L’ultima follia anglosassone, rappresentazione perfetta del pressapochismo che si ammanta di “verità scientifica” – il massimo riconoscimento della nostra epoca –, sta tutta nella battuta finale che suggella l’ultima ricerca dell’Università di Harvard: “La solitudine uccide”. Così afferma il direttore dell’indagine, Robert Waldinger, che si proponeva assieme ai suoi colleghi l’umilissimo compito di “scoprire cosa veramente conduca a una vita felice”. Ne dava notizia il Corriere della Sera, che dedicava all’ambizioso programma inglese il suo corsivo del giorno, lo scorso 27 febbraio. Il titolo? “Amore e salute sociale sono la ricetta per una vita felice”.
Ora, al di
là della banalità della risposta, degna del più sdolcinato Bacio Perugina, ciò
che colpisce non è soltanto l’approvazione entusiastica del corsivista. Come se
ci volesse l’erudizione prosaica di qualche camice bianco per divulgare la
sconvolgente notizia che amore e salute possono giovare all’uomo.
Ciò che
colpisce di più è il controcanto della notizia, l’argomento che viene usato
come esempio di pratica nociva e foriera, evidentemente, di infelicità: la
solitudine. Non ci vogliamo qui ergere a paladini del silenzio, dell’esercizio
difficile e necessario della convivenza appartata con sé stessi – per quanto la
tentazione sia molto forte. Piuttosto, la suddetta ricerca conferma ancora una
volta ciò che Paul Valéry scriveva poco più di cinquant’anni fa, con prodigiosa
abilità profetica.
Dappertutto
scintilla e agisce la critica degli ideali che hanno permesso all’intelligenza
il piacere e le occasioni di criticarli. Come inattesa conseguenza dei suoi
pensieri più forti, l’uomo può ridiventare un barbaro di nuova specie. (…) Le
conquiste della scienza positiva ci stanno conducendo o riconducendo a uno
stato di barbarie che, per quanto laborioso e rigoroso, sarebbe ancora più
temibile delle barbarie antiche, proprio perché più esatto, più uniforme e
infinitamente più potente. Ritorneremo così all’era del fatto, ma del fatto
scientifico (Paul Valéry, Introduzione alle Lettere persiane di
Montesquieu, Gallimard, 1957)
“La critica
agli ideali che hanno permesso all’intelligenza il piacere e l’occasione di
criticarli”. Come non sentire in queste parole un’assonanza con l’invettiva
dell’Università di Harvard contro la solitudine? Non è forse dalla solitudine,
dalla meditazione profonda e faticosa e mirabile con la propria interiorità,
che la Civiltà ha partorito le sue opere più feconde, attraversando secoli di storia
e giungendo fino alle nostre mani ingrate? Mentre ora, con il marchio sicuro
della verità scientifica, del sapere esatto di una ricerca, con tre sole parole
vengono destituiti di significato secoli di produzione scritta e orale che di
quella solitudine hanno fatto una complice fidata. Perché la solitudine “fa
male”. E per questo va condannata.
Ma,
esattamente com’è accaduto alla solitudine, anche la felicità sembra destinata
a un’identica usurpazione. Perché, appena scaviamo sotto la superficie limpida
di un luogo comune, siamo obbligati a chiederci: che cosa hanno in mente i
professori di Harvard quando usano con nonchalance il
sostantivo “felicità”? Una sorta di assenza di dolore, di atarassia dal
retrogusto epicureo? Una voluttà corporea? Uno stato di impassibile quiete?
La
“felicità” che hanno in mente i dotti periti in questione non è altro che la
“felicità” che promette ogni spot televisivo: qui nascosta con perfidia dietro
il più nobile vestito della “ricerca scientifica”. Entrambe implicitamente suggeriscono
che l’acme della felicità umana si possa comprare od ottenere per vie semplici,
spesso (guarda caso) di natura economica. Entrambe sacrificano
l’approfondimento sull’altare degli slogan. Per fortuna che, in un’epoca dove
il silenzio e la solitudine sono luoghi che approssimano un’utopia, per fortuna
che c’è la scienza a ricordarci che siamo “felici”. Stavamo quasi per piangere.
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