sabato 29 settembre 2018

Lisbona si ribella al dominio del turismo - Gianfranco Ferraro



Inquilini sfrattati da un giorno all’altro, un mercato immobiliare – tra affitti e prezzo delle case – ormai completamente impazzito, preda della speculazione di fondi immobiliari e di capitali stranieri che hanno trovato nella capitale portoghese la nuova torta da dividersi, un turismo di massa che sta cancellando le vecchie botteghe e i ristorantini di quartiere che hanno fatto per anni di Lisbona e del Portogallo una strana eterotopia tra Europa e Atlantico, per sostituirli con lounge bar, fast food e bed & breakfast che, grazie alle piattaforme online, stanno svuotando la città dei suoi naturali abitanti per fare dei quartieri semplici tendopoli turistiche.
È accaduto tutto in poco più di due anni, ma gli abitanti di Lisbona stentano ormai a riconoscere la propria città, consegnata al mercato della gentrificazione che, come un parassita, vende la città per poi svuotarla di quella stessa forma di vita che era stata pubblicizzata. Un tempo minimo, forse neanche sufficiente per metabolizzare quello che accade e per proporre una resistenza: è così che solo oggi diverse associazioni e sigle riescono a organizzare la prima vera manifestazione di piazza per il diritto all’abitare, con uno slogan preciso: “L’abitazione non è un affare. Lottiamo per le nostre case, per le nostre vite”.
Una manifestazione rigorosamente “apartitica”, come viene specificato in un comunicato degli organizzatori, tra cui la storica associazione Habita, particolarmente vicina in questi anni, con sportelli e con picchetti, ai cittadini sfrattati dei centri storici, così come a quelli dei quartieri popolari e delle baraccopoli che circondano la capitale portoghese, e tra le promotrici, l’anno passato, della Caravana pelo direito à habitação di cui ci ha parlato Luca Onesti. Un lungo corteo, dal vecchio quartiere, ora al centro di una spietata gentrificazione, di Intendente, sino a Cais do Sodré, l’affaccio sul fiume nei pressi della Câmara Municipal (il Municipio della città).
Lisbona vive un’agonia simile a quella che ha colpito le grandi capitali e le città d’arte: se a Venezia c’è – vicino ad una delle ultime antiche librerie della città – un orologio che conta impietosamente il numero dei residenti del centro storico, e a Berlino appena dieci anni era ancora possibile scegliere in quale quartiere vivere, per Firenze, Parigi, Praga, Barcellona, dove la sindaca Ada Colau è stata eletta proprio grazie alle sue battaglie per il diritto alla città, e adesso anche per Napoli, il turismo ha assunto i tratti della grande industria pesante del XXI secolo. Un turismo dai caratteri predatori che cancella la vita delle città in molti modi: aumentando esponenzialmente il prezzo delle abitazioni e riempiendo i luoghi pubblici di tutta una borghesia incolta ed estranea ai luoghi, che, per i pochi spiccioli richiesti ormai dalle compagnie low cost, riesce ancora a catapultarsi da un posto all’altro d’Europa al solo scopo di comprarsi, di fatto, il prossimo selfie da mostrare su facebook.
Lisbona entra in questo mercato immobiliare e turistico globalizzato grazie alle misure della Troika, che, dieci anni fa, ha di fatto costituito il Portogallo in un suo protettorato, grazie soprattutto all’appoggio incondizionato del precedente governo  di centrodestra di Passos Coelho e del presidente della Repubblica Cavaco Silva – e nonostante una storica mobilitazione di massa dei portoghesi – i quali hanno eseguito senza colpo ferire gli ordini di Bruxelles e del FMI, adottando una politica di selvaggia liberalizzazione del mercato immobiliare, e investendo in modo massiccio sulla presenza turistica.
Poco o nulla, in realtà, è cambiato dopo l’avvicendamento governativo che ha portato alla guida del Paese il nuovo leader del Partito Socialista António Costa, sindaco di Lisbona negli anni precedenti, sostenuto da una coalizione che comprende anche, per la prima volta dopo il 1975, la sinistra radicale del Paese: il Partito Comunista guidato dall’anziano segretario Jerónimo de Sousa, e il Bloco de Esquerda, guidato da Catarina Martins, un partito questo che nasce dalla giunzione tra troskisti e tutta una serie di realtà della sinistra che non si riconoscono nel Partito Comunista.
Con un capitombolo politico che ha – insieme – salvato la sua segreteria e lo ha portato alla guida del Paese, Costa ha scelto, dopo le elezioni del 2015, di spostare decisamente a sinistra l’asse politico del Portogallo, rompendo con gli schemi di bilancio previsti dai governi precedenti: il risultato è stato una politica di graduale ridistribuzione del reddito, con provvedimenti sulle pensioni e sui concorsi pubblici particolarmente apprezzati dopo gli anni di crisi, e una impennata del Prodotto interno lordo che negli ultimi anni ha fatto dell’economia portoghese la grande scommessa vinta delle politiche di austerity europee oltre che l’unica del bacino meridionale con indici sistematicamente positivi.
Una crescita che ha trascinato l’attuale ministro dell’Economia, Mario Centeno, al vertice dell’Eurogruppo e che ha portato indubbi vantaggi elettorali al Partito socialista, ormai vicino al 40%, percentuale che lo renderebbe autonomo per la formazione di un governo, in previsione delle elezioni europee del 2019 e politiche del 2020, come anche in realtà agli alleati, Pcp e Bloco de Esquerda, che hanno visto stabilizzarsi il loro monte voti elettorale intorno al 10% ciascuno.
A questo panorama nazionale, corrisponde a Lisbona un’alleanza elettorale tra Partito socialista e Bloco de Esquerda che ha portato alla sindacatura della città il socialista Fernando Medina, quarantenne rampante e pupillo di Costa. Una sindacatura che però non solo non ha impedito la guerra di tutti contro tutti del mercato immobiliare, ma che al contrario ha proseguito lungo le linee tracciate in precedenza, rinunciando a qualunque politica di gestione e di controllo. È solo di pochi mesi fa lo scandalo che ha coinvolto – e costretto alle dimissioni nonostante una strenua difesa da parte del suo partito – il giovane leader del Bloco Ricardo Robles, vereador (assessore) della città, e al centro di un drammatico conflitto di interessi a causa di un palazzo in pieno centro storico venduto dalla sua famiglia sull’onda della speculazione che colpisce la città. Ed è di poche settimane fa anche la notizia della chiusura al pubblico di uno degli storici luoghi di incontro per generazioni di giovani e meno giovani portoghesi, il miradouro di Santa Catarina, meglio conosciuto come Adamastor, per via della statua che lo domina, e che rappresenta la figura mitica raccontata da Camões nei Lusiadi. La causa? Il fastidio provocato dalla presenza di “popolo basso” e di giovani per i clienti di un lussuoso hotel a cinque stelle di recente costruzione. Una causa nascosta con vari slalom verbali dall’amministrazione cittadina, che si nasconde dietro la necessità generica di “recupero dello spazio pubblico”.
Luoghi pubblici interdetti ai cittadini, palazzi storici comprati dal miglior acquirente, anziani – emblematico il caso del quartiere di Castelo – costretti di fatto a spostarsi nell’estrema periferia della città, senza alcun contatto con il mondo in cui sono vissuti per anni. Certo, le città cambiano, e sono sempre cambiate. Cambiano i progetti e le visioni, come testimonia una recente, bella mostra sui “futuri” di Lisbona, ospitata dal Museo della Città e che raccoglie i diversi progetti che nei secoli successivi al grande terremoto del 1755 hanno cambiato il suo volto. Eppure, non sembra un bel futuro quello che si prospetta oggi per la capitale portoghese: manca una visione, che non sia quella di una industria immobiliare privata e turistica che spinge il Pil e sembra così legittimata a permanere come la principale industria del Paese. Questo, mentre tutto l’interno del Portogallo raccontato da Saramago nel suo Viaggio è praticamente abbandonato al suo destino, con paesini al limite del raggiungibile, abitati da (sempre meno) anziani e dove le forme di vita che hanno prodotto tra i migliori vini e formaggi d’Europa, completamente privi di un sostegno statale necessario per poter competere sul mercato internazionale, si vanno rapidamente estinguendo.
Certo, la Lisbona decadente di qualche anno fa, con edifici in rovina e interi quartieri abitati da anziani, non si poteva dire priva di problemi: la piccola e media borghesia portoghese, per prima, si è andata spostando nei quartieri-bene della periferia, lasciando al suo destino il centro della città. Oggi questo centro appare, come appariva Berlino negli anni scorsi, un cantiere a cielo aperto: palazzi puliti, piazze rinnovate, appartamenti comprati, a volte da stranieri, e subito affittati come b&b a volte rinunciando a quel minimo contatto umano tra inquilino e proprietario che passa per la consegna delle chiavi (l’ospite trova le chiavi dentro una cassetta la cui apertura avviene attraverso un codice consegnato via mail), immobili investiti dai capitali di pensionati francesi, italiani, inglesi e tedeschi, attratti spesso solo dalle misure di detassazione previste dal Memorandum della Troika, e poi sempre, pervasiva, incombente, la folla del turismo mordi e fuggi che evita accuratamente di mischiarsi con l’asprezza della città e che distrugge, giorno dopo giorno, quello che era il fascino della capitale portoghese: la quiete, popolata e multiforme, di una collina quasi dimenticata dallo scorrere secolare del suo fiume, il Tago.

La manifestazione di oggi cerca quindi di mettere un punto fermo: un dito sulla piaga di una città che sta perdendo l’anima, e che sembra ormai completamente impotente di fronte all’ultimo maremoto che l’ha travolta (un recente documentario porta, non a caso, il titolo di “Terramotourism”). Si poteva fare diversamente, forse ancora si può, seppure in parte, qualcosa. Perché almeno Lisbona non si consegni definitivamente al destino di tutte le nostre città turistiche: “un guscio vuoto, un fondale di teatro”, come ha scritto recentemente Marco D’Eramo in “Il selfie del mondo. Indagine sull’età del turismo” (Feltrinelli, 2017). E sulla stessa linea questo inquietante ospite che invade neppure tanto lentamente la città, simile al Nulla della Storia infinita, è stato diagnosticato da uno degli intellettuali più riconosciuti tra la nuova leva di scrittori portoghesi, Valerio Romão: “Tutto quello che è vivo e libero dev’essere ricondotto alla logica del parco di divertimenti tematico. Sino a che, di intere città, restino solo gli edifici – rinnovati e silenziosi – e una manciata di figuranti pagati per passare come locali”.
È contro questo destino che la manifestazione di oggi, con migliaia di persone in piazza, ha segnato il primo momento di discontinuità, e forse l’inizio di una battaglia tutta portoghese, ma la cui sfida è globale, per il diritto alla città e all’abitare, uno dei diritti più mistificati e disconosciuti dalle politiche economiche di questo primo quarto di secolo.

venerdì 28 settembre 2018

Redbox puntata 3 - Natalino Balasso

Assenze nella città di sabbia del Sahel - Mauro Armanino



La città di sabbia non ha un nome proprio. I nomi degli scomparsi della città sono scritti sulle pareti di sabbia. Li custodisce in silenzio dopo qualche settimana passata nel vento. Tornano indietro per nostalgia e di norma nei giorni di festa. Lunghe carovane colorate di polvere, camion perduti nella tempesta, velieri in cerca di un porto e mercanti di conchiglie. Tutti assenti all’appello del sindaco della città che si ostina a chiamarli uno per uno, col nome di famiglia, ogni mattina all’alba. Poi la città di sabbia si mette in movimento. Escono prima i bambini che improvvisano tornei di calcio tra un pozzo senz’acqua e una canna. Seguono le donne che vanno lontano a cercare la sorgente e si mettono a vendere scatole di conserva scadute ai primi passanti ancora sonnolenti. Tocca in seguito ai muratori, agli imbianchini e ai sarti che passano in giro con la macchina da cucire sulla testa e sbattono le forbici per attirare i clienti. I barbieri, come dappertutto, aprono tardi la porta del negozio, solo dopo averlo spazzato con cura. Le osterie, i ristoranti e l’unico hotel della città chiudono per mancanza di turisti e di orologio.
Il registro di nascita, di battesimo e di matrimonio non è aggiornato perché le pagine sono sparite in meno di un mese. I luoghi di culto sono visitati almeno una volta la settimana e le ditte telefoniche continuano a fare affari d‘oro. Una chiamata costa un occhio della testa, specie se internazionale, con il prefisso che cambia ogni due giorni. La biancheria dura quanto basta per arrivare a fine serata. I pochi tessitori artigianali ancora in attività organizzano sfilate di moda al lume di candela o quando c’è la luna piena.Si passa la sera a sfogliare calendari, vecchie riviste sportive e a raccontare storie che accadranno l’anno seguente. Alcuni organizzano serate teatrali, quiz con proverbi e, sempre sulla sabbia, redigono la lista dei diritti non ancora rispettati. Un tribunale provvisorio si occupa dei casi di trasgressioni delle leggi in vigore nei confronti delle donne. Non esistono prigioni o matrimoni riparatori. Ogni reato di una certa importanza è punito con lavori di pubblica utilità. Tra questi  c’è la tinteggiatura delle pareti esterne della città di sabbia. Altri invece sono invitati a riscrivere i nomi degli scomparsi.
Questi ultimi sono i cittadini onorari della città. Migranti perduti, donne incinte, madri che attendono i loro figli, amanti che mai si sono incontrati e quanti passati a fil di spada. I loro nomi sono scritti a mano sulle fondazioni della città e solo dopo una rara giornata di pioggia germogliano per qualche ora. A questi si aggiungono, scortati da giovani donne e bambini vestiti a festa, gli ostaggi rapiti per denaro o per sbaglio. La loro cittadinanza è considerata precaria e limitata nel tempo. Mesi, anni, settimane, giorni o secoli. Tutto dipende dalle circostanze o, con maggiore probabilità, dalla direzione del vento. Li hanno portati via nel complice sonno e poi bendati per immaginare il mondo differente. Sono scortati da un’altra parte e, quando infine arrivano nella città di sabbia, non ricordano nulla dell’accaduto. Il riscatto arriva in tempo o quando già soggiornano in città da qualche giorno. Profittano delle ferie per visitare i propri cari e fare il viaggio a ritroso. Si ritrovano tra loro e, malgrado l’età, giocano a nascondino nei giardini pubblici non custoditi. Occasionalmente parlano sottovoce dei loro rapitori e della vita che non sospettavano essere così  distratta.
Loro, invece, arrivano assieme come in processione. La città si dilata per accoglierli. Si tratta dei bambini mai nati che portano, ognuno, un fiore di sabbia appena colto. Sono gli unici ad occupare l’intera piazza che, d’altronde, porta il loro nome per un’intera giornata lavorativa. Tra loro si conoscono e formano un grande cerchio che si apre in continuazione per accogliere i nuovi arrivati. L’appello è rinviato al giorno seguente e quando tutto è pronto cominciano a cantare in silenzio l’unica canzone che hanno imparato a memoria prima di nascere. Assomiglia al suono di una brezza leggera.

mercoledì 26 settembre 2018

Quando è triste essere un bambino - Christopher Brauchl



E’ un momento triste per essere un bambino. Chi lo avrebbe pensato soltanto pochi anni fa? Considerate la Siria, lo Yemen, il Sud Sudan e gli Stati Uniti, tanto per nominare soltanto alcuni dei luoghi dove per i bambini prevale la tristezza.
La guerra è iniziata in Siria cinque anni fa. Oltre 6,1 milioni di Siriani sono fuggiti dalle loro case. Immaginate che cosa vuol dire essere un bambino, senza casa in un paese che si chiama patria, sentendo le bombe che distruggono i quartieri dove prima giocavi, che distruggono la casa da dove sei appena fuggito, la casa in cui hai lasciato i tuoi amati giocattoli e gli animali di pezza. Sei uno dei 2,5 milioni di bambini che si sono dovuti spostare fin dall’inizio della guerra in Siria. Sei triste perché conoscevi qualcuno che era tra i 500.000 siriani che sono stati uccisi fin da quando è cominciata la guerra. Il 14% delle persone uccise negli scorsi 5 anni sono stati bambini come te. Forse puoi trovare conforto nel fatto che fai parte della più grande popolazione  dislocata  nel mondo intero. I bambini sono inclini a pensare che fare parte di qualcosa di grande è qualcosa di cui essere fieri. Non è vero. E se cerchi la tristezza, puoi andare in Yemen.
In Yemen si vive in un paese che ha la più grossa emergenza di sicurezza alimentare in tutto il mondo. Secondo i funzionari delle Nazioni Unite, nel 2017 c’erano 18 milioni di persone in Yemen bisognose di assistenza su una popolazione di 28 milioni. Quel numero comprende centinaia di migliaia di bambini. E’ un momento triste per essere bambini quando si riflette su che cosa è accaduto il 9 agosto 2018. Quello è stato il giorno in cui uno scuola bus che portava degli studenti a fare una gita scolastica, è stato distrutto da una bomba fabbricata negli Stati Uniti dalla Lockeed Martin, venduta all’Arabia Saudita dal governo degli Stati Uniti e trasportato sullo scuola bus su un aereo da guerra della coalizione guidata dai Sauditi. La coalizione comprende gli Stati Uniti. Sono starti uccisi quaranta ragazzi di età compresa tra i 6 e gli 11 anni. 79 persone sono state ferite, di cui 56 bambini. E’ stato un giorno molto triste essere un bambino in Yemen.
E’ un momento triste per essere un bambino se sei nato nel Sud Sudan. Secondo l’agenzia dei rifugiati dell’ONU, 17.600 bambini del Sud Sudan sono fuggiti dal paese fin dallo scoppio della guerra civile in Sudan nel 2013, lasciando lì i loro genitori. Per alcuni dei bambini la loro tristezza è migliorata. Secondo l’agenzia dell’ONU, 433 minori non accompagnati che sono fuggiti in Uganda senza i loro genitori, sono stati riuniti con loro. Rimangono, quindi, all’Agenzia dell’ONU per i rifugiati, soltanto 99,342 casi aperti di tentativi di riunire le famiglie, famiglie che comprendono, in parte, bambini tristi.
E’ un periodo triste essere un bambino se si è un bambino negli Stati Uniti i cui genitori speravano di trovare asilo negli Stati Uniti d’America per andar via da condizioni pericolose nel paese dal quale erano fuggiti. Proprio come i 17.600 bambini che hanno lasciato il Sud Sudan con i propri genitori, anche voi siete stati separati dai vostri genitori quando siete entrati negli Stati Uniti. E’ triste essere un bambino che arrivando negli Stati Uniti non viene separato dai genitori, ma è tenuto in condizioni squallide che non sarebbero tollerate se fossi altro che il figlio di qualcuno che cerca asilo. E’ stato triste che quando tua madre ha detto a uno dei funzionari dell’immigrazione che tuo fratello di un anno aveva bisogno di cibo solido, le è stato risposto che non viveva in un albergo a sette stelle e le è stato detto se preferiva avere un figlio mingherlino o un figlio morto. E’ triste essere un bambino quando un Senatore degli Stati Uniti che visitava un centro di immigrazione dove sono tenute le persone che cercano asilo, riferisce che: “Ci sono bambini da soli…ragazzine di 12 anni che vengono portate via dal resto delle loro famiglie e vengono tenute separate. O ragazzini. Stanno tutti sdraiati sui pavimenti di cemento dentro delle gabbie. Non c’è nessun altro modo di descriverlo.” E’ triste essere un bambino in un paese dove, in riposta a un ordine del tribunale che le famiglie che il governo ha separato vengano riunite, e che alla fine di luglio, 700 famiglie non erano state ancora riunite e il governo aveva difficoltà a chiarire dove si trovavano.
E’ triste essere un bambino in Siria. E’ triste essere un bambino in Yemen. E’ triste essere un bambino nel Sud Sudan. Può essere triste essere un bambino negli Stati Uniti. E’ triste che, a causa degli adulti, ci siano così tanti posti che rattristano i bambini.

Da: Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo
www.znetitaly.org
Fonte: https://www.counterpunch.org/2018/08/24/when-its-sad-to-be-a-child
Originale: Counterpunch
Traduzione di Maria Chiara Starace
Traduzione © 2018 ZNET Italy – Licenza Creative Commons  CC BY NC-SA 3.0

lunedì 24 settembre 2018

Ricostruire comunità - Rebecca Rovoletto


Noi interveniamo dopo la primissima fase dell’emergenza – dice Virginia, giovane geologa di origini spagnole – dopo il momento degli aiuti di prima necessità. Dopo che è passata l’ubriacatura delle donazioni, del paternalismo, della propaganda governativa. Dopo. Quando si comincia a dimenticare che oltre 80 mila abitazioni sono state danneggiate, di cui 22 mila in modo irreparabile, che migliaia di persone e famiglie sono rimaste senza casa, sussistenza, piegate dagli eventi, impaurite”.
A sei mesi dal drammatico sisma del 7-8 settembre 2017 che ha investito il Chiapas (e gli stati di Oaxaca e Tabasco), un gruppo eterogeneo di saperi professionali, quasi esclusivamente al femminile, si autoconvoca, sparge la voce, raccoglie adesioni e si costituisce in collettivo. Si chiama Bioreconstruye México Chiapas e, assieme ad altre associazioni, fa parte di un’ampia piattaforma di mobilitazione civile impegnata nella ricostruzione post-terremoto.

Professioniste e professionisti di varie discipline, spogliati del sussiego accademico, decidono di prendersi cura delle zone di San Cristóbal De Las Casas, di Pijijiapan e Tonalà sulla costa del Chiapas, tra le località più colpite. Lo scopo è andare oltre le necessità dell’emergenza e dell’assistenzialismo, per sostenere l’auto-ricostruzione e rafforzare la resilienza delle comunità, in modo che sviluppino una propria risposta immunitaria agli eventi che possono minacciarle, stimolando modi di vita sostenibili nel rispetto e tutela della natura.
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Coordinato da Mariana, architetta permaculturale, il gruppo chiapaneco ha accolto paure, desideri, conoscenze tradizionali. “Prima di tutto bisogna ascoltare: le persone sanno di cosa hanno bisogno, hanno competenze e sapienza, conoscono il loro territorio e il suo particolare linguaggio”. Da questo ascolto si avvia una ricostruzione partecipata assieme alle comunità. Una ricostruzione fisica, ma soprattutto psico-sociale, delle economie, della fiducia. Ci si cura “della casa e del cuore”.

La prima preoccupazione è naturalmente quella di assicurare un “rifugio” permanente. La chiamano casa semilla, la casa-seme, la cellula della ripresa della normalità della vita. Si tratta di un modulo abitativo base, la cui composizione varia a seconda delle esigenze specifiche e delle abitudini locali. Di rapida costruzione, usa materiali del luogo e tecniche bioedilizie: predilige l’argilla al cemento, mattoni crudi, intelaiature in legno piuttosto che armature di ferro, garantendo un alto grado di antisismicità e salubrità alle strutture. Il gruppo accompagna leconsulte comunitarie, la pianificazione e la progettazione con le proprie competenze professionali, scientifiche e umane, assicurando accesso a informazioni e soluzioni integrate a basso impatto. Quando si parla di biocostruzione “È la Pacha Mama il fornitore”, dice Polette, responsabile del Centro dei Diritti Umani Digna Ochoa che sostiene il progetto.
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“Il principio base è coinvolgere le persone in processi partecipati inclusivi non solo sulle scelte, ma anche negli interventi operativi. Tutti i membri delle famiglie contribuiscono. Le scelte rispettano i desideri e le usanze degli abitanti, gli interventi rispettano le tradizioni, le tecnologie, i materiali locali e biologici – continua Virginia – Noi accompagniamo, coordiniamo e facilitiamo questi processi”. Le protagoniste sono le famiglie: il gruppo Bioreconstruye aiuta l’autoformazione che darà loro le competenze necessarie per riprendersi in mano vita e futuro.
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Questo è anche il momento dell’appoggio psicoemotivo, un passaggio delicato e indispensabile, perché è necessario sanar el miedo. Lo si fa con il contributo diartisti, mettendo in scena opere teatrali, dipingendo murales, esorcizzando la paura e l’incertezza raccontandosi con creatività. Assemblee comunitarie fanno emergere le vulnerabilità condividendo le esperienze nei disastri e che cosa significa abitare in territori a rischio.

Ma un rifugio dalle calamità non basta, è fondamentale la ricomposizione delle relazioni sociali. E le molte culture del Messico e dell’America Latina ci insegnano che la strada maestra è attraverso i lavori collettivi che, in questi casi, riguardano la sicurezza, la salute, l’istruzione. Si inizia, ad esempio, dal fogòn comunitario: un laboratorio partecipato da donne dove si insegna loro a costruire una cucina a basso consumo. Una cucina ecologica, che ottimizza e riduce l’uso di legna per cuocere, asciugare e scaldare. Se prima le donne accendevano semplicemente un fuoco di legna, ora imparano come funziona una camera di combustione, come rendere efficiente quel fuoco costruendo un nuovo tipo di cucina, riproducibile poi ad uso privato nelle rispettive abitazioni.

Il lavoro prosegue sostenendo l’autoformazione, di adulti e bambini, con laboratori di agroecologia, di potabilizzazione e monitoraggio della qualità dell’acqua per evitare contaminazioni, di ripristino delle infrastrutture di base, di gestione dei rifiuti. È un approccio olistico e integrale quello che si vuole operare, che tenga insieme tutti gli aspetti della riproduzione della vita e dei luoghi dove questa avviene. Percorsi e processi complessi, ma alla complessità non si può rinunciare.

Bioreconstruye México Chiapas fa parte della rete Bioreconstruye México, che sta operando in varie zone disastrate, oltre al Chiapas: Oaxaca, Morelos, Città del Messico, stato del Messico e Puebla.
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La rete e i gruppi che la compongono sono impegnati anche sul fronte della comunicazione e sul reperimento di risorse. E qui viene la parte davvero difficile. Assicurare che i fondi raggiungano le vittime in regioni in cui i diritti umani sono continuamente violati è un’impresa titanica. Diffusamente in queste zone vengono sottratti gli aiuti alla popolazione da parte dei militari, i quali li ridistribuiscono a loro piacimento. I camion vengono assaltati quasi quotidianamente sia da parte dell’esercito messicano che dal suo volto informale, ovvero da gruppi di narcos e affini.
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La strategia segue il copione che vuole le popolazioni sloggiate dai territori interessati dai grandi appetiti speculativi, come il parco eolico dello stato di Oaxaca o le miniere di Puebla o le mire immobiliari del Distretto Federale e molti altri. Quindi, ben venga un terremoto se contribuisce a spopolare quelle terre.

È in questo scenario di terribile saccheggio che l’auto-ricostruzione, la riappropriazione del territorio, il continuare a presidiarlo vivendolo è fondamentale per preservare corpi, natura, biodiversità, cultura, identità. Il lavoro di Bioreconstruye México Chiapas e della rete Bioreconstruye México è pienamente in corso. Ad un anno di distanza molte casas semmillas sono state realizzate, altre sono in costruzione, i percorsi collettivi comunitari continuano a co-creare prospettive a medio e lungo raggio. Speranza e fiducia rifioriscono dalle macerie e dall’abbandono; donne e uomini, bambine e bambini scoprono e riscoprono conoscenze e capacità che fugheranno per sempre paura, senso di impotenza e rassegnazione.

venerdì 21 settembre 2018

Una linea irregolare nella sabbia - Mauro Armanino



All’inizio tutto è solo sabbia. La linea arriva subito dopo da mano divina per delimitare lo spazio e l’identità delle sue creature. Il solco si trasforma in ferita per l’uccisione di un fratello ad opera del fratello. Caino e Abele firmano sulla sabbia la prima frontiera conosciuta. Da allora in poi una linea nella sabbia accompagna l’umana avventura fino ai nostri giorni. Quella che attraversa il mondo non è che una continuazione delle precedenti. Linee tracciate per generazioni tra guerre, armistizi, piste carovaniere per schiavi, concubine e mercanzie. Su queste linee sono passate, spesso assieme agli eserciti, idee, culture, navi e religioni. Le nostre invece no. Nel Sahel abbiamo innumerevoli linee nella sabbia che si cancellano dopo averle create. Se ne fanno di nuove ogni giorno che passa. Sono linee irregolari tracciate da pneumatici di fuoristrada che assomigliano al primo solco. Solo sono i nomi e il numero dei fratelli che hanno cambiato.
Alcune linee arrivano a destinazione. Partono da una riva, proprio ciò che il nome Sahel significa, per raggiungerne un’altra. Da lì, come per magia, la linea si getta nel mare e diventa una scia, una cometa, un gorgoglio, un’onda come le altre. Le linee nella sabbia e le linee nel mare si cancellano entrambe dopo essersi faticosamente inseguite. Non risultano registrate da nessuna parte. Si trovano invece nelle punteggiature colorate nelle cartine dei movimenti delle migrazioni irregolari in Africa al sud di Lampedusa. Sono talvolta stimate dalle Agenzie specializzate nelle statistiche del nulla, che prosperano come mai nelle nostre zone. Altre invece no. Non arrivano da nessuna parte perché si perdono prima. Devono scappare, nascondersi, evitare trappole e controlli di milizie pagate per fermarne il tracciato. Sono linee interrotte nel deserto di pietra e di sabbia. Quando due di queste linee si congiungono perdendosi formano in genere una croce di sabbia.
Una linea nella sabbia unisce tra loro i paesi nei bassifondi della classifica dell’umano sviluppo. Stilato dall’apposito Ufficio delle Nazioni Unite ne conferma il tracciato. Ultimo il Niger dove una linea di sabbia diventa strada di laterite tra le foreste che la uniscono al Centroafrica distrutto dalla guerra. Sale al Sudan del Sud che, ultimo nato tra i Paesi del globo, ha la sfortuna di possedere petrolio in quantità. Proprio come il Tchad che cambia la linea nella sabbia in condotti per esportare il petrolio ad uso cinese controllato e garantito. Il tracciato termina nel Burundi, quint’ultimo della classifica, che gioca coi fantasmi del passato per paura del presente. Linee irregolari, clandestine, inaffidabili e inaccettabili per chi vorrebbe che il mondo continui a girare dalla stessa parte, l’unica giusta per loro. Le linee perse nella sabbia sono una delle ultime occasioni per cambiare la direzione delle stagioni della storia. Seguendole passo a passo si arriva da noi.
Siamo diversi da voi. Non facciamo ponti levatoi, palizzate o muri di mattoni. Non scaviamo fossati o trincee dietro le quali barricarci per paura dei barbari. Facciamo a meno dei vostri permessi di soggiorno temporaneo a chi vi offre garanzie di tranquillità. Ripudiamo i vostri trattati e le alleanze rinnovabili a vostro piacimento. Non ci illudono le vostre promesse di solidarietà umanitaria e neppure i vostri discorsi sui diritti umani. Vendete armi ad entrambi i belligeranti e poi li fate sedere al tavolo di pace da voi presieduto. Credete, siamo diversi da voi. Ci limitiamo a scrivere sulla sabbia e a tracciare una linea che il vento cancella al suo passaggio. Su questa linea inesistente fabbricate reticolati e piazzate sensori pronti a ringhiare come cani addestrati alla caccia di stranieri. Formate addetti per i controlli di una frontiera  che avete deciso di costruire per dare lavoro alle vostre imprese coloniali. Date soldi ai nostri politici perché allontanino ogni traccia possibile della linea scavata nella sabbia. Non vi siete accorti che dalla linea di sabbia hanno incominciato a nascere alberi e fiori.

mercoledì 19 settembre 2018

Gli alberi si piantano, non si abbattono - Maria Rita D'Orsogna




Ecco allora un altro studio, statunitense, sul potere degli alberi urbani. La conclusione: ogni dollaro speso per albero porta a due dollari ed un quarto in ritorno alla comunità, negli Usa almeno. È evidente che la popolazione mondiale cresce, e anzi già adesso più di metà della popolazione mondiale vive in centri urbani, con problemi di smog, inquinamento, affollamento. Gli alberi portano a tanti miglioramenti: aiutano a ripulire aria e suolo, riducono i rischi di allagamenti, portano a diminuzione locale della temperatura, abbattono il rumore, aiutano la pollinazione, portano attività ricreative, riducono lo stress.
Lo studio è stato eseguito da David Nowak, docente dell’USDA (US Department of Agriculture) Forest Service e da Scott Maco del Davey Institute. I due hanno pure sviluppato una app chiamata i-Tree Tools (www.itreetools.org) che studia la relazione fra gli alberi e l’ambiente circostante a livello locale. Il software mette in relazione l’altezza, le dimensioni della chioma e l’area delle foglie di un albero o di una serie di alberi con tutti i “servizi” associati.
I due si sono concentrati in particolare su dieci città, dieci “megacittà” con una popolazione di più di dieci milioni di abitanti in tutto il loro hinterland: Pechino, Buenos Aires, Il Cairo, Istanbul, Londra,  Los Angeles, Mexico City,  Mosca, Bombay, Tokyo. L’hinterland de Il Cairo era il più piccolo di 1,200 chimometri quadrati, quello di Tokyo era invece a 19,000. I due hanno studiato la distribuzione arborea da Google Maps, selezionando cinquecento punti e classificandoli in base al grado di verde che ospitavano. Lima (Perù) ha solo l’1 per cento coperto di alberi, New York invece ha il 34 per cento.

Viene fuori che mettendo tutto insieme, il risparmio sull’aria condizionata, sui pericoli di inondazione, sulla cattura dell’acqua dopo le piogge, sul sequestro di anidride carbonica, sui risparmi sui costi sanitari da inquinamento, gli alberi portano a 967mila dollari di valore per ogni chilometro quadro di parco urbano.
I due hanno pure studiato tutte le possibilità di aumentare la superficie di alberi piantati nel mondo, e viene fuori che il 18 per cento delle aree metropolitane delle città analizzate potrebbe essere sfruttato per piantarci più alberi, come per esempio al lato dei marciapiedi, dentro superficie adibite a parcheggi a cielo aperto o aree abbandonate. E se si usano alberi che crescono in altezza, li si possono piantare un po dappertutto, con il tronco solo che occupa spazio e poi la chioma in alto.
Intanto negli Usa dove crescono le spinte dei residenti verso aree sempre più verdi, si calcola che il verde urbano raddoppierà nei prossimi decenni. Per ora negli Usa ci sono 5.5 miliardi di alberi urbani che producono circa 18 miliardi di dollari in benefici alla comunità.
E in Italia? Io non credo che ci sia necessariamente bisogno di tutte queste cifre per capire che gli alberi portano solo benessere e benefici, e non capisco perché li si continui ad abbattere. Come sempre, gli alberi si piantano, non si abbattono.

martedì 18 settembre 2018

Nessun governo potrà piegarci - Laura Carlsen



Mentre si fanno più dure le frontiere tracciate dall’alto, dal basso le resistenze iniziano a convergere come fiumi sotterranei. È così che la Patagonia – quella terra lontana e quasi mitica per la maggior parte della popolazione del pianeta – si distingue come un campo di battaglia strategico nella lotta tra la vita e la morte, che oggi affrontiamo.
Le riserve di acqua più grandi e più pure del pianeta si trovano in Patagonia, congelate nei ghiacciai e fluenti nei suoi fiumi e laghi, sia sul lato del Cile che nella parte situata nel sud dell’Argentina. Lì ci sono anche grandi foreste e biodiversità, oltre ad essere un’area che serve a misurare – e diminuire – l’avanzamento del cambiamento climatico. È il territorio ancestrale del popolo mapuche, e ora è in disputa per le incursioni delle grandi corporation transnazionali e dei super ricchi. I mega-progetti estrattivisti, come quelli idroelettrici e minerari, e la privatizzazione del suo territorio, al fine di trasformarlo in un rifugio per magnati, minacciano il futuro del popolo che è stato il custode di questa parte di mondo.
“Stiamo recuperando il territorio, perché sfortunatamente, nel caso del popolo mapuche, viviamo in un paradiso che è la tentazione delle grandi corporation e di famosi multimilionari che infilano i loro tentacoli estrattivisti e ambiziosi, nel nostro territorio”, afferma Moira Millán, weychafe (chi difende del popolo mapuche) e componente della Marcha de Mujeres Originarias.
La lotta e la repressione del popolo mapuche in Cile sono più note, ma anche in Argentina i Mapuche stanno conducendo una resistenza per la difesa del loro territorio dalla fine del XIX secolo, quando lo Stato lanciò “la Conquista del Desierto”, con la quale cercò di cacciarli e privarli dei loro territori e delle loro risorse. Successivamente, negli anni ‘90, lo Stato ha promosso la vendita della terra a prezzi irrisori, come se là non esistessero le comunità indigene, né tanto meno i loro diritti.   
Tra gli acquirenti, spiccano l’impresa italiana di maglieria del marchio globale Benetton, che ha comprato quasi un milione di ettari di terre ancestrali, l’attore Sylvester Stallone, il finanziere George Soros e altri ricchi e famosi che ora possiedono interi laghi e montagne per utilizzo privato.
L’attuale governo dell’Argentina ha intrapreso una lotta feroce contro i popoli originari, con assassinii – come quello più recente di Rafael Nahuel, per mano della polizia-, incarcerazione politica e criminalizzazione dei difensori della terra.
In questo momento Moira Millán affronta l’accusa di violenza aggravata, per la sua partecipazione a una manifestazione pacifica. Il 27 giugno è stata trattenuta dalla polizia in aeroporto con una denuncia chiaramente legata alla repressione del movimento e, in base all’ingiunzione, deve presentarsi il 19 settembre per un’udienza. Lei è dirigente e una voce imprescindibile  per la liberazione del suo popolo e del suo territorio, e che ha lottato in modo integrale, come mapuche, donna e madre.
Il nostro corpo-territorio e il territorio-corporale sono un’unità indivisibile per noi [donne mapuche].  L’accanimento contro di noi proviene dalla debolezza del sistema capitalista e patriarcale”, ha affermato in una dichiarazione, l’8 marzo. Con lo slogan “libera determinazione sul nostro territorio, i nostri popoli e i nostri corpi”, la sua organizzazione, la Marcha de las Mujeres, difende questa visione.
Moira è anche una internazionalista, ha viaggiato in ogni parte del mondo per parlare della lotta del popolo mapuche, e ora si sta promuovendo una campagna globale per la sua assoluzione con l’hashtag  #ReclamarJusticiaNoEsUnDelito.
Mentre Moira affronta l’attacco giudiziario, cresce la campagna uscita dal Primo Parlamento di Donne Originarie, in aprile, chiamata “Nos queremos plurinacional. Si tratta di portare una proposta al prossimo 33° Incontro Nazionale delle Donne a Trelew, provincia di Chubut, in ottobre, per la piena inclusione delle donne indigene. Se votano questa proposta in territorio mapuche, si potrebbe fare storia ottenendo una vera confluenza tra il movimento delle donne e il movimento indigeno, per costruire – nelle parole delle donne indigene organizzate – un movimento più democratico, con una visione anti-sistemica e a favore della costruzione del buen vivir.
In questo modo, si tratta di cancellare le recinzioni delle terre privatizzate, cancellare l’assedio mediatico e cancellare le frontiere erette tra i movimenti per la liberazione, che dividono e che cercano di ostacolare con ogni mezzo, permettendo una reale convergenza delle lotte che potrebbe salvare il pianeta e noi stesse.
Il Movimiento de Mujeres Indígenas por el Buen Vivir, sottolinea che: “La nostra lotta come donne indigene nell’unità, non finisce con la liberazione delle prigioniere e dei prigionieri politici bensì con la liberazione dei nostri territori. Abbiamo secoli di resistenza; nessun governo ha potuto piegarci”.  Adesso è necessario che altre donne e persone in generale, riconoscano in questa resistenza una via per proteggere la vita, che è il filo che tutti condividiamo.

Per aderire alla campagna per l’assoluzione di  Moira Millán, questi sono i contatti:
per la stampa:  Evis Millán +5492915745857
Facebook: Movimiento de Mujeres Indígenas por el buen vivir.
* Articolo pubblicato su Desinformémonos con il titolo La Patagonia, la lucha mapuche por la sobrevivencia del planeta
Traduzione per Comune-info: Daniela Cavallo

lunedì 17 settembre 2018

Rapine, attentati e cannabis: il costo della criminalità in Sardegna - Monia Melis




C’è un costo pagato da tutti per ogni atto criminale, dall’atto vandalico all’omicidio. Un giro di soldi, in passivo, che segue la mappa dei flussi di denaro in chiaro e ha un peso più alto lì dove c’è più ricchezza. La nostra Isola non è ovviamente immune da queste dinamiche che per la prima volta sono state analizzate – con alcuni complicati calcoli – da tre ricercatrici dell’Osservatorio criminalità dell’Università di Sassari. Lo studio è poi diventato un capitolo del Quinto rapporto, a cura della professoressa Antonietta Mazzette, La Criminalità in Sardegna. Reati autori e incidenza sul territorio (edito da Edes). Si tratta appunto del primo tentativo in assoluto in Sardegna e l’obiettivo è sia elaborare una stima – seppur parziale – dei costi delle azioni criminali, sia tracciare alcune tendenze già in atto. Tra tutte si possono citare il boom della coltivazione della marijuana sia in campo aperto o in serre domestiche con sistemi sempre più sofisticati e l’organizzazione che sta dietro gli assalti ai portavalori. Al momento le analisi si sono focalizzate su tre tipi di reati: attentati alle auto, rapine e coltivazione di marijuana.
Il team che ha chiuso il lavoro sui dati del 2016 e del 2017 è formato da Maria Gabriela Ladu, docente di Economia Politica nel corso di laurea in Scienze Politiche e dell’Amministrazione (dopo una laurea in Scienze politiche a Cagliari, un master in Economia alla Coripe di Torino e un secondo master a Essex, in Inghilterra). Le altre autrici del report sono Manuela Pulina (Professore Associato in Politica Economica all’Università di Sassari) e Domenica Dettori  (laurea in Giurisprudenza e tecnico del dipartimento di Storia dello stesso Ateneo). A livello nazionale esistono ovviamente dei precedenti (tra tutti quelli di Claudio Detotto e Marco Vannini, nel 2010): l’ultima stima dei costi sociali del crimine – fatta su 18 tipi di reato  è pari in Italia a 38miliardi di euro, il 2,6 per cento del Pil. Un trend che si ripete anche negli Usa, con un impatto sul Pil attorno al 2 per cento. E lo schema potrebbe ricalcarsi in scala più ridotta, ossia regionale.

La mappa e il censimento dei crimini sardi e la ‘complementarietà’
La mappatura dei crimini in Sardegna è appunto ‘parziale’ ma significativa. Le ricercatrici si sono infatti concentrate su tre reati a cui Sardinia Post dedicherà di settimana in settimana un singolo approfondimento. Ci sono le rapine (dagli scippi, a quelli contro banche e supermercati fino ai portavalori),  gli attentati alle automobili e gli atti vandalici e la coltivazione di cannabis. Coltivazione che avviene sia in aperta campagna sia in contesti urbani in serre al chiuso, oggetto di un precedente report dello stesso Osservatorio. Il lavoro sui costi segue lo schema di catalogazione e ‘censimento’ portato avanti non attraverso le informative giudiziarie ma con le notizie di stampa. Una selezione ristretta ai due principali quotidiani cartacei La Nuova Sardegna e L’Unione Sarda. “Sappiamo che queste narrazioni possono essere lacunose – spiega Ladu a Sardinia Post – ma in ogni caso le informazioni necessarie sarebbero difficili da reperire e la sistematicità utilizzata dagli organi di informazione è un buon punto di partenza. Anche perché ricavare i costi da dati statistici può essere davvero molto complicato”. I reati scelti, seppur molto diversi, sono concatenati l’un l’altro. “In un certo senso – spiega Ladu – possono esser pure complementari”. E il riferimento va soprattutto al traffico di stupefacenti e alle rapine di spessore. La divisione geografica dello studio non ricalca quella amministrativa (province) bensì quella dei Sll (Sistemi locali del lavoro): ossia gruppi di comuni omogenei in cui le persone si spostano, lavorano, consumano, vivono. I tipi di costi analizzati sono di tipo diretto – sostenuti dalla vittima per esempio, nel caso dell’auto incendiata – manca un’analisi su quelli indiretti (mancati stipendi, danneggiamento di proprietà e spese pubbliche volte ad incrementare il livello di sicurezza). A cui si aggiungono quelli immateriali: sia psicologici, sia da intendersi come mancata produttività. Disagi a cascata che coinvolgono non solo la vittima diretta, ma comunità intere.

Costi alti dove girano più soldi. Le sorprese: il boom di droga in Gallura, Oristano città di vandali 
A livello nazionale nelle province di Roma e Milano la criminalità ha un costo più elevato: le attività criminali producono una perdita pro capite, rispettivamente, pari a 37,60 e 34,30 euro, cifre riferite al 2015  secondo il rapporto sul “Danno della criminalità comune” di Dugato e Favarin (2016). Al contrario, le province con i costi più bassi d’Italia sono sarde: quelle dell’Ogliastra – fino a tre anni fa, almeno -, Oristano e Medio-Campidano. L’ultima in particolare detiene il record del costo più basso pari a tre centesimi ad abitante contro la media nazionale che arriva a 12 euro e 50 centesimi a testa. “Una possibile interpretazione di certo è che dove girano più soldi, si concentrino più reati che sollevano anche il costo medio della criminalità – spiega Ladu -. E così succede anche in Sardegna: l’impatto a livello regionale è più alto, in Gallura, a Olbia dove si arriva nel 2017 sono stati sequestrate denaro e droga per potenziali introiti pari a sei milioni di euro, l’anno precedente erano fermi a un milione e mezzo”. Non solo la città- capoluogo, il fenomeno supera i confini cittadini ovviamente e investe la zona, o meglio il Sistema locale del lavoro. E così Arzachena, capitale della Costa Smeralda, ha un costo che sfiora gli 88 euro pro capite (nel paniere c’è soprattutto il peso del traffico e produzione di stupefacenti). L’incidenza e il ‘peso’ economico della produzione, del sequestro di stupefacenti e  del denaro è una delle sorprese per le stesse ricercatrici, anche se il fenomeno è noto: “Si tratta di un vero record – commenta Ladu – con un giro da 10 milioni di euro e sistemi sempre più organizzati di coltivazione, il rischio che dietro ci possano essere organizzazioni criminali interessate a questo tipo di business in Sardegna è molto alto”. A Thiesi, paese dell’interno – nel Sassarese – un milione di euro. Se si considera solo la marijuana ai primi posti ci sono ancora una volta non città ma centri più piccoli: Macomer, Ozieri e Desulo, con sequestri di droga e denaro pari rispettivamente a 4milioni e cento mila, due milioni e mezzo e un milione di euro. Da questo si può intuire quanto le stime non siano complete e ricalchino sequestri e ritrovamenti che possono essere pure casuali e sbilanciare – viste le macro dimensioni delle piantagioni – le statistiche. L’altra sorpresa riguarda Oristano, considerata la città più tranquilla d’Italia, con il minor numero di reati secondo il bilancio sulla criminalità stilato da Il Sole 24 Ore su dati del ministero dell’Interno (1.768,6 ogni centomila abitanti) con un recente calo dell’11,8 per cento. Ebbene, nelle strade della città della giudicessa Eleonora d’Arborea nel 2017 le auto bruciate solo aumentate dell’85,7%, con un danno di circa 2,14 euro a persona. L’indizio di un fenomeno? “Non si può affermare, se non con serie storiche più lunghe e complete – dice Ladu -. Si può trattare di episodi concentrati in poche notti, di certo – al di là della preoccupazione dei sindaci – le forze dell’ordine affermano che dietro le auto bruciate o distrutte non c’è la criminalità organizzati ma banali motivi personali”. Di diversa matrice, e ad alto rischio, sono invece le rapine di un certo livello, come gli assalti ai portavalori e ai caveu con bottini milionari – clamoroso il caso di Sassari – e la produzione e il confezionamento di sostanze stupefacenti, tra tutte appunto la cannabis. E spunta in alcuni casi la complementarietà tra i due tipi di reato: il primo serve a procurare fondi da investire in sistemi di coltivazione sofisticati e per il pagamento della cosiddetta ‘manovalanza’ poco qualificata. A chi siano collegate le menti – e quali siano i reali mercati – dei nuovi business in Sardegna è la nuova sfida per gli investigatori.

venerdì 14 settembre 2018

Elogio della disomogeneità - Franco Lorenzoni




PER UNA SCUOLA CHE CONTRIBUISCA
ALLA COSTRUZIONE DI UNA SOCIETÀ APERTA
A PARTIRE DAL RICONOSCIMENTO RIGOROSO
DELLA DIGNITÀ DI OGNI ESSERE UMANO.

Nel 70° anniversario, ripartiamo dalla Carta universale dei diritti dell’uomo
Care colleghe e colleghi insegnanti,
come tanti mi domando in questi mesi cosa sia possibile fare per arginare la crescente intolleranza verso chi emigra nel nostro paese. Come educatore, non posso tollerare che una ragazza di Milano che ha il padre africano confessi a sua madre che ha paura a uscire di casa. Il clima nel nostro paese sta mutando a una velocità impressionante e credo che, per contrastare il veleno del razzismo, noi insegnanti siamo chiamati a ripensare in modo radicale il nostro ruolo, perché abbiamo responsabilità ineludibili riguardo alla difficile costruzione di una società aperta.
A scuola ci troviamo in una situazione delicata, ma in qualche modo privilegiata. Ogni giorno, infatti, ci troviamo a lavorare in classi multietniche che rendono necessario il nostro ruolo di mediatori attenti e di costruttori di una cultura della convivenza, dai nidi alle superiori.
La scuola italiana è abitata da spinte divergenti. Da un lato è certamente il luogo pubblico di maggiore accoglienza e integrazione dei figli degli immigrati e, prima in Europa, da quarant’anni anni accoglie alunni portatori di disabilità, dall’altro tollera ancora al suo interno situazioni in cui vengono messe in atto piccole e grandi discriminazioni inaccettabili. 
Non è facile e non sempre siamo all’altezza dei compiti che ci affida la Costituzione, quando invita a “rimuovere gli ostacoli” che “impediscono il pieno sviluppo della persona umana”. Eppure giorno dopo giorno, spesso a fatica, in decine e decine di migliaia cerchiamo di trasformare le nostre classi in piccole comunità aperte, capaci di non escludere nessuno.
Non dobbiamo dimenticare mai che il fascismo, prima di essere movimento politico, crebbe nel diffondersi di una mentalità. E che la mentalità intollerante e razzista stia crescendo intorno a noi è un dato di fatto.
Le scuole sono luoghi in cui sperimentiamo la complessa arte della convivenza
Le nostre scuole sono uno dei pochi spazi in cui in tante e tanti sperimentiamo con continuità e convinzione la costruzione di frammenti significativi di quella complessa arte della convivenza di cui abbiamo assolutamente bisogno.
Gli esiti sono contraddittori e disuguali e non sempre ne abbiamo la consapevolezza necessaria. Per questo dobbiamo moltiplicare le occasioni per incontrarci, cooperare, studiare e progettare una scuola all’altezza dei compiti dell’oggi.
È urgente e importante far conoscere in tutti i modi possibili il lavoro e l’impegno di bambini e ragazzi che, insieme ai loro insegnanti, soprattutto in territori difficili, danno vita a rari e preziosi presidi di democrazia. Luoghi di costruzione culturale capaci di non separare l’apprendimento dell’italiano e di un suo uso consapevole, lo studio approfondito di matematica, scienze, storia, lingue, arti e movimento, con lo sviluppo di una capacità di ascolto tra diversi, con una frequentazione del dialogo e dell’argomentare rigoroso, capace di dare spazio al confronto tra idee diverse.
Per fare tutto ciò c’è bisogno di un tempo lungo e disteso e dunque dobbiamo compiere scelte radicali, diminuendo la quantità di contenuti e aumentando i momenti di ricerca e di approfondimento, verificando e dando peso ai dati e prendendoci cura delle parole che usiamo, all’opposto di ciò che prevalentemente si fa oggi nella società e nei media.
La geografia che oggi abita le nostre classi ci offre una possibilità inedita di riflettere e ricercare intorno allo stato della condizione umana nel pianeta che abitiamo. Se abbiamo la capacità di sostare a lungo attorno a domande cruciali, memorie di lingue diverse e molteplici storie possono intrecciarsi e ravvivare lo studio, aiutandoci a comprendere meglio ciò che si muove nel mondo.
Dobbiamo assumerci la responsabilità di dare un ampio respiro culturale a ciò che sperimentiamo quotidianamente nelle scuole. Dobbiamo coordinare i nostri sforzi perché le tante piccole scoperte che andiamo facendo possano crescere, diffondersi e, soprattutto, dare coraggio a chi subisce le pressioni di una società sempre più chiusa.
Da trent’anni nel nostro paese si insulta e si denigra la cultura. Si tagliano fondi alle biblioteche, alla ricerca, alla scienza e alla preservazione attenta dell’arte e del paesaggio. Le conseguenze le paghiamo ogni giorno, perché prendersi cura del territorio, così come del discorso pubblico, è un processo che richiede tempo, impegno, intelligenza, dedizione e tanto lavoro, mentre per distruggere basta un decreto o un tweet indecente ad effetto.
Il ruolo di chi insegna è oggi sottovalutato e spesso vilipeso. Ma paradossalmente, proprio in questa situazione di estrema difficoltà, possiamo ritrovare le ragioni e il senso del nostro operare, che deve nutrirsi di una visione di ampio respiro eandare necessariamente oltre i muri della scuola.  
Solo la costruzione di una società multietnica capace di ascolto reciproco ci può aprire al futuro
Diversità è bellezza è uno slogan che rischia di essere retorico. Va riconosciuto francamente che diversità è anche fatica, percorso lungo di avvicinamento da affrontare con determinazione e lungimiranza. A partire dalle scuole siamo chiamati oggi a dimostrare che l’inevitabile società multietnica e multiculturale in cui viviamo e sempre più vivremo, può essere più ricca, stimolante e aperta al futuro, dunque più vivibile e sicura, di una società chiusa in se stessa, impaurita e rancorosa.
C’è bisogno di una persuasione convinta e di un impegno straordinario da parte di noi insegnanti perché mai come oggi l’educazione e la sperimentazione sociale vengono prima della politica, largamente screditata, specie tra i più giovani. È una sfida a cui non possiamo sottrarci che può coagulare nuove energie e ravvivare entusiasmi, aiutandoci a ridare senso e respiro al nostro mestiere.
Abbiamo il dovere di preservare, migliorare e ampliare la capacità inclusiva delle nostre scuole sapendo che tutto ciò non è possibile, senza una contemporanea capacità di influenzare il discorso pubblico, senza dare un contributo culturale ampio per affrontare i nodi della convivenza tra diversi.
L’arretramento culturale di cui siamo testimoni mina le fondamenta della nostra convivenza civile, conquistate con la Resistenza e delineate nella nostra Costituzione e nella Dichiarazione universale dei diritti umani.
Ci sono voluti 68 milioni di morti, di cui 43 milioni di vittime civili, perché 192 stati del nostro pianeta arrivassero, al termine della seconda guerra mondiale, a sottoscrivere una dichiarazione universale in cui si afferma solennemente che “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti”. In quella dichiarazione, votata esattamente 70 anni fa, il 10 dicembre del 1948, nell’articolo 7 si afferma che “Tutti sono eguali dinanzi alla legge, tutti hanno diritto ad una eguale tutela contro ogni discriminazione, come contro qualsiasi incitamento a tale discriminazione”.
Nelle nostre città e in tutta Europa si torna a parlare di confini da presidiare e difendere come non accadeva da decenni. Si alzano muri, steccati e fili spinati e si chiudono porti. La parola invasione viene rilanciata di continuo nei media e nel discorso pubblico a dispetto di numeri e dati. Ma di fronte ad un incitamento alla discriminazione, che non aveva mai avuto sostegno all’interno delle istituzioni repubblicane, non bastano denunce ed appelli, pur necessari. Dobbiamo rendere sempre più le nostre scuole luoghi di costruzione culturale consapevole e cosciente, capaci di testimoniare che è possibile, utile ed efficace non escludere nessuno.
Per un’alfabetizzazione alla compresenza nel nome di Erodoto
Le differenze culturali e di abitudini possono essere profonde, ma non dobbiamo dimenticare i tanti aspetti elementarmente umani che ci accomunano tutti. Il problema è che barriere e pregiudizi si possono attenuare solo se si ha l’occasione di incontrarsi e di fare qualcosa insieme, non limitandosi a guardarsi in cagnesco, da lontano.
In questo processo di avvicinamento la scuola può svolgere un ruolo fondamentale, perché è l’unico luogo dove obbligatoriamente tutti i bambini e i ragazzi convivono e si scambiano esperienze. Ecco allora che anche un nido comunale può essere un luogo di conoscenza e di scambio tra madri di diverse culture, che forse hanno molto da insegnarsi le une con le altre, come alcuni esempi positivi dimostrano.
Dalle scuole dell’infanzia alle superiori, solo intrecciando memorie, vite ed esperienze si può ambire alla costruzione di una società aperta, in cui si riescano ad attenuare le paure guardando oltre.
La scuola non può non essere al centro di questo difficile processo, perché è qui che compiamo la nostra prima alfabetizzazione alla compresenza ed è qui che possiamo elaborare un convinto e convincente elogio della disomogeneità, impegnandoci a dimostrare che tra diversi si impara meglio, anche se all’inizio può apparire più difficile.
Nonostante guerre, scontri e invasioni, il mar Mediterraneo è stato culla di ricche civiltà perché era facilmente navigabile e da sempre ha favorito ogni genere di scambi. Non c’è crescita culturale senza un continuo attraversamento di confini.
Erodoto, il primo storico, era figlio di una greca e di un persiano. Figlio di due popoli in guerra tra loro. È dal suo sangue misto che è nato uno degli ambiti di ricerca più ricchi di futuro, perché capace di far tesoro delle memorie più diverse.
Una proposta concreta per l’anno scolastico che inizia
Il Movimento di Cooperazione Educativa ha promosso il tavolo di lavoro “Bambini, migranti, umanità”, a cui hanno già aderito oltre trenta associazioni (tra cui la redazione di Comune, ndr).
Concretamente si tratta di raccogliere e coordinare più forze ed energie possibili. Invitiamo singoli insegnati, colleghi di classe o di scuola, interi collegi di docenti perché promuovano o aderiscano a iniziative molteplici, che dobbiamo inventare e sviluppare insieme nell’intero anno scolastico a partire dall’autunno costruendo, intorno al 10 dicembre, momenti pubblici e corali capaci di ricordare, rilanciare e festeggiare i 70 anni della Dichiarazione universale dei diritti umani, dentro e fuori le scuole.
Studiare in modo partecipe e approfondito questo fondamentale testo collettivo, così come tornare alle parole della nostra Costituzione, ci può aiutare a ragionare in positivo, costruendo dal basso la capacità di avere uno sguardo attento e critico verso ciò che accade intorno a noi, offrendo a bambine e bambini, a ragazze e ragazzi strumenti per intendere le dinamiche lunghe della storia senza restare intrappolati nelle angustie del presente. La scuola può e deve coltivare la lungimiranza necessaria a immaginare e costruire un futuro di apertura e inedite compresenze e convivenze, se saremo capaci di difenderci dai veleni dell’intolleranza.
Tre date possono scandire momenti di ricerca dentro le scuole e momenti pubblici in cui confrontarci: il 3 ottobre, giornata che il Parlamento italiano, con voto unanime, decise di dedicare alla Memoria delle vittime dell’emigrazione, il 20 novembre, anniversario della Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, e il 10 dicembre, in cui ricordiamo i 70 anni della Dichiarazione universale dei diritti umani.
Per un primo scambio di informazioni sulle iniziative si può consultare il sito del MCE . Il coordinamento che ha dato vita lo scorso anno alle iniziative a favore dello Ius soli e dello Ius culturae mette a disposizione la pagina del gruppo facebook “Insegnanti per la cittadinanza”.