito alla crisi ecologica attuale, provano a convincerci di avere in tasca le soluzioni per le molteplici crisi a cui stiamo assistendo.

La narrativa dominante alimentata dall’industria agrochimica riduce la complessità della crisi ecologica e dei cambiamenti climatici ad una dicotomia che mette in opposizione la produzione vegetale a quella animale, evitando di affrontare in maniera sistematica la più ampia crisi ecosistemica causata dalle pratiche industriali.

In questa falsa dicotomia, gli animali, e con essi ogni forma di allevamento, vengono indicati come causa principale della crisi ecologicaspostando l’attenzione dalle reali responsabilità del modello agricolo industriale.

Un esempio di questo approccio è il caso della brucellosi tra i bufali in Italia. La brucellosi è una malattia che insorge tra capi di bestiame concentrati in un piccolo spazio (modello tipico di allevamento industriale CAFO: Concentrated Animal Feeding operation). La diffusione della malattia è stata utilizzata come pretesto per costringere i piccoli allevatori ad abbattere i propri capi di bestiame, con effetti devastanti per la sussistenza dei piccoli produttori di mozzarella di qualità. All’attacco perpetrato verso chi produce cibo vero e genuino si contrappongono gli ingenti fondi raccolti da grandi compagnie produttrici di cibo sintetico, come la start-up tedesca Formo, per produrre ricotta e mozzarella in laboratorio.

La complessità e l’integrità dell’allevamento animale in moltissime culture di tutto il mondo non ricevono la dovuta attenzione e il dovuto riconoscimento. A livello normativo, vengono invece assimilate al modello dell’allevamento industriale, cancellando di fatto la diversità e l’importanza di culture tradizionali profondamente radicate nei territori.

In questa narrativa distorta, gli animali vengono ridotti a semplici prodotti per l’apporto di proteine, la cui somministrazione può essere facilmente rimpiazzata da tecnologie più efficienti come prodotti di bioingegneria realizzati in laboratorio.

Queste false soluzioni proposte dall’agrobusiness stanno profondamente ignorando il ruolo essenziale e multidimensionale che gli animali ricoprono all’interno di agro-ecosistemi biodiversi. Il nostro legame profondo con la natura viene completamente ignorato, mentre viene ulteriormente ampliata la spaccatura che separa gli esseri umani dai cicli vitali della natura.

Alla luce di queste considerazioni, continueremo dunque ad aspettarci le soluzioni dagli stessi soggetti che considerano la terra, il cibo e il vivente come qualcosa da estrarre, da mercificare, da cui trarre profitti per risolvere i problemi che nascono dalla separazione dalla Natura e dalla Vita? O inizieremo finalmente ad affidarci a chi custodisce la terra da generazioni, come i popoli indigeni, ai contadini che coltivano con cura e consapevolezza, agli scienziati indipendenti che migliorano ogni giorno la scienza dell’agroecologia? A chi possiamo realmente affidarci per imparare a rigenerare e curare i danni che abbiamo imposto alla Terra?

 

Il caso della Sardegna

Uno dei numerosi esempi in cui possiamo osservare questo conflitto, è la Sardegna. Per secoli, gli insediamenti umani in Sardegna sono stati caratterizzati dalla presenza dei pastori, i quali hanno preservato e portato avanti una tradizione di coesistenza e integrazione tra comunità umane, animali e gli ecosistemi circostanti. Gli animali hanno storicamente svolto un ruolo fondamentale nella vita di comunità, nella cultura e nelle tradizioni, specialmente in riferimento al cibo e all’agricoltura.

Nel contesto sardo, molti definiscono i sistemi alimentari locali come sistemi agro-pastorali, evidenziando l’integrazione e la coevoluzione tra le attività di pastorizia e le pratiche agricole.
Inoltre, la Sardegna costituisce un’area di studio particolarmente emblematica per le questioni legate ai sistemi agroalimentari complessi e radicati nel territorio. L’isola possiede infatti il più alto numero di pastori tradizionali in Italia ed è famosa a livello internazionale per la sua storica cultura lattiero-casearia e per la diversità e qualità dei prodotti alimentari. Gli animali sono profondamente legati alla cultura locale, alle caratteristiche del territorio, al cibo tradizionale e all’identità dell’isola. Molti dei pastori che ancora praticano pastorizia estensiva, su piccola scala, si definiscono come custodi dei saperi del mondo agro-pastorale e delle tradizioni della loro terra. Attraverso il loro lavoro e le loro pratiche, mantengono vivi la lingua e i prodotti alimentari tipici, trasferendo i loro saperi alle nuove generazioni.

 

In queste realtà, i pastori hanno un rapporto diretto e di cura verso i loro animali, che sono considerati come parte integrante della famiglia. Nell’ambito di una ricerca sul campo in corso, condotta da Navdanya International in Sardegna, sono stati intervistati diversi pastori in aree differenti dell’isola. Dalle interviste è emerso come gli animali facciano parte della vita quotidiana, in quello che viene descritto come uno scambio reciproco tra gli esseri umani, l’ambiente circostante e gli animali stessi.

Molti dei pastori e allevatori su piccola scala, in Sardegna, integrano una molteplicità di attività agricole nel loro lavoro: coltivano e preparano il fieno per i loro animali, coltivano le proprie verdure, si prendono cura di oliveti e vigneti producendo olio e vino biologici, allevano diverse razze e tipi di animali e piante nelle loro aziende, lasciano la biodiversità spontanea del territorio fiorire e coesistere con i loro animali e con le attività della fattoria.

Nei sistemi tradizionali, inoltre, è fondamentale che la biodiversità selvatica locale prosperi e coesista con gli animali e le attività agricole. Gli animali sono infatti profondamente integrati e funzionali al mantenimento dei territori marginali e selvatici. Ad esempio, le pecore e le capre che pascolano nelle aree selvagge di montagna, dove il rischio di incendi in estate è più elevato, contribuiscono a mantenere l’ecosistema in equilibrio. I pastori e gli allevatori su piccola scala non disboscano, ma integrano le attività del pascolo nell’ambiente selvatico, prestando attenzione ad evitare lo sfruttamento eccessivo dei territori, attraverso un numero esiguo di animali su aree molto estese.

Ciononostante, negli ultimi cinquant’anni, in linea con i processi di modernizzazione e industrializzazione dell’agricoltura e dell’allevamento, anche in Sardegna l’industria dei latticini e della carne ha visto un’importante crescita, con un passaggio sempre più significativo a forme di allevamento intensive e all’esportazione su larga scala dei prodotti locali (latte, formaggi e carne), che stanno sostituendo le reti di scambio delle economie alimentari locali, dove i pastori tradizionalmente vendono i propri prodotti freschi e genuini alle comunità locali.

 

In un contesto di progressiva industrializzazione del settore, molti piccoli allevatori e agricoltori rischiano quotidianamente di dover abbandonare la propria attività. Con la costante riduzione del numero degli operatori, molte delle pratiche di pastorizia tradizionale, nonché delle comunità agro-pastorali locali, stanno scomparendo. Sul territorio sardo si sta consumando un vero conflitto sociale ed economico tra pastori e agricoltori multifunzionali, di piccola scala, che lavorano seguendo pratiche tradizionali ed ecologiche, e le grandi aziende e i caseifici di stampo industriale e intensivo.

La progressiva scomparsa del complesso tessuto culturale, ecologico e sociale delle comunità agro-pastorali ha un significato molto più ampio della semplice transizione di pastori e agricoltori verso altri stili di vita e di lavoro. Significa perdita di importanti lasciti culturali, di una conoscenza intima e profonda dell’isola e del suo territorio.
I pastori, infatti, svolgendo un lavoro intimamente legato ai cicli naturali, sono custodi di un sapere antico e profondo del proprio territorio. Conoscono la propria terra più di chiunque altro e continuano a preservare e abitare zone che sarebbero altrimenti spopolate e abbandonate. Attraverso il loro sapere e soprattutto attraverso la loro presenza, i pastori possono vigilare sui cambiamenti climatici, sulle risorse idriche e sulla salute dei terreni e della vegetazione.

Se le radici di questa tradizione agro-pastorale venissero recise, rischieremmo di perdere un patrimonio culturale dal valore inestimabile, oltre all’identità e alla vitalità del territorio e dell’economia locale in Sardegna. Soprattutto, rischieremmo di perdere le pratiche e i saperi di forme di allevamento realmente sostenibili ed agroecologiche, la produzione di cibo vero, cibo genuino, per la propria famiglia e la propria comunità. Un cibo e delle pratiche sostenibili che sono sempre più marginalizzati dalle false soluzioni promosse dall’agribusiness e dal sistema alimentare industriale.

 

Il cibo sintetico

La questione del cibo sintetico è una delle false soluzioni più emblematiche tra quelle proposte dall’industria del cibo e rappresenta una minaccia per tutti i saperi legati alla terra e per i prodotti naturali e genuini. Questo genere di soluzioni non considera l’enorme differenza tra cibo prodotto su scala industriale da allevamenti intensivi e il ruolo che invece assumono gli animali all’interno dei sistemi agro-pastorali su piccola scala, come quelli che ancora resistono in Sardegna.

 

Chi oggi promuove la produzione e la commercializzazione del cibo sintetico, sostiene la tesi che esso costituisce una concreta soluzione al cambiamento climatico e al degrado ambientale, poiché non necessita di grandi quantitativi d’acqua o di suolo. Si afferma inoltre che la diffusione del cibo sintetico potrebbe contribuire ad una significativa riduzione delle emissioni di gas serra e aumentare il benessere animale ponendo fine agli orrori dell’industria della carne. Il vero scopo dietro queste soluzioni, però, non potrebbe essere più lontano da quello di combattere il cambiamento climatico o i problemi di accesso al cibo.

Queste tecnologie rappresentano infatti la nuova ondata della privatizzazione e dei brevetti avviata con la Rivoluzione Verde a partire dai semi. Implicano il controllo dell’intera catena di produzione del cibo, a partire dalla manipolazione genetica del cibo sintetico, fino alla sua produzione in laboratorio, per arrivare fino al controllo della distribuzione già nelle mani delle grandi multinazionali.

Inoltre,  questi cibi ultraprocessati, di origine vegetale, vengono prodotti attraverso innovazioni tecnologiche la cui sicurezza non è ancora comprovata, come, ad esempio, la biologia sintetica, la manipolazione genetica dei CRISPR-Cas9 e i nuovi OGM. Queste tecniche prevedono la riconfigurazione del materiale genetico di un organismo per creare qualcosa di completamente nuovo, che non esiste in natura. Alcune aziende stanno addirittura investendo nella riproduzione di carne a partire da vere cellule animali. Il risultato finale di tutte queste sperimentazioni è una vasta gamma di prodotti artificiali realizzati in laboratorio: carni, uova, formaggio e latticini, che vengono gradualmente messe in commercio per sostituire i prodotti animali.

Questi prodotti sintetici stanno iniziando ad affacciarsi sul mercato. Il governo statunitense, ad esempio, ha recentemente dichiarato la carne sintetica sicura per la salute umana, autorizzando la compagnia californiana Upside Foods a produrre carne di pollo in laboratorio. Le prime richieste di autorizzazione alla vendita della carne sintetica nel mercato europeo potrebbero già arrivare entro la fine di quest’anno.

Le culture del cibo

Il sistema agroalimentare industriale viene messo in dubbio dalle scelte sempre più consapevoli dei consumatori, preoccupati per la propria salute e per l’ambiente. La promozione del cibo sintetico come soluzione ai problemi ambientali e climatici è altro che un abile tentativo di riorientare i profitti attraverso operazioni di  green washing commerciale. In questo modo, le aziende produttrici di cibo sintetico, sostenute dalle grandi multinazionali dell’agribusiness, aprirono la strada ad un nuovo mercato, rappresentato da consumatori attenti alle questioni ambientali e in cerca di alternative alla carne.

Nonostante la questione del cibo sintetico possa apparire lontana dalle battaglie e dagli ostacoli quotidiani dei pastori, degli agricoltori e delle comunità locali, in Sardegna diversi movimenti locali sono ben consapevoli della minaccia presente e futura che il cibo sintetico rappresenta per la loro economia ed hanno iniziato ad organizzare eventi e dibattiti su questa tematica, sulla spinta delle campagne di informazione e sensibilizzazione portate avanti a livello nazionale e internazionale da organizzazioni della società civile, inclusa Navdanya International.

I piccoli produttori, agricoltori e pastori sardi sono molto chiari nell’esplicitare e manifestare quello che ritengono sia il cibo vero e genuino: il cibo che da generazioni viene riconosciuto come tale, un cibo radicato nella terra e nella cultura di un popolo antico. Questo vale soprattutto per i sistemi alimentari locali basati sulle reti di solidarietà e di economia circolare sviluppati sul territorio, grazie ai quali i pastori possono vendere i propri prodotti presso botteghe o mercati locali, o attraverso reti informali consolidate all’interno delle proprie comunità.

Oggi il rischio è quello di distruggere e cancellare culture del cibo antiche e millenarie, che hanno elaborato nel tempo espressioni complesse della cultura, del territorio e dell’identità, attraverso rapporti sinergici tra l’agricoltura, gli animali, la biodiversità selvatica, il paesaggio e le comunità umane.

 

Dobbiamo quindi riportare al centro le economie del cibo locali, circolari e rigenerative, in linea con i ritmi ecologici e i limiti che supportano queste relazioni simbiotiche. Non possiamo continuare a distruggerle perché grandi multinazionali continuino a ingrossare i propri profitti. La difesa del vero cibo genuino e delle culture basate sulla terra è oggi più importante che mai, poiché rappresenta anche la difesa dei piccoli agricoltori e dunque del nostro rapporto con il vivente.

Questo significa far rifiorire e supportare quegli stili di vita che hanno sostenuto l’umanità per millenni, laddove comunità e cultura sono co-evolute in rapporto al clima, al suolo e alla biodiversità, contribuendo alla diversità degli alimenti e dei sistemi agricoli, unendo la biodiversità e la diversità culturale in maniera simbiotica.

da qui

mercoledì 29 marzo 2023

Un treno devasta la terra dei Maya - Francesco Martone

 

Dal  9 al 12 marzo scorso una delegazione di giudici del  Tribunale Internazionale dei Diritti della Natura ha visitato lo Yucatan ed il Quintana-Roo in Messico, per incontrare le comunità che subiscono l’impatto della costruzione del megaprogetto del Tren Maya e per svolgere una udienza pubblica che serve a valutare le violazioni sui diritti della Natura e quelli dei popoli indigeni.

Il progetto prevede la costruzione di 1500 kilometri di ferrovia attraverso foreste, territori ricchi di tesori archeologici, e comunità locali. Si prevede anche la costruzione di una ventina di nuovi insediamenti urbani (Polos de Desarrollo) come volano per lo “sviluppo” economico e produttivo di tutta la regione.

L’infrastruttura è connessa al Corridoio Trans-istmico che attraverserà la lingua di terra di Tehuantepec, e già oggetto di forti proteste locali, ed al Plan Puebla Panamà. Seppur venga promosso come progetto di valorizzazione turistica di tutto lo Yucatan le cifre svelano un’altra storia: sui convogli che saranno lunghi in media mezzo chilometro solo il 20% del carico sarà composto da turisti, il resto da materie prime o prodotti di esportazione, come la carne di maiale verso la Cina.

Da tempo gli impatti ambientali, culturali, sociali e sui diritti dei popoli indigeni sono denunciati pubblicamente ma invano, visto che il presidente AMLO punta su questo megaprogetto come il “segno” distintivo del suo mandato in scadenza, e non esita a militarizzare il territorio per imporne la costruzione.

Non a caso la costruzione di metà del tragitto della ferrovia – che dovrebbe essere ultimata entro fine anno – è in mano ai militari che controlleranno anche la società nella quale confluiranno le rendite del progetto, e che verranno poi redistribuite come pensioni ai militari in pensione.

A Piste’, nei pressi di Chichen Itza’ i giudici (Maristella Svampa, Padre Raul Vera, Francesco Martone, Yaku Perez, Alberto Saldamando) hanno raccolto le testimonianze di lavoratori ed artigiani del settore turistico, poi a Señor, dove hanno toccato di prima mano il clima di intimidazione da parte delle forze armate: poche ore prima i militari erano andati casa per casa a minacciare chi era stato invitato a partecipare ad una assemblea pubblica con i giudici.

 

All’appuntamento comunque si sono presentate una decina di persone che hanno raccontato della deforestazione e degli impatti ambientali del Treno e dei megaprogetti infrastrutturali connessi, allevamenti intensivi di suini, taglio di indiscriminato di alberi di specie preziose, risarcimenti mai concessi.

Eppoi a Tihosuco dove sono state raccolte testimonianze sull’impatto devastante di monoculture di mais transgenico, sistemi di asservimento dei piccoli produttori alla produzione forzata di cibo per le catene alberghiere e per l’esportazione in una sorta di “megamaquiladora” a cielo aperto, dell’impatto devastante sulla produzione tradizionale di miele o quello delle megacentrali eoliche e solari destinate a alimentare i resort turistici che verranno costruiti.

Il giorno seguente a Valladolid si è tenuta una udienza pubblica con interventi di leader di comunità maya, movimenti per la difesa del territorio, accademici e ricercatori che hanno fornito ulteriori prove di quello che si sta prefigurando come un vero e proprio etnocidio, ed ecocidio.

Un rischio ormai evidente come nel caso dei “cenote” (specchi d’acqua sotterranei che rappresentano la fonte principale di acqua potabile nonché importanti siti sacri per la cosmologia Maya) del tragitto 5 della ferrovia a Playa del Carmen, oggetto di un sopralluogo da parte del Tribunale.

I giurati hanno potuto constatare come la costruzione di piloni di cemento per le rotaie, conficcati nel terreno vanno ad impattare in maniera devastante sui “cenote” oltre a essere destinati a sprofondare nel terreno friabile che caratterizza tutta la regione.

 

Impatti ambientali irreversibili che si accompagnano alla distruzione di luoghi fondamentali per le culture ancestrali Maya, già sotto attacco dalla crescente industria del turismo di massa.  Non è infatti un caso che la “securitizzazione” dello spazio pubblico, attraverso la militarizzazione, la dichiarazione del Tren Maya come opera di sicurezza nazionale, la repressione o la delegittimazione delle proteste e delle legittime richieste delle comunità interessate dal Treno e dalle infrastrutture connesse, si accompagnino a una strategia di stigmatizzazione, disprezzo e delegittimazione della cultura, delle pratiche, delle misure di vita e delle conoscenze ancestrali del popolo Maya.

Si tratta di un’ulteriore forma di violenza che deriva dalla violazione dei diritti bioculturali dei popoli a conferma di come il neo-estrattivismo si nutre di morte e geneai morte, morte dei territori, degli ecosistemi, morte dei loro popoli, delle loro culture, delle loro cosmologie, in una parola una “necropolitica”.

Il Tren Maya nella sua accezione più ampia si alimenta e si impone grazie ad un clima di sospensione o violazione dei diritti o peggio ancora di privazione dei diritti, di vuoto giuridico e legale, di violenza istituzionale o statale e di violazione della dignità e dei diritti di un popolo che nel corso della storia ha subito due estinzioni, la seconda come conseguenza della conquista e del genocidio che ne è seguito.

Nonostante questo debito storico, il popolo Maya sia ancora in piedi, dignitoso, offrendoci un esempio di come recuperare un rapporto intrinseco con la nostra Madre Terra, soggetto di dignità e diritti. E mostra al mondo che non ci può essere territorio senza popoli e non ci possono essere popoli senza territori.

Il Treno Maya e gli altri megaprogetti ad esso connessi come il Corridoio Transistmico  e i piani di estrazione mineraria e petrolifera pertanto non solo sono estranei alla natura e al popolo Maya, ma rappresentano un modello criminogeno, nel senso che generano crimini sistemici contro i diritti esistenziali della Madre Terra e dei Popoli.

 

Di seguito il testo tradotto della sentenza, che chiede la sospensione immediata del Tren Maya e dei progetti connessi,  accusa lo stato messicano di violazioni dei diritti della Natura e dei popoli,  propone la creazione di una commissione indipendente d’indagine,  chiede il risarcimento dei danni ambientali e sociali,  esorta alla protezione e tutela dei difensori e difensore dell’ambiente sotto minaccia, e chiede la promulgazione di leggi che riconoscano i diritti della Natura come già fatto in alcuni stati messicani.

La sentenza preliminare è stata tradotta in Maya e verrà diffusa in tutte le comunità, per essere usata come strumento di rivendicazione e piattaforma di costruzione di alleanze e collaborazioni a livello nazionale ed internazionale.

Il Tribunale Internazionale dei Diritti della Natura è un Tribunale di opinione fondato dalla GARN (Global Alliance on the Rights of Nature) nel 2014 con l’obiettivo di promuovere i diritti della Natura e offrire uno spazio di denuncia e rivendicazione sulle violazioni degli stessi e dei diritti di chi li difende.

Ha svolto varie sessioni ed udienze, prima di questa sul Tren Maya una sull’Amazzonia brasiliana nel giugno dello scorso anno in concomitanza con il Forum Sociale Panamazzonico di Belem, nello stato brasiliano del Parà. Nei prossimi giorni una delegazione del Tribunale si recherà in Patagonia Argentina, a Vaca Muerta (il secondo giacimento di gas e petrolio di scisto più grande del mondo) per indagare gli effetti del fracking sui diritti della natura e quelli del popolo Mapuche

Per maggiori informazioni:

www.rightsofnaturetribunal.org

www.garn.org

per materiali in italiano  sulla missione del Tribunale in Messico:

https://ecor.network/articoli/il-tribunale-locale-dei-diritti-della-natura-contro-il-tren-maya/

Intervista a Francesco Martone, membro della giuria del Tribunale per Radio Onda D’Urto:



martedì 28 marzo 2023

Negazionisti di fatto - Guido Viale

 

Dilaga il negazionismo climatico e ambientale. Quello concreto. Quello effettivo. Finché la disputa si svolgeva all’interno della comunità scientifica, i negazionisti – in Italia guidati prima dal professor Zichichi, “lo scienziato di Andreotti”, poi da Paolo Prodi, il fratello scemo di Romano – sono sempre stati una piccola minoranza in continua diminuzione, ancorché ben foraggiata dall’industria dei fossili. Imperversavano sui media con affermazioni perentorie che avevano poi un vago riflesso nelle rare discussioni sul tema che si svolgevano nei bar e ai giardinetti. Greta Thunberg, con il suo appeal mediatico, ha imposto una svolta ai media (certo, non tutti, provate a leggere Libero…), che da allora hanno cominciato a prendere sul serio l’argomento: mai, o quasi, comunque, in prima pagina o in apertura dei notiziari. E che “il problema” ci sia, e sia serio, ormai non lo nega quasi nessuno.

Ma da quando i primi effetti macroscopici dei cambiamenti climatici sono davanti agli occhi di tutti – gli abitanti di altri Paesi, in Africa e negli atolli del Pacifico, ne avevano dovuto prendere atto ben prima – nella psiche di governanti e governati si è insinuata una forma acuta di schizofrenia: si lanciano allarmi, si sottoscrivono impegni come quelli presi ai vertici di Parigi e di Glasgow, si varano piani faraonici: “Next generation EU”, tradotto in italiano in PNRR (190 miliardi) è nato come piano per salvare la prossima generazione (e quelle seguenti) dalla crisi climatica e ambientale.

E cosa ne hanno fatto? Alta velocità, autostrade, porti e dighe, case della salute senza né medici né infermieri (ma con molto cemento) e adesso anche il ponte sullo Stretto e altre “amenità” del genere, cioè disgrazie. Poi si è aggiunta la guerra in Ucraina, in Europa e altrove; forse in tutto il mondo. Ma per ora, come dice il papa, solo “a pezzi”. E con essa, la produzione di sempre più armi. A nessuno viene da chiedere che cosa quelle scelte, quelle produzioni, quei progetti hanno a che fare con la lotta ormai disperata e disperante per arrestare l’incombente catastrofe ambientale. Così, più si consolida la convinzione generale e generica che siamo alla vigilia di una apocalisse climatica, più si va affermando una sorta di negazionismo di fatto, che chiude gli occhi di fronte a una realtà ormai evidente e sospinge a comportarsi come se tutto dovesse continuare come prima.

I principali “negazionisti di fatto” sono i sostenitori (sia decisori che pubblico plaudente) del continuo rifornimento di armi all’Ucraina per mandare avanti quella guerra; senza porsi alcun concreto obiettivo se non la “vittoria” (ma di chi? E su chi?), purché continui la distruzione, da entrambe le parti, di vite, di edifici, di suolo, di acque, fino a fare di quel territorio quel deserto che Chernobyl non era riuscito a portare a termine. È ovvio che bombe, proiettili, razzi, cannoni, carri armati e aerei, sia usandoli che producendone di nuovi e di più, non fanno che accelerare i tempi della crisi climatica e ambientale. Eppure, tra i fautori di quella guerra a oltranza trovate molti ambientalisti nemici della caccia, sostenitori della raccolta differenziata e della salvaguardia delle balene, convinti che occorra fare subito “qualsiasi cosa” (sì, ma che cosa?) per ridurre le emissioni di gas climalteranti.

Ora al centro dell’attenzione c’è l’acqua: il Po è in secca, l’Adige anche e gran parte del resto del mondo pure. Nel PNRR non se ne parlava quasi; adesso si corre (anzi si dice che bisogna correre) a costruire desalinatori per produrre e dighe e invasi per salvare l’acqua che manca. Ma non piove e non nevica e quando c’è la pioggia arriva con tale furore che è impossibile trattenerla, assorbirla e stoccarla; mentre dissalare l’acqua di mare richiede molta energia. Chi la produrrà? Il sole e il vento o il gas e il carbone? Altro capitolo aperto.

Nessuno però dice che l’acqua che c’è si può risparmiare, intanto rifacendo canali e tubature che ne perdono il 40 per cento: se ne parla da trent’anni, ma anche il PNRR non prevede gran che in proposito. Poi recuperando negli abitati l’acqua piovana con canalizzazioni separate da quelle di fogna. Poi con un’agricoltura diversa e una riduzione degli allevamenti intensivi (consumano il 70 per cento di quel 70 per cento di tutta l’acqua disponibile che viene inghiottita da un’agricoltura industrializzata). Poi imparando a usarla meglio nella vita quotidiana. Poi… poi adoperandosi per non essere più negazionisti di fatto.

Ma i fiumi sono in secca perché ad alimentarli non ci sono più i ghiacciai. Anche in montagna non nevica, fa caldo e i ghiacciai scompaiono. A valle l’agricoltura dovrà imparare a usare meno acqua. A monte sciatori e operatori turistici dovranno imparare a fare a meno della neve. Che problema c’è? Si fa la neve artificiale. E giù a moltiplicare gli impianti, le piste, i laghetti (in concorrenza con quelli che dovrebbero far rivivere i fiumi in secca), i cannoni sparaneve. Ma sopra zero gradi neanche la neve artificiale si forma. La fanno solo in Arabia Saudita, per creare una pista nel deserto dentro un tunnel. Tra qualche anno lo sci si potrà fare solo lì. O a Pragelato (Piemonte), dove si progetta di fare un tunnel. Non sarebbe meglio imparare fin da ora a vivere in modo diverso quel che resta delle montagne?

E l’energia? Dovrebbe essere tutta rinnovabile entro il 2050, ma i nuovi impianti procedono a rilento. Intanto, sospinto dalla guerra alla Russia che lo forniva a prezzi d’affezione, va a pieno ritmo il gas. Anzi, l’Italia diventerà, ben oltre il suo bisogno (in realtà già lo è), un ”hub” del gas per tutta l’Europa. Sospinta dalla lobby del gas (in Italia, leggi Eni, il vero padrone del Paese, che passa indenne da un governo all’altro), l’Unione Europea ha deciso che il gas è una fonte energetica di transizione (ma a che cosa?). Quando gli impianti (tubi, rigassificatori e flotte gasiere) in progetto saranno pronti la crisi climatica avrà ormai superato la soglia dell’irreversibilità e quegli impianti saranno da buttare e con loro, anche la vita “agiata” a cui siamo abituati.

Ma anche in questo caso l’unica fonte energetica a cui non si pensa e non si provvede – se non con misure sporadiche e casuali quanto costose, come il “110 per cento” – è il risparmio, cioè l’efficienza in tutti i campi, che potrebbe ridurre anche del 40 per cento gli attuali fabbisogni. Invece, dietro al gas occhieggia il nucleare (anch’esso riammesso dall’Unione come fonte di transizione) che piace a Salvini perché è costoso, inutile e pericoloso come e più del Ponte sullo Stretto. Ma non se ne può fare a meno, perché di energia elettrica avremo sempre più bisogno per alimentare una flotta di 35 milioni di automobili da riconvertire all’elettrico!

Qui si apre un nuovo capitolo. Tutti (dalla Fiom a Salvini) a deplorare il fatto che l’auto elettrica contiene meno pezzi e richiede meno manodopera di quella a combustione. Nessuno a ricordare che persino l’Unione Europea ha stabilito che entro il 2050 il parco veicoli dovrà diminuire del 60 per cento. Dunque, se si rispettasse questo obiettivo a cui nessuno crede (e meno che mai i burocrati che l’hanno introdotto) la riduzione dell’occupazione nel settore dovrebbe andare ben oltre quella connessa al passaggio all’elettrico. E lo farà comunque perché la crisi climatica costringerà un numero crescente di persone ad andare a piedi (o a non spostarsi più) perché nel frattempo non saranno stati varati sistemi di trasporto pubblico o condiviso alternativi all’auto privata, elettrica o no.

D’altronde – qui hanno ragione Salvini e il branco di giornali di destra che gli fanno eco – l’auto elettrica presenta ben pochi vantaggi rispetto a quelle attuali. Consuma di meno, ma produce la stessa quantità di CO2 se l’elettricità continuerà a venir prodotta, in tutto o in parte, con i fossili; ma produce quasi la stessa quantità di inquinamento (particolato), che per l’80 per cento è generato non dagli scappamenti ma dall’attrito dei pneumatici e dei freni (e continuamente risollevato dal rotolamento delle ruote). Soprattutto ingombra quanto l’auto tradizionale, trasformando vie e piazze in parcheggi e camere a gas, devastando la socialità di strada, la vita dei bambini e degli anziani (ma anche quella degli adulti) e allontanando per sempre l’obiettivo, questo sì ecologista, della città dei 15 minuti.

Eppure l’auto elettrica, simbolo della continuità del nostro stile di vita prima e dopo la “transizione energetica” continua a essere al centro delle preoccupazione degli ecologisti: la cartina al tornasole del fatto che non hanno né capito né accettato l’idea della conversione ecologica. Sono e restano dei negazionisti di fatto. Inutile dire che un discorso analogo vale per tutti i natanti da diporto (dagli yacht di superlusso ai barchini fuoribordo, crociere comprese), nonché per tutti gli aerei privati, vero accaparramento del cielo da parte dei superricchi. Ma è il trasporto in generale, sia di merci che di passeggeri, come ha fatto notare Federico Butera a proposito del Ponte sullo Stretto, che è destinato a subire un drastico ridimensionamento: sia che si proceda in questa direzione con il progressivo potenziamento dell’economia circolare, che renderà esuberante gran parte della rete stradale, sia, com’è probabile, che ci si arrivi nel caos, per le rottura delle catene di fornitura indotte dalla crisi climatica e da tutto il disordine ”geopolitico” (leggi guerre) che ne conseguirà.

Anche sugli edifici sarebbe possibile promuovere, con l’efficienza, un risparmio energetico sostanziale, a patto che accanto agli obiettivi fissati per legge dall’Unione Europea (quelli contro cui urla la Lega di Salvini, tacciandola di essere una “patrimoniale” – non sia mai! – sulla casa) si varino a livello locale dei piani che non affidino al caso, come ha fatto il “110 per cento”, la messa a norma di qualche edificio, ma mettano invece in grado ogni proprietario, ogni condominio, ogni struttura, di disporre di un progetto organico che ne affronti tutti gli aspetti, dall’isolamento di pareti e infissi alla fornitura attraverso la costituzione di comunità energetiche, dall’efficientamento degli impianti alle regole di condotta e al finanziamento, ecc. Non succederà.

Ma che senso ha, avrebbe, promuovere la conversione energetica in un Paese solo, quando il resto del mondo (e soprattutto le economie emergenti, che ne rivendicano il diritto, perché non è a causa loro che si è arrivati a questo punto) continuerà a produrre imperterrito gas di serra e devastazioni ambientali che incidono su tutto il pianeta, noi compresi, portandolo allo stremo? Ha senso, posto che ci sia una possibilità di sopravvivere anche nelle condizioni estreme in cui ci si verrà a trovare. Perché le misure di mitigazione delle cause di alterazione del clima che il negazionismo di fatto evita accuratamente di adottare, e anche solo di volere, sono anche tutte misure di adattamento alle condizioni ostiche del “nostro comune futuro”.

Piccolo è bello: produzione e consumo di materiali, di suolo e di acqua, sprechi e produzione di scarti e rifiuti dovranno comunque ridursi drasticamente; i trasporti di merci saranno meno voluminosi e frequenti; i viaggi più impegnativi e sensati; gli impianti di generazione elettrica più differenziati e più distribuiti sul territorio; le città più compatte e gli spazi pubblici più liberi; la solidarietà più necessaria per affrontare le difficoltà di ogni giorno. Chi (le città e i territori) si sarà attrezzato per tempo per queste cose avrà più possibilità di sostenere una vita decente e di accogliere anche le persone costrette a fuggire dal loro Paese reso invivibile forse per sempre.

https://comune-info.net/negazionisti-di-fatto/

lunedì 27 marzo 2023

Il male siamo noi quando siamo disumani. È ora di prenderne consapevolezza - Roberto Mancini

 

La parte più consapevole dell’umanità ha compreso il pericolo e sta agendo per la salvezza di tutti. Contro questa primavera storica si scatenano le convulsioni di resistenza a tutti i costi da parte del sistema necrofilo della globalizzazione della violenza e dei suoi servitori. Le “idee eretiche” di Roberto Mancini

La resilienza del male. È la tendenza dei soggetti disumanizzati e dei sistemi di potere ad aggravare la loro reazione distruttiva proprio quando si aprono spiragli di guarigione del mondo. Anziché cedere alla novità di forze vitali che migliorano le situazioni, quei soggetti e quei sistemi fanno di tutto per accelerare la spirale di degrado che avevano innescato. Chi vive con umanità può mettere in campo una più lucida consapevolezza del proprio stare al mondo, un’etica più efficace, una maggiore dedizione alla giustizia, un agire politico nonviolento, un impegno al risanamento dell’economia, tentando quella traversata storica che oggi viene evocata come transizione ecologica. Ma, per spegnere tale opera di liberazione, chi è preda della disumanità moltiplicherà le energie per rendere irrimediabile la situazione.

Del male non si parla volentieri, sembra un termine eccessivo. Per molti bene e male sono riferimenti del tutto relativi. Per altri il male è qualcosa di abissale e misterioso. A me pare invece che, a parte quelle forme di distruzione della vita indipendenti da noi e derivanti da eventi naturali, il male siamo noi quando siamo disumani. Allora accade che o lo commettiamo con le nostre perversioni e stupidità di individui, oppure collaboriamo al suo condensarsi in grandi sistemi di potere che opprimono gli esseri viventi. La modernità si è caratterizzata soprattutto per questa modalità strutturale, istituzionalizzata, globale, al punto da mettere a repentaglio la sopravvivenza della nostra specie e la salute del Pianeta.

La parte più consapevole dell’umanità ha compreso il pericolo e sta agendo per la salvezza di tutti. Contro questa primavera storica si scatenano le convulsioni di resistenza a tutti i costi da parte del sistema necrofilo della globalizzazione della violenza e dei suoi servitori. Il primo fenomeno di questo tipo è la radicalizzazione del processo di riduzione del mondo a mercato, riaffermato sotto il rivestimento ideologico della “sostenibilità”. Il surriscaldamento dell’atmosfera si aggrava e questo sistema accresce, anziché diminuire, tutte le pratiche che lo determinano. Poi c’è il fenomeno della preponderanza della guerra nel circuito geopolitico e della corsa al riarmo delle nazioni e persino dei singoli. Il mondo ha estremo bisogno di dialogo, nonviolenza, diplomazia, pacificazione e che fanno i disumanizzati? Si armano, sparano, uccidono sempre di più. Non c’è solo la guerra contro l’avversario etnico o politico. È in atto la guerra sistematica a tutte le soggettività più sintoniche con la vita e più allergiche alla logica del potere: contro le nuove generazioni, contro le donne, contro chi emigra per un’esistenza migliore, contro la natura. Ciò non sarebbe possibile senza il contagio del totalitarismo aperto o subdolo, in molti Paesi.

Il fascismo continua a diffondersi in molte forme: fondamentaliste, misogine, razziste, aziendaliste, sovraniste. Nel momento in cui l’umanità ha bisogno di diventare una stessa comunità solidale, c’è una recrudescenza di nazionalismi. E il nazionalismo è già fascismo. La disgregazione è così esasperata che il nazionalismo non basta: si tenta di spezzare le comunità politiche e costituzionali dividendole in parti vincenti e in parti abbandonate a sé stesse. L’attuale imposizione della cosiddetta autonomia differenziata concepita da un vero maestro dell’ingegneria istituzionale come il senatore Roberto Calderoli, lo stesso che già aveva definito la legge elettorale da lui confezionata “una porcata”, fa tornare l’Italia ai tempi del Congresso di Vienna e la frammenta in Regioni a sé stanti nell’epoca delle sfide globali. La scuola, la sanità, i diritti fondamentali sono sacrificati sull’altare dell’egoismo regionalista per il disprezzo verso l’Italia della Costituzione e della democrazia solidale. Questo vortice della disgregazione va fermato scegliendo un nuovo impegno politico per tutelare il bene comune, nel quale porteremo non le nostre miserie ma il meglio della nostra umanità.

da qui

sabato 25 marzo 2023

due lettere di Mauro Armanino, dal Sahel

                     Migranti nel Sahel, voce del verbo deportare

Le migrazioni fanno la storia e la storia è fatta di migrazioni. La mobilità è costitutiva dell’umanità perché la vita non è altro che una serie di cammini inventati nel tempo. La storia si ingegna a raccontare quanto ogni giorno trova scritto sulla sabbia prima che sia cancellato dal vento. Si tratta dei sogni che, impunemente traditi, rubati o confiscati dal sistema di polizia globale, sopravvivono e si tramandano alle generazioni future. I migranti, spesso senza avvedersene, sono delle migrazioni i drammatici artigiani e profeti. Per questo, senza destare sommovimenti, proteste e rimostranze degne di questo nome, sono ormai da anni oggetto di deportazioni. Basta andare sul net e scrivere questa sinistra parola, abbinata all’Algeria dei militari, del gas e del petrolio, per trovare in fretta una serie impressionante di notizie sul tema.

Sono sinonimi del verbo deportare, verbo transitivo …(che si dice di un verbo che non esaurisce l'azione in sé ma la estende su un “oggetto”), esiliare, bandire, confinare, relegare, deporre, proscrivere, trasferire a forza. Tutto è detto perché il verbo ‘transita’ sull’altro, appunto, come ‘merce di scambio’. Solo perché l’altro è riducibile ad ‘oggetto’ che la storia ha reso le deportazioni tristemente famose e attualiEsse sono state applicate su vasta scala in Europa durante la seconda guerra mondiale e poi applicate dappertutto.

‘Le deportazioni degli africani dall’Algeria al Niger continuano … in condizioni caotiche e persino mortali’, è scritto sul sito di ‘Meltingpot’ del 4 gennaio scorso. Algeria, l’Onu accusa: migranti deportati e abbandonati nel deserto al confine col Niger, del 21 maggio 2018…lo stesso sito ricorda che almeno 10 mila migranti sono stati abbandonati a partire da settembre. Continuano su larga scala le deportazioni dall’Algeria mentre le operazioni di rimpatrio verso i Paesi di origine sono state notevolmente rallentate, segnala il sito italy24.press, del 3 gennaio di quest’anno. Algeri deporta nel deserto i migranti e a denunciarlo è l’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni (OIM). Secondo l’organizzazione alcuni sono stati abbandonati dai trafficanti, altri sono stati deportati dalle autorità algerine. Riferito sito della rivista missionaria Africa’.

Questo verbo deriva dal latino deportare, infinito presente attivo di deporto, "portare via"… Nell’epoca dello schiavismo, Nel Sahel e altrove in Africa, si è cominciato col ‘portar via’ le persone a milioni dal Continente. Si è continuato col ‘portar via’ la sovranità dei popoli con colonialismo e poi col neocolonialismo che è perpetuato sotto altre vesti dalle attuali elite al potere. In questi decenni le geopolitiche della miseria hanno cospirato per ‘portar via’ il futuro dei giovani del Continente.

 ‘Sono migliaia i fantasmi nel deserto ai confini con la Libia. Migranti e profughi africani e asiatici prelevati dalle carceri libiche ed espulsi nel Sahara. La loro sorte è ignota. La denuncia viene dall’Alto commissariato per i diritti umani dell’Onu che a novembre ha pubblicato il rapporto 'Unsafe and Undignified', insicuri e privati della dignità. Nel 2019 e nel 2020 ha avuto notizie di 7.500 espulsioni arbitrarie di migranti e richiedenti asilo in Sudan, Niger e Ciad. Numero sottostimato, sostiene lo studio, per l’impossibilità di ottenere dati certi. Solo a dicembre o gennaio 2020 ci sono state oltre mille espulsioni nel deserto dalla Libia in Niger. I migranti vengono prelevati da centri e portati nei centri di raccolta dalle quali le unità di pattuglia in frontiera li deportano’. E’ il giornale Avvenire che pubblicava questa notizia tempi addietro.

Tutta deportazione, dunque, nasce dal ‘portar via’ ciò che costituisce quanto di più prezioso possieda una persona: il desiderio di un mondo differente. Un mondo che privilegi l’importazione di beni e capitali, l’esportazione di materie prime e di giovani come ‘mercanzia’ da trafficare, non può che utilizzare la deportazione come strategia di governo. Ed è proprio questo sistema che i migranti rivelano, denunciano e, a modo loro, sconfiggono.

                                                                                Mauro Armanino, Niamey, 12 febbraio 2023



              Come liberare la pace nel Sahel, istruzioni per l’uso

L’amico Pierluigi Maccalli, ostaggio per più di due anni nel deserto, è stato per tanto tempo incatenato dai suoi rapitori. Attaccato come si fai coi cani e coi prigionieri perché non fuggano dalla prigionia, aveva pochi metri di spazio. Proprio a lui, da sempre artigiano di pace nel suo cammino umano e missionario, è toccato in sorte di fare l’esperienza della violenza. In quella circostanza, nelle fredde notti sotto le stelle ancora più luminose del deserto, avrebbe confessato di avere scoperto la libertà. Da allora Pierluigi, nel suo Paese e altrove, condivide, a chi l’ascolta e legge i suoi scritti, una testimonianza di pace. Lui, innocente ostaggio della violenza armata in nome di un dio camuffato da giustiziere, ha trasformato le catene in libertà.

Nel Sahel, altrove in Africa e in Europa, non si fa che parlare di armi, munizioni, militari, tattiche e strategie per ‘neutralizzare’ il nemico. Pure noi in Niger, nel nostro piccolo, possediamo aerei, droni, basi militari, soldati e cimiteri in abbondanza. Non mancano gli investimenti per il settore della difesa e non mancano neppure, nella stessa capitale, le classi fatte di paglia che ogni anno riducono in cenere alunni e strutture. I gruppi armati di dio, dei soldi, dei commerci e soprattutto dei propri interessi, non sono che pedine, vittime anch’essi delle forze del male. Esse, le forze schiave del male, operano in modo aperto e misurabile e assieme occulto, perché indefinito negli effetti poco prevedibili. Di tutto ciò la corsa al riarmo è il segno.

I numeri dell’Istituto Internazionale della Ricerca sulla Pace di Stoccolma, evidenziano che l’anno scorso è stato marcato da una spesa militare senza precedenti, di 2. 100 miliardi di dollari. Il business della guerra è generato dai conflitti armati, le scelte militariste dei paesi belligeranti o cobelligeranti, impegnati a rifornire gli eserciti sul campo. Si prepara poi il business della ricostruzione e i diversi paradisi umanitari con, sullo sfondo, l’industria bellica al comando della politica che si nutre della vita di migliaia di esseri umani. Finché il detto latino anonimo assicura che ’ per volere la pace occorre preparare la guerra’ non sarà messo nelle pattumiere della storia, non usciremo dalla logica della spirale della violenza, di cui anche Dio è vittima.

Ecco perché è da prendere sul serio l’invito accorato dell’amico Pierluigi a ‘liberare la pace’. Nelle politiche, nelle religioni, nell’economia, nelle relazioni e soprattutto nello spirito umano, occorre ‘ripudiare’ la guerra come strumento di risoluzione dei conflitti. Disarmare e soprattutto dis-armarsi nel pensiero, nelle parole, nelle scelte e nello sguardo, per liberare la pace, incatenata dalla menzogna e la paura dell’altro.

 

                                                                                             Mauro Armanino, Niamey, 19 febbraio 2023