lunedì 20 marzo 2023

Capitalismo carnivoro: è la bistecca che mangia noi, non il contrario - Diletta Coppi

  

Una tra le tante domande a cui fatico a dare una risposta completa è: “perché mangiamo la carne?”. Da quando ho iniziato a interrogarmi, la questione è diventata sempre più grande, finendo per coinvolgere una moltitudine di temi. È per cercare questa risposta che mi sono imbattuta in Capitalismo carnivoro di Francesca Grazioli. Questo saggio, edito da Il Saggiatore nel 2022, mette in luce i giochi di potere e le contraddizioni che stanno dietro all’atto del mangiare carne. Dentro alla bistecca che scegliamo di mangiare, infatti, si intrecciano questioni ambientali, di genere, antropocentrismo, disuguaglianze e ciò che Noemi Klein definisce “capitalismo dei disastri”, ovvero lo sfruttamento delle catastrofi e delle crisi come opportunità di profitto (privato!) e come ampliamento del libero mercato.

Il legame tra esseri umani e animali risale alla notte dei tempi, tanto che la nostra evoluzione come società si è basata anche sullo sfruttamento di questi ultimi, o meglio, sul cambio dei ruoli ricoperti dalle due parti: non più prede-predatori, bensì allevatori-allevati. Nel primo periodo della storia, il contesto in cui questa relazione si sviluppa è quello della fattoria a matrice familiare, ed è solo con lo sviluppo storico del capitalismo che l’industria animale conosce una crescita esponenziale.

Grazie al processo di industrializzazione, alla dislocazione dei macelli in luoghi in cui il costo della vita è più basso, alla globalizzazione, all’apertura dei mercati prima preclusi e all’abbattimento dei dazi per l’importazione dei mangimi, le proteine animali sono diventate una merce accessibile a sempre più persone. Questo abbattimento dei costi, però, ha delle conseguenze rispetto alle quali è difficile rimanere indifferenti e che impattano in modo diretto sulla crisi ambientale.

L’industria alimentare si è ben allontanata dall’immagine amena della fattoria e gli allevamenti intensivi sono ormai in modo conclamato una delle principali cause della crisi ambientale a cui stiamo assistendo, responsabili di emissioni di gas serra stimate tra le 4,6 e le 7,1 tonnellate. Per adesso le maggiori conseguenze del disastro ambientale ricadono sulle popolazioni più povere del pianeta, la cui voce trema di fronte agli abusi subiti dalle multinazionali che insediano le proprie industrie in queste zone attratte dal basso costo della manodopera. Le acque avvelenate dagli scarti industriali e gli uragani sono diventati scenari ricorrenti nelle comunità svantaggiate.

Distinguere un diritto da un privilegio

Se l’acqua potabile e l’aria pulita sono un diritto, perché non chiederci provocatoriamente se lo è anche il mangiare carne? Tra le visioni diffuse dal capitalismo la più sadica è sicuramente quella che inquadra la povertà come una colpa, da scaricare sui singoli individui per giustificare fino al paradosso i fallimenti di un sistema economico basato sul sopruso e sulla competizione truccata.

Così, mentre negli Stati Uniti il consumo di carne pro-capite è stimato a 101 kg annui, in Nigeria si aggira intorno ai 3,5 kg. È evidente che la carne sostiene un sistema di disuguaglianze, o che per lo meno ne è la spia: l’esclusione di una parte di mondo dal suo consumo è necessaria per l’abbuffata dell’altra parte. La disuguaglianza non si limita al divario tra il nord e il sud del mondo, ma si estende anche alle questioni di genere. L’antropologo Nick Fiddes sostiene che la funzione fondamentale della carne sia più simbolica che nutritiva: una sorta di emblema, di blasone del proprio dominio su ogni altro essere vivente. Dominio che si estende non solo agli animali non umani, ma anche a quelli umani, e possiamo osservare in piccola scala anche nel teatrino che avviene intorno a tutti i barbecue del mondo, dove i maschi, e solo loro, hanno il diritto di muoversi con sapiente e virile destrezza. Certamente il genere è un costrutto sociale, ma gli stereotipi intorno all’uomo forte che si nutre di carne ingrassano il costrutto stesso e tutte le relative gerarchie che ne derivano. Il dominio che esercitiamo sugli animali non umani ha come fine ultimo l’utilizzo di ogni parte del loro corpo all’interno di una logica di mercato che per il profitto giustifica tutto: la violenza, la tortura, l’oggettificazione.

Gli animali non umani sono sempre stati ad un livello più basso, ma non a tutti è riservata la stessa sorte: quelli da compagnia, infatti, sfuggono alla classificazione specista meritandosi un posto a sedere sui gradini più alti della piramide. La distinzione che facciamo all’interno del regno animale è sovrapponibile a quella attuata all’interno della nostra società in due modi: il primo riguarda il processo di consumo e oggettificazione vissuto dagli animali non umani, che secondo Carol J. Adams è lo stesso vissuto dalle donne; il secondo riguarda il processo di animalizzazione, che viene frequentemente utilizzato per negare a certe persone la dignità umana e giustificarne così l’esclusione dai diritti fondamentali garantiti alla nostra specie (tra cui quelli alla partecipazione politica, sociale e culturale). Le forme di animalizzazione usate dalla cultura occidentale nel corso della storia si sono rivelate necessarie per la riduzione in schiavitù di milioni di persone e per il colonialismo.

Ma allora perché mangiamo la carne?

Di fronte a queste, seppur brevi, riflessioni non è un caso se veniamo assaliti da un dilemma, una spaccatura interna vissuta come un’incoerenza. Lottiamo per la giustizia, l’uguaglianza, ci definiamo a favore della causa femminista poi però cediamo al consumo di carne. Questa dissonanza diventa ancora più grande se ci interroghiamo non solo sul perché la mangiamo ma se acquistiamo consapevolezza del fatto che mangiamo solo quella di alcuni animali non umani.

Mangereste mai il vostro cane? Ovviamente no e la risposta, secondo la psicologa Melanie Joy, sta nel carnismo: un sistema di credenze interne necessarie a sostenere questo specismo. La relazione che intercorre tra morale e dieta è complicata da razionalizzare poiché le variabili che entrano in gioco sono molte: abitudini alimentari, etica, questioni religiose, disponibilità economica, posizione geografica; ciò che è certo è che avere consapevolezza spesso si traduce in un agire più compassionevole e dunque in scelte più eque per gli animali, se stessi e il pianeta. Mangiare la carne è stato per molto tempo un lusso, nell’Italia del dopoguerra non era scontato potersi permettere un piatto di carne, lo è diventato con il tempo e non per tutti. Nei giorni di festa, invece, è un rito: non è raro che la portata principale sia a base di carne o, in caso del Natale, di pesce. La costruzione di un rapporto ritualizzato con la carne potrebbe essere una delle risposte al perché la mangiamo ma occupare questa abitudine in modo critico diventa necessario sia per avere un impatto meno dannoso sia per placare il senso di colpa che si elicita dalla presa di coscienza della nostra incoerenza.

Personalmente non ho ancora trovato una risposta esaustiva al motivo per cui mangiamo la carne, ma di certo il tempo dedicato a Capitalismo carnivoro di Francesca Grazioli mi ha permesso di assimilare concetti basilari sull’etica del non farlo. Sono molti gli studi che hanno dimostrato le brillanti capacità cognitive di maiali, polli e pesci, queste però non sembrano essere sufficienti a farceli percepire come nostri pari. Diviene dunque essenziale abbandonare la dicotomia noi-loro, al fine di contrastare l’individualismo e l’antropocentrismo figlio della visione prima aristotelica e poi cartesiana dell’essere umano, che ci vede gli unici in diritto di fregiarci del titolo di pensante (qualunque cosa questa strana parola voglia dire). Quello che troviamo all’interno dei nostri piatti infatti – per qualche strano motivo – non è più un animale, bensì carne: strappatogli il volto, luogo dell’Altro per eccellenza e specchio nella cui epifania Lévinas riconosceva l’origine dell’etica del comandamento “non uccidere”, siamo finalmente pronti per non riconoscere all’animale morto che stiamo inforcando alcun diritto né alcuna dignità.

da qui

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