“Siamo l’ultima generazione che può agire concretamente per bloccare il suicidio collettivo e garantire un futuro”. Apre con queste parole il sito di Ultima generazione, il movimento ecologista protagonista di recente di atti di protesta non violenta e di disobbedienza civile. Subito sotto si legge: “Le lobby del fossile faranno di tutto pur di mantenere i loro profitti e condanneranno a morte milioni di persone, se necessario. Abbiamo il dovere morale di ribellarci a questo genocidio programmato. Se non protestiamo, se accettiamo questo crimine senza ribellarci, ne saremo complici”. Insieme con le iniziative di Extinction Rebellion, altro movimento ecologista che pratica come metodo la non violenza e la disobbedienza civile, le azioni di Ultima generazione hanno riportato il tema della crisi ecologica se non proprio al centro almeno dentro il perimetro della discussione pubblica.
Perimetro
dal quale quel tema era uscito (o comunque era stato marginalizzato) per
effetto del terremoto geopolitico innescato dalla guerra in Ucraina. Che si
riprenda a discutere sulle soluzioni possibili per arginare danni che
potrebbero rivelarsi devastanti, è un bene. Anche se la strada è stretta e in
salita.
La
ventisettesima Conferenza delle parti (Cop 27) fra gli Stati che hanno
ratificato la Convenzione quadro delle Nazioni unite sui cambiamenti climatici,
tenutasi lo scorso novembre a Sharm el-Sheikh in Egitto, ha fatto registrare
pochissimi passi in avanti, quasi tutti annullati dal ritorno massiccio
all’utilizzo dei combustibili fossili e, in prospettiva, del nucleare seguito
al conflitto tra Kiev e Mosca. Sul piano strettamente istituzionale – definito
dai trattati internazionali, dalle politiche degli Stati nazionali e dalle
strategie di attori economici e finanziari globali – siamo allo stallo. Tutto è
di fatto fermo, a fronte di un orizzonte eco climatico che non smette di essere
allarmante.
In una
situazione del genere non c’è da stupirsi se i movimenti che contro gli effetti
del cambiamento climatico si battono intensifichino la loro azione. Esiste, a
livello internazionale, una costellazione varia che occupa il campo delle
battaglie ambientaliste, con contenuti e metodi più o meno radicali. Si va dagli
orientamenti più moderati (trovare soluzioni all’interno di un quadro che
confermi nella sostanza rapporti sociali ed economici consolidati) sino a
strategie che legano la soluzione della crisi climatica alla cancellazione
dello stato di cose presente e al suo superamento in un ordine di rapporti, tra
gli umani e tra gli umani e gli equilibri della biosfera, radicalmente
differente.
A supporto
di questa seconda tendenza esiste una produzione teorica che non sempre ha
ricadute diciamo di movimento e che invece più spesso si articola in ricerche e
in dibattiti che restano nei confini dell’accademia, delle università, dei
centri di ricerca, delle riviste. È un universo vasto e multiforme, su un
segmento del quale getta luce un testo appena pubblicato da Ombre Corte e
curato da Andrea Ghelfi: Connessioni ecologiche. Per una politica della
rigenerazione leggendo Haraway, Stengers e Latour” (159 pagine, 14
euro).
A dipanare
la matassa di fili che congiungono i tre studiosi, Connessioni
ecologiche convoca una squadra di studiosi composta da Carlotta
Cossutta, Angela Balzano, Miriam Tola, Elisa Virgili, Francesco di Maio, Mirko
Alagna, Gilberto Pierazzuoli, Nicola Capone, Michele Bandiera ed Enrico
Milazzo. Che cosa leghi Latour (il pensatore che in sociologia ha ridefinito in
maniera radicale il concetto di azione sociale), Haraway (esponente di primo
piano del pensiero femminista dei gender studies) e Stengers (critica radicale
delle pretese autoritarie del pensiero scientifico occidentale) lo spiega
Ghelfi nell’introduzione: “Tra le diverse prospettive teoriche che ci aiutano a
pensare il problema della rigenerazione ecologica quelle di Haraway, Latour e
Stengers mi paiono particolarmente efficaci in quanto in grado di coniugare una
critica dell’umanesimo moderno con una comprensione dell’ecologia oltre la
dicotomia natura-cultura”.
Al centro,
quindi, il superamento dell’umanesimo moderno, in un passaggio epocale che
rende possibile una visione dell’ecologia e dei suoi temi fuori e oltre le
opposizioni che il pensiero occidentale ha istituito nel corso del suo
sviluppo, a cominciare da quella tra natura e cultura.
In Latour
questo movimento si traduce in una radicale ridefinizione del concetto di
azione sociale. “Il reale – nota Alagna a proposito del nocciolo duro del
pensiero del teorico francese, è un reticolo di relazioni, connessioni,
giunture, mediatori, in cui le entità individuali affiorano come assemblaggi
che esistono fintanto che agiscono – finché cioè tengono fronte alle forze
disgreganti che attirano verso altre composizioni”. Ciò che veramente esiste
non sono gli individui o la natura (tantomeno esiste separatezza tra i due
ordini), ma assemblaggi, ibridi in cui soggetti umani,
manufatti umani e equilibri biologici si compongono e si scompongono continuamente,
in perenne e reciproca tensione.
Allo stesso
modo, rileva Gheffi, “Haraway vede nell’esaurirsi della cultura dell’umanesimo
moderno e nel simultaneo decentramento dell’umano rispetto al mondo materiale,
alle tecnologie e ad altre specie una condizione di possibilità per
sperimentare composizioni socio-materiali più ricche e convivenze multispecie
più sostenibili”. Gli ibridi di Latour e il cyborg di
Haraway sono concettualmente affini. Stengers, infine. Il volume pubblicato da
Ombre Corte termina con un pezzo della studiosa belga, intitolato L’arte
di osservare, che è la prefazione all’edizione francese (2017) del
libro dell’antropologa Anna Tsing Il fungo alla fine del mondo. La
possibilità di vivere nelle rovine del capitalismo (Princeton University,
2015).
Tsing dà
conto di una ricerca sui raccoglitori di funghi nei boschi dell’Oregon. Non
funghi qualsiasi, ma esemplari di una varietà particolare molto amata dai
giapponesi (che la chiamano matsutake) e di fatto estinta nelle
isole del Sol Levante per la scomparsa delle foreste che ne erano l’habitat
naturale, tanto che è soltanto grazie all’importazione dagli Usa che nei
ristoranti di Tokyo può ancora essere gustata. Tsing racconta (il verbo
raccontare è il più appropriato) l’intreccio fra tre dimensioni distinte: le
vite border line dei raccoglitori; la compromissione degli equilibri ambientali
sia nelle terre marginali in Oregon sia nelle aree di urbanizzazione intensiva
in Giappone; le dinamiche dei mercati globali.
Sono “storie
intrecciate di contingenze”, come le definisce Strangers, che precisa: “Nel
lavoro di Tsing le frizioni che collegano i luoghi a interessi e prospettive
divergenti lasciano il posto a questi stessi luoghi e a coloro che li popolano
[…] Non più la Natura o l’Uomo, ma persone e alberi che fanno la storia gli
uni con gli altri, gli uni attraverso gli altri, e mai indipendenti dalle
loro connessioni con altri ancora”. “Noi sappiamo, voi credete
– nota ancora Ghelfi –. Questo è il motto dell’alleanza del Progresso”. Niente
di più distante dall’ecologia delle pratiche comuni di Stengers. “Che invece ci
suggerisce – specifica Ghelfi – modi per radunarci attorno a ciò da cui
dipendiamo: un fiume, una foresta, una scuola, un consultorio, un campo
coltivato. Ci invita a pensare a come le situazioni possono essere trasformate
se coloro che le subiscono trovano tecniche e pratiche per pensare e agire
insieme”.
Contro le
teorie generalizzanti e omologanti attraverso le quali l’alleanza del Progresso
costruisce consenso intorno a pratiche di violenza e di distruzione, i tre
autori oggetto dell’attenzione di Connessioni ecologiche prefigurano
– in un campo in cui ecologismo, femminismo e analisi post coloniale si
incrociano e dialogano – un’alternativa che è fatta di pensiero antiautoritario
e non violento e di pratiche dal basso capaci di costruire e di agire
esperienze comuni in situazioni determinate. “Storie intrecciate di
contingenze”, appunto, aperte a esiti multipli, non scontati, compreso quello
del fallimento. Ancora Stengers: “Si tratta di imparare a vivere tra le rovine.
[…] Le rovine sono ovunque. Il miracolo del libro di Tsing è che lei non ignora
nulla di tutto ciò. Non ci promette nulla. Ma il suo modo di scrivere, al tempo
stesso poetico e preciso, ci impedisce di disperarci, perché rende presenti
i mondi multipli e aggrovigliati che, con o senza di noi,
anche nelle nostre rovine, i viventi continuano a fabbricare l’uno con
l’altro”.
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