“La normalità non tornerà più”, dice lo scrittore di Harlem Darryl Pinckney, innanzitutto perché la realtà non è mai stata normale. Eravamo neri e oggi siamo più neri che mai. Eravamo queer e oggi siamo più queer di prima. Forse è una buona notizia. La verità vale più della pubblicità. Il futuro non è una pagina bianca, ma un manoscritto respinto e non pubblicato, gettato in fondo alla spazzatura digitale planetaria. Si dice che la materia oscura, anche se invisibile e impossibile da misurare con strumenti ordinari, rappresenti almeno l’85 per cento di tutto l’universo. Siamo come la materia oscura della storia, che ingloba ogni cosa eppure è ancora inesplorata. Ed è la materia oscura a riemergere. La spazzatura è troppo piena. E i versi, vivi, si arrampicano verso l’alto.
Ovunque vada, camminando per strada o vagando nel metaverso, vedo solo
giovani trans e non-binari. Sul petto portano due linee rosse disegnate, una
accanto all’altra, o germogli nutriti da battaglioni chimici. I loro nomi non
sono assegnati, ma scelti. I loro piaceri non sono prevedibili, ma inventati.
Ovunque mi portino le mie peregrinazioni, attraversando gli stretti o navigando
online, noto solo corpi di migranti in fuga dalla mancanza di senso, dalla
povertà, dalla guerra, dal patriarcato. La mancanza di senso. Non ho mai
praticato la riproduzione sessuale. Di conseguenza essə non possono essere miə
figliə. Nessuno pensava che la creatura di Frankenstein potesse riprodursi o
creare una discendenza. Il mostro deve morire, dicevano.
Il futuro non è un’affermazione di vittoria
Ma gli eventi meravigliosi e soprannaturali non sono così rari. Al massimo sono
irregolari nella loro incidenza. Lontano dalla copia genetica, al di fuori di
qualsiasi eredità possibile, essə sono il meglio che io abbia mai potuto
sognare. Un cut-up straordinario delle uniche parti
ancora vive della vecchia cultura. Sono miracolate dell’abisso necropolitico.
Non sono esattamente uno di loro, perché sono vecchio e ho già vissuto per lo
meno metà della mia vita nera da larva. Ma divento uno di loro in
un’enunciazione collettiva del desiderio.
Per questo dico che “noi” siamo il futuro. Se qualcosa è ancora possibile,
accadrà oltre lo stato nazione, oltre la catena produzione-consumo, oltre il
mercato. Al di là della famiglia normativa. Al di là delle tassonomie razziali.
Al di là del binarismo di genere. Ma ancora non è stato fatto nulla. Il futuro
non è tanto un’affermazione di vittoria, quanto il bilancio di una battaglia
persa. Chi può dire di aver vinto questa cazzo di battaglia, se la vita l’ha
persa?
Anche se tutte le battaglie dell’umanità contro se stessa sono perdute in
partenza, la guerra in Europa e altrove non si ferma. È più letale che mai, con
nuove modalità e pratiche che pensavamo ormai superate. Sì, noi siamo il
futuro, ma il futuro è ferito a morte, malato. Il futuro ha sete, è illegale. È
quasi morto.
E sì, siamo centinaia di migliaia, siamo ovunque, siamo il futuro. Ma il
futuro è anche analfabeta. Trascorsero più di due secoli tra la data del 1454
in cui Gutenberg stampò le prime bibbie in lingua volgare a 42 linee e il
momento in cui almeno metà della popolazione di un paese sapeva non solo leggere
ma anche scrivere. Durante quegli anni di transizione, la stampa era diventata
progressivamente la prima tecnica di promozione della spinta coloniale e il
supporto pubblicitario delle dittature più bislacche. Solimano il Magnifico
ordinò la distribuzione del suo ritratto imperiale su fogli stampati. Le leggi
di proprietà sul territorio americano, scritte in spagnolo e in portoghese,
furono diffuse facilmente grazie alla stampa.
Allo stesso modo, ora che le tecnologie digitali hanno sostituito il libro,
noi analfabeti digitali pensiamo di esistere all’interno dei social network,
anche se non ne siamo nemmeno utenti. Non ne siamo nemmeno semplici
consumatori. Siamo diventati prodotti. Fino a quando non impareremo a
programmare, non sarà possibile alcuna riappropriazione delle nuove macchine
digitali che inventano la realtà. Nel frattempo il futuro scappa e il potere
esegue il proprio programma.
Sì, siamo il futuro, ma il capitalismo sembra più giovane e in condizioni
di salute migliori di quelle di noi tuttə. Le nuove miniere digitali sono ormai
a portata di mano. Non saliamo mai in superficie perché non abbiamo bisogno di
scendere. Viviamo lì dentro. Lo sfruttamento assume la forma della vita stessa,
la forma dei nostri corpi, i mezzi della nostra coscienza. Chi si preoccupa
della pensione quando il lavoro non esiste più? Poteva essere una buona
notizia. Si potrebbe creare valore condividendo la superabbondanza
d’immaginazione collettiva anziché espropriare e privatizzare il mondo. Come
nel 1492, all’inizio della transizione verso il capitalismo coloniale, oggi non
esiste più alcuna separazione tra l’economia, la religione e la politica. Se
alla fine del medioevo il principio teologico dominava sugli altri, oggi il
principio economico dell’aumento degli introiti per gli azionisti ha scalzato
dio, lo stato, la chiesa, la famiglia, l’esercito… e perfino il popolo. Solo la
mafia (all’interno o all’esterno dello stato, della chiesa, della famiglia o
dell’esercito) sopravvive ancora. Le nuove cattedrali sono fatte di
informazioni e lo schermo è l’unica fede rivelata. Allora certo, noi siamo il
futuro, ma il futuro è disoccupato.
E malgrado tutto, questo è il nostro tempo. Non abbiamo avuto fortuna,
ragazzi miei. È il tempo dei resti, delle rovine, degli scarti e dei
sopravvissuti del produttivismo, del patriarcato, del binarismo eterosessuale,
del razzismo gerarchico, del complesso carcerario, dell’industria farmaceutica,
dell’impero digitale pornografico, della sorveglianza internazionale, del
viaggio coloniale, in America come nello spazio…. Questo è il nostro tempo, un
tempo che è malato, assetato, bruciato, analfabeta, smarrito e quasi morto. Ma
è comunque il nostro.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
Questo articolo è uscito sul quotidiano francese Libération.
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