«L’hotel Cala di volpe, a puro titolo di esempio, versa quale canone demaniale 520 euro all’anno…». E meno male che i clienti non leggono le denunce degli ambientalisti del Grig, il Gruppo intervento giuridico! Una coppia di stranieri, per dire, ha lasciato tra i commenti messi online dall’albergo, della catena Mariott, parole estasiate per il lusso e la bellezza del posto, ma santo cielo, «ci è stato consegnato un menu che mostrava un prezzo di 250 dollari a persona per il pranzo a buffet. Che shock pensare a 500 dollari per il pranzo!». Fate voi i conti. Certo, il depliant virtuale magnifica una «cucina per epicurei», al canone balneare probabilmente ne vanno aggiunti altri (non è così facile individuare i dettagli) per il pontile o chissà cos’altro e magari qualche ritocco all’insù ci sarà pure stato. Ma certo non incoraggia leggere sull’ultimo rapporto di Legambiente che «nel Comune di Arzachena ci sono 41 stabilimenti balneari con canone annuale inferiore a 1.000 euro, mentre degli altri 23 non esistono dati». E parliamo della Costa Smeralda.
Possibile?
Spiega Legambiente che secondo il Sistema informativo demanio marittimo
(S.I.D.) le concessioni balneari nel 2019 erano 10.812. Da allora, nonostante
il Covid, sono salite ad almeno 12.166. Più quelle delle tre regioni autonome
marine: Friuli, Sicilia e Sardegna. E sono talmente tante che è
occupato dai «bagni» quasi il 70% delle spiagge in Liguria, Emilia-Romagna e
Campania, e quasi il 90% in luoghi come Pietrasanta, Camaiore, Laigueglia e
Diano Marina dove «rimangono liberi solo pochi metri, spesso agli scoli di
torrenti in aree inquinate». Una politica di sviluppo insensata,
impensabile nel resto d’Europa a partire dalla Francia: «L’80% della lunghezza
e l’80% della superficie della spiaggia deve essere libera da costruzioni per
sei mesi l’anno: gli stabilimenti vengono quindi montati e poi smontati».
Magari!
Ma in cambio
di cosa, poi? «Dal 2016 al 2020», accusa la Corte Dei Conti, «la media
dei versamenti totali rilevata, pari a 101,7 milioni di euro, risulta
inferiore alla media delle previsioni definitive di competenza pari a 111
milioni di euro». Un ottavo di quanto lo Stato dovrebbe incassare, secondo
lo stesso proprietario del Twiga Flavio Briatore. Si intende: quando ce la fa a
incassare. Una tabella del S.I.D. (ne pubblichiamo a parte un estratto, dati
2020) mostra come lo Stato, a prescindere che poi giri i soldi a questa o
quella regione, questo o quel comune, ottiene spesso molto meno di quanto
dicano i canoni. C’è chi rastrella la metà, chi un terzo, chi un quarto.
Come Roma
che dai suoi stabilimenti balneari sul litorale dovrebbe ricavare 2.432.160 ma
risulta sotto addirittura di 1.954.352. Per non dire di casi come Alassio
che dagli affitti delle sue spiagge dovrebbe avere 300.378 euro ma riesce a
portarne a casa solo 25.279. Un dato regionale? Lo denuncia Pablo Sole in
un’inchiesta a puntate sul giornale online indip.it partendo da un dossier
interno all’amministrazione regionale sarda: «A fronte di 8,3 milioni di
incassi stimati, Regione e comuni ne hanno riscosso appena 5,2. Per strada
insomma si sono persi 3 milioni di euro».
A farla
corta: sul fronte delle concessioni balneari e della cocciuta insistenza nel
tentativo di una parte della destra (e non solo) di rinviare ancora e poi
ancora e ancora la messa a gara dei vecchi contratti come chiede la
«direttiva Bolkestein» dell’Ue del 2006, recepita obtorto collo (con
proroghe a catena) nel 2010 dall’ultimo governo Berlusconi ma mai digerita, la
situazione è sempre più pesante. Al punto di unire tra quanti non ne possono
più di nuovi rinvii anche sindaci di opposti schieramenti.
Come lo
storico braccio destro di Berlusconi a Olbia Settimio Nizzi (che fu
addirittura contestato da democratici e grillini locali per la scelta
«testarda» di incaponirsi sul tema) e il sindaco di sinistra di Lecce Carlo
Salvemini, il primo a fare ricorso contro la famosa proroga al 2035. Ricorso
perso al Tar ma stravinto al Consiglio di Stato, che a novembre del 2021
stabilì il divieto di nuove proroghe. Tesi confermata il 1° marzo scorso per
metter fine a un andazzo di una parte della maggioranza governativa che pareva
teorizzare che forse, chissà, nonostante quel verdetto… Macché. Parole
definitive: ogni nuova proroga «si pone in frontale contrasto con la disciplina
di cui all’art. 12 della direttiva n. 2006/123/CE, e va, conseguentemente,
disapplicata da qualunque organo dello Stato». Fine.
Tanto più
che, come ricorda il «giurista-ambientalista» Stefano Deliperi, gli italiani
rischiano davvero di pagare di tasca loro la violazione della direttiva
europea: «La sanzione minima per l’Italia è stata determinata in
9.920.000 euro, mentre la penalità di mora può oscillare tra 22.000 e
700.000 euro per ogni giorno di ritardo nel pagamento, in base alla gravità
dell’infrazione». Questo è il minimo. Poi si vedrà. Un punto è fuori
discussione. E cioè che, come spiega ad esempio il sindaco leccese, il nodo
principale da sciogliere non è neppure quello delle concessioni «regalate» per
una pipa di tabacco ma quello ancora più vitale di definire nuove regole
chiare, pulite e trasparenti per la distribuzione, a chi dimostri d’averne
diritto, di questo immenso patrimonio demaniale. Che non può appartenere a
dinastie familiari o peggio ad amici degli amici perché è un tesoro di cui sono
proprietari tutti i cittadini italiani.
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