Capitalismo razziale. Questa è il
sistema che tiene insieme i decreti flussi che l’estrema destra vuole rinnovare
e le idiozie sulla sostituzione etnica. La criminalizzazione dei salvataggi in
mare e le affermazioni sui migranti annegati a Cutro.
Qualche morto, alla spicciolata, è una
«statistica», al più un evento legato alla sorte avversa, 70 o più, tutti
insieme, sono una tragedia. Nella logica dello spettacolo, il caso eccezionale
assolve la normalità del massacro a mezzo di legge. Si piange una volta e si
evita di fare i conti con tutte le volte che altri migranti sono morti. I
responsabili delle politiche delle frontiere dovranno fingere che qualcosa non
vada nella strategia della persecuzione delle ong: bisogna «andare a
prenderli». 100.000 o 500.000, con i decreti flussi e accordi bilaterali.
Quanto serve al mercato del lavoro. Vanno comunque educati, specifica il
ministro dell’Agricoltura Lollobrigida. Sia mai.
Alcuni economisti ci avevano spiegato
che i migranti servono per i lavori che «gli italiani non vogliono fare». Come
se altre nazionalità non vedessero l’ora di fare lavori precari, pericolosi e
mal pagati. Ignorando che sono i datori di lavoro e lo Stato a creare queste
condizioni.
Nelle narrazioni ottimistiche sulla globalizzazione e i flussi, mercati liberi
e migrazioni vanno insieme. Anche se, al contrario, i muri fisici e legali si
sono moltiplicati, aggiornando quello che è sempre stato un capitalismo delle
differenze. Un capitalismo che, accanto alla caccia alle streghe e
all’«accumulazione originaria dei corpi» necessaria a naturalizzare la
femminilizzazione della riproduzione sociale (Silvia Federici), ha fatto della
discriminazione razziale un importante strumento di sviluppo. È servita nelle
colonie a dividere razzialmente il lavoro per mansioni e forme di impiego
(schiavistico, vincolato, a contratto).
È servito per dividere lavoratrici e
lavoratori in patria. È servito ovunque per garantire privilegi differenziali
con cui compensare paghe e condizioni di vita miserabili. Tutto ciò è stato
possibile perché, nell’instabilità determinata dalla mobilità sociale moderna,
il razzismo funge da dispositivo di costruzione identitaria. Come il meccanismo
sessista, serve a eternare e spiegare dei rapporti sociali sancendo delle
appartenenze e delle esclusioni irrimediabili.
Le politiche migratorie e il razzismo istituzionale servono a filtrare forza
lavoro, a renderla ricattabile e, più in generale, a governare la società. Si
può arrivare in Italia, illegalmente o legalmente, ma solo per i lavori meno
garantiti. E, quando serve, si viene ricacciati indietro. E la condizione
comunque è precaria. L’ascesa sociale è vietata. Nello spazio pubblico, il
panico morale contro i pericoli rappresentati dai migranti e l’odio razziale
sono legittimi contro l’«egemonia della sinistra culturale» e il politicamente
corretto.
Il termine «capitalismo razziale» non
indica un sistema in cui la «razza» viene sempre e comunque messa a valore, né
intende spiegare il razzismo con la sola struttura economica. La categoria fu
introdotta nel Sud Africa dell’apartheid per affermare che non necessariamente
il capitalismo omogeneizzi le differenze e sia sempre universalista. Al
contrario, può svilupparsi attraverso l’eterogeneità delle forme di estrazione
del valore. Poi prese a circolare grazie a “Black Marxism”, l’opera di Cedric
J. Robinson sul pensiero radicale nero e sul rapporto tra classe e ‘razza’
nella storia europea e statunitense. Sosteneva che il razzismo precedesse il
capitalismo moderno ma che, a sua volta, questo se ne sia servito per
affermarsi su scala globale. Oggi, dopo Black Lives Matter, serve a denunciare
la persistenza della discriminazione razziale nell’accesso alle risorse
materiali e simboliche e la violenza delle istituzioni repressive. Se ne parla
anche in relazione alle disuguaglianze postcoloniali, riprodotte in nuove forme
e giustificate secondo supposte arretratezze culturali o cattive disposizioni
comportamentali. Si usa infine rispetto alla cd classe operaia bianca,
beneficiaria – più o meno virtualmente – dell’orgoglio di non essere al fondo
della società e di avere alcuni privilegi relativi – non certo assoluti.
Odiare chi sta sotto serve anche a
evitare di lottare insieme contro chi sta sopra. Il governo Meloni forse lo sa.
E per questo rilancia la crociata anti-gender. Perché una classe
intersezionale, che costruisca una coalizione a partire dalle differenze che la
compongono, potrebbe metterlo in difficoltà. E perché il diritto alla fuga
praticato dai migranti incrina la comunità immaginata e il nazionalismo
marziale dei postfascisti.
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