Dilaga il negazionismo climatico e ambientale. Quello concreto. Quello effettivo. Finché la disputa si svolgeva all’interno della comunità scientifica, i negazionisti – in Italia guidati prima dal professor Zichichi, “lo scienziato di Andreotti”, poi da Paolo Prodi, il fratello scemo di Romano – sono sempre stati una piccola minoranza in continua diminuzione, ancorché ben foraggiata dall’industria dei fossili. Imperversavano sui media con affermazioni perentorie che avevano poi un vago riflesso nelle rare discussioni sul tema che si svolgevano nei bar e ai giardinetti. Greta Thunberg, con il suo appeal mediatico, ha imposto una svolta ai media (certo, non tutti, provate a leggere Libero…), che da allora hanno cominciato a prendere sul serio l’argomento: mai, o quasi, comunque, in prima pagina o in apertura dei notiziari. E che “il problema” ci sia, e sia serio, ormai non lo nega quasi nessuno.
Ma da quando i primi effetti macroscopici dei cambiamenti climatici
sono davanti agli occhi di tutti – gli abitanti di altri Paesi, in
Africa e negli atolli del Pacifico, ne avevano dovuto prendere atto ben prima
– nella psiche di governanti e governati si è insinuata una forma acuta
di schizofrenia: si lanciano allarmi, si sottoscrivono impegni come quelli
presi ai vertici di Parigi e di Glasgow, si varano piani faraonici: “Next
generation EU”, tradotto in italiano in PNRR (190 miliardi) è nato come piano per
salvare la prossima generazione (e quelle seguenti) dalla crisi climatica e
ambientale.
E cosa ne hanno fatto? Alta velocità, autostrade, porti e dighe, case della salute
senza né medici né infermieri (ma con molto cemento) e adesso anche il
ponte sullo Stretto e altre “amenità” del genere, cioè
disgrazie. Poi si è aggiunta la guerra in Ucraina, in Europa e
altrove; forse in tutto il mondo. Ma per ora, come dice il papa, solo “a
pezzi”. E con essa, la produzione di sempre più armi. A nessuno
viene da chiedere che cosa quelle scelte, quelle produzioni, quei progetti
hanno a che fare con la lotta ormai disperata e disperante per arrestare
l’incombente catastrofe ambientale. Così, più si consolida la convinzione
generale e generica che siamo alla vigilia di una apocalisse climatica, più si
va affermando una sorta di negazionismo di fatto, che chiude gli occhi di
fronte a una realtà ormai evidente e sospinge a comportarsi come se tutto
dovesse continuare come prima.
I principali “negazionisti di fatto” sono i sostenitori (sia decisori che
pubblico plaudente) del continuo rifornimento di armi all’Ucraina per mandare
avanti quella guerra; senza porsi alcun concreto obiettivo se non la “vittoria”
(ma di chi? E su chi?), purché continui la distruzione, da entrambe le parti,
di vite, di edifici, di suolo, di acque, fino a fare di quel territorio quel
deserto che Chernobyl non era riuscito a portare a termine. È ovvio che bombe,
proiettili, razzi, cannoni, carri armati e aerei, sia usandoli che producendone
di nuovi e di più, non fanno che accelerare i tempi della crisi climatica e
ambientale. Eppure, tra i fautori di quella guerra a oltranza trovate molti
ambientalisti nemici della caccia, sostenitori della raccolta differenziata e
della salvaguardia delle balene, convinti che occorra fare subito “qualsiasi
cosa” (sì, ma che cosa?) per ridurre le emissioni di gas climalteranti.
Ora al centro dell’attenzione c’è l’acqua: il Po è in secca, l’Adige anche
e gran parte del resto del mondo pure. Nel PNRR non se ne parlava quasi;
adesso si corre (anzi si dice che bisogna correre) a costruire
desalinatori per produrre e dighe e invasi per salvare l’acqua che
manca. Ma non piove e non nevica e quando c’è la pioggia
arriva con tale furore che è impossibile trattenerla, assorbirla e
stoccarla; mentre dissalare l’acqua di mare richiede molta energia. Chi
la produrrà? Il sole e il vento o il gas e il carbone? Altro capitolo
aperto.
Nessuno però dice che l’acqua che c’è si può risparmiare, intanto
rifacendo canali e tubature che ne perdono il 40 per cento: se ne parla da
trent’anni, ma anche il PNRR non prevede gran che in proposito. Poi
recuperando negli abitati l’acqua piovana con canalizzazioni separate
da quelle di fogna. Poi con un’agricoltura diversa e una riduzione
degli allevamenti intensivi (consumano il 70 per cento di quel 70 per
cento di tutta l’acqua disponibile che viene inghiottita da un’agricoltura
industrializzata). Poi imparando a usarla meglio nella vita quotidiana.
Poi… poi adoperandosi per non essere più negazionisti di fatto.
Ma i fiumi sono in secca perché ad alimentarli non ci sono più i
ghiacciai. Anche in montagna non nevica, fa caldo e i ghiacciai scompaiono.
A valle l’agricoltura dovrà imparare a usare meno acqua. A monte sciatori e
operatori turistici dovranno imparare a fare a meno della neve. Che problema
c’è? Si fa la neve artificiale. E giù a moltiplicare gli impianti,
le piste, i laghetti (in concorrenza con quelli che dovrebbero far rivivere i
fiumi in secca), i cannoni sparaneve. Ma sopra zero gradi neanche la neve
artificiale si forma. La fanno solo in Arabia Saudita, per creare una pista nel
deserto dentro un tunnel. Tra qualche anno lo sci si potrà fare solo lì. O a
Pragelato (Piemonte), dove si progetta di fare un tunnel. Non sarebbe meglio
imparare fin da ora a vivere in modo diverso quel che resta delle montagne?
E l’energia? Dovrebbe essere tutta rinnovabile entro il 2050, ma i nuovi
impianti procedono a rilento. Intanto, sospinto dalla guerra alla Russia che lo
forniva a prezzi d’affezione, va a pieno ritmo il gas. Anzi,
l’Italia diventerà, ben oltre il suo bisogno (in realtà già lo è), un ”hub” del
gas per tutta l’Europa. Sospinta dalla lobby del gas (in Italia, leggi Eni, il
vero padrone del Paese, che passa indenne da un governo all’altro), l’Unione
Europea ha deciso che il gas è una fonte energetica di transizione (ma a che
cosa?). Quando gli impianti (tubi, rigassificatori e flotte gasiere) in
progetto saranno pronti la crisi climatica avrà ormai superato la soglia
dell’irreversibilità e quegli impianti saranno da buttare e con loro, anche la
vita “agiata” a cui siamo abituati.
Ma anche in questo caso l’unica fonte energetica a cui non si pensa
e non si provvede – se non con misure sporadiche e casuali quanto
costose, come il “110 per cento” – è il risparmio, cioè l’efficienza in
tutti i campi, che potrebbe ridurre anche del 40 per cento gli attuali
fabbisogni. Invece, dietro al gas occhieggia il nucleare (anch’esso
riammesso dall’Unione come fonte di transizione) che piace a Salvini perché è
costoso, inutile e pericoloso come e più del Ponte sullo Stretto. Ma non se ne
può fare a meno, perché di energia elettrica avremo sempre più bisogno per
alimentare una flotta di 35 milioni di automobili da riconvertire
all’elettrico!
Qui si apre un nuovo capitolo. Tutti (dalla Fiom a Salvini) a
deplorare il fatto che l’auto elettrica contiene meno pezzi e richiede meno
manodopera di quella a combustione. Nessuno a ricordare che persino
l’Unione Europea ha stabilito che entro il 2050 il parco veicoli dovrà diminuire
del 60 per cento. Dunque, se si rispettasse questo obiettivo a cui nessuno
crede (e meno che mai i burocrati che l’hanno introdotto) la riduzione
dell’occupazione nel settore dovrebbe andare ben oltre quella connessa al
passaggio all’elettrico. E lo farà comunque perché la crisi climatica
costringerà un numero crescente di persone ad andare a piedi (o a non spostarsi
più) perché nel frattempo non saranno stati varati sistemi di trasporto
pubblico o condiviso alternativi all’auto privata, elettrica o no.
D’altronde – qui hanno ragione Salvini e il branco di giornali di destra
che gli fanno eco – l’auto elettrica presenta ben pochi vantaggi
rispetto a quelle attuali. Consuma di meno, ma produce la stessa quantità
di CO2 se l’elettricità continuerà a venir prodotta, in tutto o in parte, con i
fossili; ma produce quasi la stessa quantità di inquinamento (particolato), che
per l’80 per cento è generato non dagli scappamenti ma dall’attrito dei
pneumatici e dei freni (e continuamente risollevato dal rotolamento delle
ruote). Soprattutto ingombra quanto l’auto tradizionale, trasformando vie e
piazze in parcheggi e camere a gas, devastando la socialità di strada, la vita
dei bambini e degli anziani (ma anche quella degli adulti) e allontanando per
sempre l’obiettivo, questo sì ecologista, della città dei 15 minuti.
Eppure l’auto elettrica, simbolo della continuità del nostro stile di vita
prima e dopo la “transizione energetica” continua a essere al centro delle
preoccupazione degli ecologisti: la cartina al tornasole del fatto che non
hanno né capito né accettato l’idea della conversione ecologica. Sono e restano
dei negazionisti di fatto. Inutile dire che un discorso analogo vale per tutti
i natanti da diporto (dagli yacht di superlusso ai barchini fuoribordo, crociere
comprese), nonché per tutti gli aerei privati, vero accaparramento del cielo da
parte dei superricchi. Ma è il trasporto in generale, sia di merci che di
passeggeri, come ha fatto notare Federico Butera a proposito del Ponte sullo
Stretto, che è destinato a subire un drastico ridimensionamento: sia che si
proceda in questa direzione con il progressivo potenziamento dell’economia
circolare, che renderà esuberante gran parte della rete stradale, sia, com’è
probabile, che ci si arrivi nel caos, per le rottura delle catene di fornitura
indotte dalla crisi climatica e da tutto il disordine ”geopolitico” (leggi
guerre) che ne conseguirà.
Anche sugli edifici sarebbe possibile promuovere, con l’efficienza, un
risparmio energetico sostanziale, a patto che accanto agli obiettivi fissati
per legge dall’Unione Europea (quelli contro cui urla la Lega di Salvini,
tacciandola di essere una “patrimoniale” – non sia mai! – sulla casa) si varino
a livello locale dei piani che non affidino al caso, come ha fatto il “110 per
cento”, la messa a norma di qualche edificio, ma mettano invece in grado ogni
proprietario, ogni condominio, ogni struttura, di disporre di un progetto
organico che ne affronti tutti gli aspetti, dall’isolamento di pareti e
infissi alla fornitura attraverso la costituzione di comunità
energetiche, dall’efficientamento degli impianti alle regole di condotta e
al finanziamento, ecc. Non succederà.
Ma che senso ha, avrebbe, promuovere la conversione energetica in un Paese
solo, quando il resto del mondo (e soprattutto le economie emergenti, che ne
rivendicano il diritto, perché non è a causa loro che si è arrivati a questo
punto) continuerà a produrre imperterrito gas di serra e devastazioni
ambientali che incidono su tutto il pianeta, noi compresi, portandolo allo
stremo? Ha senso, posto che ci sia una possibilità di sopravvivere anche nelle
condizioni estreme in cui ci si verrà a trovare. Perché le misure di
mitigazione delle cause di alterazione del clima che il negazionismo di fatto
evita accuratamente di adottare, e anche solo di volere, sono anche tutte
misure di adattamento alle condizioni ostiche del “nostro comune futuro”.
Piccolo è bello: produzione e consumo di materiali, di suolo e di acqua,
sprechi e produzione di scarti e rifiuti dovranno comunque ridursi
drasticamente; i trasporti di merci saranno meno voluminosi e frequenti; i
viaggi più impegnativi e sensati; gli impianti di generazione elettrica più
differenziati e più distribuiti sul territorio; le città più compatte e gli
spazi pubblici più liberi; la solidarietà più necessaria per affrontare le
difficoltà di ogni giorno. Chi (le città e i territori) si sarà attrezzato per
tempo per queste cose avrà più possibilità di sostenere una vita decente e di
accogliere anche le persone costrette a fuggire dal loro Paese reso invivibile
forse per sempre.
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