mercoledì 15 marzo 2023

Stabilimenti balneari, l’albergo di lusso da 230 euro a pasto che versa 520 l’anno di canone per il lido - Gian Antonio Stella

 

«L’hotel Cala di volpe, a puro titolo di esempio, versa quale canone demaniale 520 euro all’anno…». E meno male che i clienti non leggono le denunce degli ambientalisti del Grig, il Gruppo intervento giuridico! Una coppia di stranieri, per dire, ha lasciato tra i commenti messi online dall’albergo, della catena Mariott, parole estasiate per il lusso e la bellezza del posto, ma santo cielo, «ci è stato consegnato un menu che mostrava un prezzo di 250 dollari a persona per il pranzo a buffet. Che shock pensare a 500 dollari per il pranzo!». Fate voi i conti. Certo, il depliant virtuale magnifica una «cucina per epicurei», al canone balneare probabilmente ne vanno aggiunti altri (non è così facile individuare i dettagli) per il pontile o chissà cos’altro e magari qualche ritocco all’insù ci sarà pure stato. Ma certo non incoraggia leggere sull’ultimo rapporto di Legambiente che «nel Comune di Arzachena ci sono 41 stabilimenti balneari con canone annuale inferiore a 1.000 euro, mentre degli altri 23 non esistono dati». E parliamo della Costa Smeralda.

Possibile? Spiega Legambiente che secondo il Sistema informativo demanio marittimo (S.I.D.) le concessioni balneari nel 2019 erano 10.812. Da allora, nonostante il Covid, sono salite ad almeno 12.166. Più quelle delle tre regioni autonome marine: Friuli, Sicilia e Sardegna. E sono talmente tante che è occupato dai «bagni» quasi il 70% delle spiagge in Liguria, Emilia-Romagna e Campania, e quasi il 90% in luoghi come Pietrasanta, Camaiore, Laigueglia e Diano Marina dove «rimangono liberi solo pochi metri, spesso agli scoli di torrenti in aree inquinate». Una politica di sviluppo insensata, impensabile nel resto d’Europa a partire dalla Francia: «L’80% della lunghezza e l’80% della superficie della spiaggia deve essere libera da costruzioni per sei mesi l’anno: gli stabilimenti vengono quindi montati e poi smontati». Magari!

Ma in cambio di cosa, poi? «Dal 2016 al 2020», accusa la Corte Dei Conti, «la media dei versamenti totali rilevata, pari a 101,7 milioni di euro, risulta inferiore alla media delle previsioni definitive di competenza pari a 111 milioni di euro». Un ottavo di quanto lo Stato dovrebbe incassare, secondo lo stesso proprietario del Twiga Flavio Briatore. Si intende: quando ce la fa a incassare. Una tabella del S.I.D. (ne pubblichiamo a parte un estratto, dati 2020) mostra come lo Stato, a prescindere che poi giri i soldi a questa o quella regione, questo o quel comune, ottiene spesso molto meno di quanto dicano i canoni. C’è chi rastrella la metà, chi un terzo, chi un quarto.

Come Roma che dai suoi stabilimenti balneari sul litorale dovrebbe ricavare 2.432.160 ma risulta sotto addirittura di 1.954.352. Per non dire di casi come Alassio che dagli affitti delle sue spiagge dovrebbe avere 300.378 euro ma riesce a portarne a casa solo 25.279. Un dato regionale? Lo denuncia Pablo Sole in un’inchiesta a puntate sul giornale online indip.it partendo da un dossier interno all’amministrazione regionale sarda: «A fronte di 8,3 milioni di incassi stimati, Regione e comuni ne hanno riscosso appena 5,2. Per strada insomma si sono persi 3 milioni di euro».

A farla corta: sul fronte delle concessioni balneari e della cocciuta insistenza nel tentativo di una parte della destra (e non solo) di rinviare ancora e poi ancora e ancora la messa a gara dei vecchi contratti come chiede la «direttiva Bolkestein» dell’Ue del 2006, recepita obtorto collo (con proroghe a catena) nel 2010 dall’ultimo governo Berlusconi ma mai digerita, la situazione è sempre più pesante. Al punto di unire tra quanti non ne possono più di nuovi rinvii anche sindaci di opposti schieramenti.

Come lo storico braccio destro di Berlusconi a Olbia Settimio Nizzi (che fu addirittura contestato da democratici e grillini locali per la scelta «testarda» di incaponirsi sul tema) e il sindaco di sinistra di Lecce Carlo Salvemini, il primo a fare ricorso contro la famosa proroga al 2035. Ricorso perso al Tar ma stravinto al Consiglio di Stato, che a novembre del 2021 stabilì il divieto di nuove proroghe. Tesi confermata il 1° marzo scorso per metter fine a un andazzo di una parte della maggioranza governativa che pareva teorizzare che forse, chissà, nonostante quel verdetto… Macché. Parole definitive: ogni nuova proroga «si pone in frontale contrasto con la disciplina di cui all’art. 12 della direttiva n. 2006/123/CE, e va, conseguentemente, disapplicata da qualunque organo dello Stato». Fine.

Tanto più che, come ricorda il «giurista-ambientalista» Stefano Deliperi, gli italiani rischiano davvero di pagare di tasca loro la violazione della direttiva europea: «La sanzione minima per l’Italia è stata determinata in 9.920.000 euro, mentre la penalità di mora può oscillare tra 22.000 e 700.000 euro per ogni giorno di ritardo nel pagamento, in base alla gravità dell’infrazione». Questo è il minimo. Poi si vedrà. Un punto è fuori discussione. E cioè che, come spiega ad esempio il sindaco leccese, il nodo principale da sciogliere non è neppure quello delle concessioni «regalate» per una pipa di tabacco ma quello ancora più vitale di definire nuove regole chiare, pulite e trasparenti per la distribuzione, a chi dimostri d’averne diritto, di questo immenso patrimonio demaniale. Che non può appartenere a dinastie familiari o peggio ad amici degli amici perché è un tesoro di cui sono proprietari tutti i cittadini italiani.

da qui

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