venerdì 10 marzo 2023

Sui vostri diritti e il vostro potere - Maria Galindo

 


Vi propongo uno scambio: diritto di voto con diritto a una ridefinizione radicale di cosa si intende per politica.

Baratto quello che chiamano “matrimonio egualitario” con l’abolizione del matrimonio.

Scambio il diritto all’iscrizione del reato di femminicidio nel codice penale con il diritto a non essere assassinate.

E suggerisco che se vi preoccupa il traffico di esseri umani, mi rivolgo in particolare alle donne spagnole ed europee qui presenti, lottate per l’abolizione della Ley de Extranjeria. Questa lotta non si dà nel contesto politico nazionale perché questo non si decide qui.

Questo preambolo non è retorico, ma un invito sedizioso a chiederci: che vogliamo fare? Cosa possiamo fare? Non cosa fare con i diritti, ma cosa fare con la politica.

Non posso negare che l’invito venuto da un Ministero mi ha sorpreso.

Vi ringrazio, sono qui perché non posso concedermi assolutamente il lusso di prescindere da alcuno spazio di parola, perché vengo da un Paese che non esiste sulla mappa del mondo, dove sono considerata una paria e il mio lavoro è soggetto a continue denunce e persecuzioni.

A questo Tavolo dei Diritti Umani mi sento fuori posto.

Il mio lavoro non è inquadrato all’interno di quelli che chiamano Diritti Umani.

E mentre lo dico mi chiedo: cosa diavolo intendono per Diritti Umani?

Chiamano spesso Diritti Umani quell’insieme di lotte pericolose e sovversive, che per la loro forza non possono essere cancellate, ma che anche per la loro pericolosità per l’ordine sociale costituito preferiscono classificare come lotte per i diritti umani.

Preferiscono premiarle e addomesticarle. Con l’etichetta di Diritti Umani cercano di depoliticizzarle, ammorbidirle ed espellerle dal campo a cui appartengono realmente, che è il campo dell’invenzione di nuove forme e radici della politica.

Il mio impegno non è la lotta per i diritti umani, ma l’invenzione di pratiche politiche femministe di massa, dal basso e dall’esterno dello Stato, pratiche che hanno la forza di costruire una gigantesca empatia sociale femminista e antifascista. È a questo che mi dedico, è questo ciò che mi infanga dalla testa ai piedi, ma è questo anche ciò che mi permette di lasciare una traccia storica nel mio Paese.

Ho la capacità di farmi capire da una società intera e di aggiungere speranza lottando per cose molto concrete e piccole che lo Stato e i partiti politici disprezzano considerandole sciocchezze e che io chiamo invece politica concreta. Sono una seminatrice di speranza e sto raccogliendo speranza.

Ritengo che la comprensione dei femminismi come lotta per i diritti sia una trappola consumata in cui non dobbiamo cadere.

Non si tratta del fatto che ai Diritti Umani manchino i diritti delle donne per essere completi.

E nemmeno che, in chiave intersezionale, ai diritti delle donne manchino i diritti delle donne espulse dall’universo eterosessuale bianco.

Il problema non sono i diritti per le lavoratrici del sesso, per le lavoratrici domestiche o per quelle che vengono malamente definitite migranti. E poi perché parlano di migranti? Le migranti non sono altro che donne esiliate da economie neoliberiste in cui non c’è lavoro. Le migranti non sono altro che donne espulse da territori di saccheggio ecocida da cui si può solo fuggire.

Il problema non è aggiungere diritti ai Diritti Umani per renderli più umani. Non venite a offrirmi diritti.

Mettere in agenda diritti, settore per settore e universo per universo, in una sorta di racconto epico di ricerca di ripartizione o espansione dei diritti da parte degli Stati è perdere un tempo storico, energia vitale, creatività politica e capacità che è invece urgente spendere per un altro progetto e da un’altra parte.

E poi, come se non bastasse, continuare a parlare di diritti significa annoiare la gente ed essere complici nel provocare l’apatia sociale generalizzata dovuta all’assenza di illusioni mobilitanti.

Non c’è politica, oggi, c’è la privatizzazione della politica.

Non c’è democrazia, c’è machocrazia.

Non c’è democrazia, c’è una democrazia-spazzatura dove non c’è nulla che si decida con il voto.

Non ci sono elezioni, ci sono scenari di marketing elettorale .

Non ci sono stati nazionali sovrani, c’è un progetto sovrastatale coloniale capitalista al quale gli stati sono subordinati. Un progetto in cui i governi sono semplici amministratori.

Per questo dobbiamo parlare di politica e non di diritti.

Ma se proprio volete parlare di diritti, bisogna dire che essi sono retorici, perché enunciarli non è affatto la stessa cosa che esercitarli.

Se volete proprio parlare di diritti, bisogna dire che questo è un argomento sottoposto al ricatto: te li do, te li tolgo, oppure li taglio e mutilo.

Se ti danno dei diritti, non puoi mettere in discussione la struttura sistemica che te li concede. Perché i diritti ti mettono al posto di un cliente del sistema e non di un soggetto.

Se volete parlare di diritti, c’è da dire che sono segmentati per ordine di priorità e importanza, e che noi che siamo in fila ad aspettare i nostri siamo già stanchi di tanto rimando storico.

Se si vuole parlare di diritti, bisogna dire che il capitalismo ci ha tolto la sovranità sui nostri corpi, quindi dovremmo parlare di recuperare ciò che è stato perduto e non di ottenere il nuovo.

Il problema non sono i diritti che mancano ma la loro stessa definizione, la loro pretesa di universalità in un mondo pluriversale.

Non vi bevete la storia secondo cui “universale” significa per tutti, tuttə e tutte.

Universale vuol dire europeo, bianco, imperiale, coloniale e di un’unica matrice civilizzatoria intesa come unico modello di società e di democrazia che dobbiamo rispettare e copiare.

Abbiamo visto che anche i Diritti Umani servono come strumento di misura coloniale.

Ecco perché si possono criticare Maduro e Ortega, – ed è molto giusto, naturalmente, denunciarli e criticarli -, ma non si può denunciare ciò che fanno Israele o gli Stati Uniti.

Le violazioni dei diritti umani commesse in Europa o da Stati europei non contano come barbarie, non contano come stupro. Non possono essere denunciati come dittatura razzista, capitalista o come una dittatura ecocida ed estrattivista.

Qui il problema sono i padroni e le padrone dei Diritti Umani. Il problema è ciò che dichiarano “umano” rispetto a ciò che dichiarano “animale”, ciò che dichiarano legittimo e degno di vita rispetto a ciò che dichiarano “danno collaterale”.

Siamo in Europa. C’è un Mar Mediterraneo trasformato in una fossa comune dove, come accadeva nel XVI secolo, masse di persone vengono spogliate della loro condizione umana senza che nessuno, o comunque pochissimi, osino dire qualcosa, con il rischio di essere criminalizzati come Helena Maleno, accusata di tratta di esseri umani per aver tentato di salvare vite in mare.

Le organizzazioni per i Diritti Umani fanno un discorso perverso, che è una maschera per coprire la morte, che è un’ipocrisia necessaria affinché nessuno osi prendere coscienza di ciò che si sta realmente facendo.

In Perù si sta uccidendo, ma non si tratta di un problema nazionale di ingovernabilità. Accade perché l’ordine coloniale mondiale possa continuare il suo corso e quelle morti servano perché in tutta la regione andina si possa continuare a controllare l’estrazione di materie prime nelle condizioni che impongono gli Stati tedesco, cinese, russo o nordamericano. Sono imposizioni in cui lo Stato spagnolo svolge il ruolo di una guardia giurata alla porta della discoteca.

Il problema non sono i diritti, sono i mondi e i progetti politici.

Qui io sono fuori luogo.

Odoro di ají picante (il nome dei peperoncini in Sudamerica, ndt).

Il mio passaporto puzza di coca; sostanza resa illegale cosìcché in Colombia, Messico o Bolivia ci costi una sanguinosa guerra alla droga la cui unica soluzione possibile è la legalizzazione delle droghe e la depenalizzazione della foglia di coca di cui però ci si rifiuta di discutere. Sapete perché lo si fa? Perché le nostre morti non valgono nella contabilità delle violazioni ai Diritti Umani.

Odoro di litio.

Odoro di Amazzonia in fiamme.

L’odore dell’oro e dell’argento del XVI secolo non è ancora stato rimosso dal mio corpo.

Qui io sono fuori luogo.

Non voglio fare lobby a Ginevra per i diritti X, J o P.

Non voglio cercare un’udienza con i padroni dei Diritti Umani per dire che siamo umane e umani anche se veniamo dalla Bolivia, da Haiti o da qualsiasi altra destinazione cancellata dalla mappa dell’umanità.

Non voglio che si possano vantare con il mio lesbismo terzomondista e mi diano un sostegno internazionale che consiste in pacche sulle spalle in cambio del fatto che si possano sentire più civilizzati.

Mi dedico a pensare e costruire un progetto depatriarcalizzato, anticapitalista e anticoloniale, che travalica ogni discorso sui diritti; che si tratti di diritti di donne, animali, trans o froci.

Potrete accusarmi di aver perso la prospettiva del possibile.

Io vi accuso di annoiarmi.

Mi scuso per avervi mancato di rispetto tematico in questo modo.

Sebbene dicano che parliamo la stessa lingua, non sembra che ci capiamo.

Nei pochi minuti che mi avete concesso, questo è tutto quello che posso dirvi.

Concludo con una richiesta: mi piacerebbe che si cambiasse nome alla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani.

Vorrei che fosse chiamata così: Dichiarazione Arbitraria dei Diritti di Coloro che gli Europei Considerano Umani.

Il progetto non è prendere il potere.

Di fronte al potere non ti fai potente.

Di fronte al potere ti ribelli.

Il progetto è fare la rivoluzione.

Molte grazie.


Maria Galindo, co-fondatrice del collettivo Mujeres Creando e co-direttrice di Radio Deseo in Bolivia, è stata invitata al Tavolo sui Diritti Umani dell’ Encuentro Internacional Feminista tenuto a Madrid tra il 24 e il 25 febbraio, organizzato dal Ministerio de Igualdad della Spagna. Questo è il testo che ha scritto per il suo intervento, tradotto da marco calabria per Comune-info. Il video realizzato da El Salto Tv lo mostra integralmente. Maria è salita sul tavolo della presidenza e ha parlato a braccio, ovviamente con piccole modifiche su quel che aveva preparato.

da qui



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